Se le esposizioni universali
hanno come scopo quello d’illustrare al mondo un assaggio di futuro, il mondo
che propone (o meglio, impone) l’Expo di Milano suscita una cospicua dose di
sconforto. In uno sfavillante, e spesso anche esteticamente assai gradevole,
susseguirsi di padiglioni quasi tutti a rappresentanza di un’istituzione
nazionale, gli allestitori delle varie strutture espositive hanno indubbiamente
fatto il maggiore sforzo a loro concesso, anche a livello di mezzi economici,
pur d’incantare il visitatore con effetti tecnologici dal grande impatto sensoriale
(molto gettonata la sensazione della pioggia, senza parlare dell’assortita
possibilità del touch-screen in ogni sua possibile declinazione).
Il problema, infatti, non sta nel
modo in cui il visitatore viene «intrattenuto». Anzi, quest’obiettivo si può
considerare pienamente raggiunto: che si tratti, giusto a titolo d’esempio,
dell’esperienza 4D a chiusura del padiglione kazako oppure dell’incantevole
bosco a rappresentante dell’Austria oppure ancora degli avvolgenti aromi del
Marocco, esperienze di piacevole svago e relax riescono a soddisfare qualsiasi
palato.
Un visitatore interessato ad una
disquisizione di quello che formalmente doveva essere il tema portante
dell’evento, «Nutrire il pianeta, energia per la vita», farebbe bene però a non
liquidare l’Esposizione come un’occasione sprecata, come una presa in giro ove
il tema della nutrizione viene rimpiazzato da una planetaria competizione di
marketing. All’Expo non vi è infatti alcun fraintendimento: la nutrizione
trasformata in spettacolo pacchiano a sola disposizione di chi si può
permettere il biglietto d’ingresso non è nient’altro che l’esito naturale di un
percorso dove la superficialità è un precetto religioso, la dimensione del
presente l’unica concepibile e, soprattutto, il rapporto tra gli uomini si
riduce esclusivamente a quello di fornitore-consumatore.
L’ingiustizia più profonda
ricoperta da una mano di pittura ipnotica e accattivante è esattamente ciò che
trasmette l’Esposizione, nel cuore dello sfavillante trionfo del mondo su
misura di Epulone. Come nella parabola biblica, infatti, il mondo che trova in
Expo la sua compiuta agiografia (nonché un perfetto modello a cui rifarsi) è
quello dell’onnipotente bulimico che, intento a divorare il suo pasto
abbondante, limitandosi a lasciar cadere qualche briciola dal suo tavolo riceve
gli sperticati ringraziamenti dell’esercito di disgraziati accucciati ai suoi
piedi ed interamente dipendenti dalla discrezionalità dell’ingordo signore.
Gli Epuloni del mondo non esitano
a mostrarsi in Expo in tutta la loro boriosa sicurezza, con la spavalda
rivendicazione di esserne i dominus incontrastati. Talmente incontrastati da
tenere alle loro dipendenze, come vedremo più in seguito, anche la loro
opposizione. E dove non si fanno vedere con maggior chiarezza, gli Epuloni sono
comunque onnipresenti: si arriva a camminare letteralmente sopra il frutto del
loro profitto e, addirittura, di tale frutto ci si ciba prima di partecipare
all’evento e dopo averlo lasciato.
Parliamo del cemento, non solo
quello che ricopre i cento ettari dell’esposizione vera e propria ma
soprattutto il cemento delle tre Grandi Opere che grazie all’Expo hanno trovato
il miglior pretesto per essere prontamente eseguite, per la grande gioia di
speculatori e politici ad essi contigui che da almeno trent’anni aspettavano il
momento giusto per seppellire 1090 ettari di terreno agricolo e 202 ettari di
bosco (da Luca Martinelli, «L’Expo mangia la terra», Altreconomia, 05/05/2014)
sotto le insegne della Pedemontana, della BreBeMi e della Tangenziale Est
esterna a Milano. Almeno dieci miliardi di soldi pubblici allegramente serviti
sul piatto degli Epuloni del cemento «a cui», aggiungono Off Topic e Roberto
Maggioni in «Expopolis» (pagg.138-139), «andrebbero aggiunti quelli per strade
di collegamento, parcheggi, raccordi e raddoppio di strade statali». L’ormai
ex-ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi aveva stimato in 3,8 miliardi il
costo pubblico delle infrastrutture connesse all’evento (costo momentaneo,
questo è chiaro, dal momento che è assai difficile concepire quanto opere del
genere costino effettivamente sul lungo periodo in termini ambientali e
idrogeologici). La sicurezza l’abbiamo semmai su chi ha il maggior guadagno da
questa speculazione. Un nome da tenere a mente, perché nelle vicende connesse
all’evento ritornerà come un abile burattinaio pronto a tenere nello stesso
momento la marionetta del personaggio buono e del personaggio cattivo, disposto
addirittura a farli bisticciare tra loro nel bucolico spettacolo di un
dibattito sull’agroalimentare italiano che pare acceso ma in realtà vede
l’accordo di tutti. Ci si riferisce a Intesa Sanpaolo, colosso finanziario tra
i più attivi nel sostenere le infrastrutture ruotanti attorno ad Expo nonché
prima partner di Expo nonché istituzione a cui verranno affidate le chiavi di
ciò che diventerà l’area che ospita l’evento dopo la sua conclusione. Superfluo
immaginare come verrà adoperata quella zona (altro cemento), meno superfluo è
raccontare come abbia fatto Intesa Sanpaolo a raggiungere tale monopolio
sull’evento: tutto inizia quando la società pubblica che si occupa dei terreni
per l’evento, Arexpo, necessita assolutamente di 220 milioni di euro. Pur di
ottenerli, garantisce la totale discrezionalità in termini di cementificazione
all’istituto di credito che si assume l’onere di sganciare i quattrini
necessari il prima possibile. Nonostante ciò, la richiesta non incontra
soggetti interessati; è a questo punto che, come descritto nel volume
«Expopolis» (pagg.110-112), la giunta Pisapia «decide quindi di approvare una
fideiussione di 55 milioni» a cui fa seguito, siamo nell’ottobre del 2012,
l’apertura delle buste. Qui arriva la sorpresa, dal momento che «dentro c’è una
sola offerta, quella di Banca Intesa. Che si aggiudica la partnership,
ovviamente. Intesa diventa quindi la banca di Expo. Sul tavolo mette 23,2
milioni cash, 10,5 milioni di prestazioni bancarie e […] quella linea di
credito da 180 milioni, una parte dei 220 chiesti nel primo bando andato
deserto». Assai indicativo il fatto che all’epoca a guidare la Compagnia San
Paolo, de facto la Fondazione che gestisce il pacchetto azionario di
maggioranza della banca, sia Sergio Chiamparino, uno tra gli esponenti di
maggiore spicco del Partito Democratico; restituendo di conseguenza l’ennesima
immagine di un settore pubblico e di un settore privato ove la differenza
d’interessi diventa talmente sovrapponibile da essere rappresentata dalla
medesima persona.
Nutrire il pianeta? Di nutrimento
si tratta sicuramente, ma sul beneficiario è lecito serbare qualche sospetto;
tanto più se si tiene in mente quanto scriveva Greg Clark su un volume
pubblicato solo pochi anni orsono («Cosa succede in città. Olimpiadi, Expo e
grandi eventi: occasioni per lo sviluppo urbano», edito dal «Sole 24Ore»,
pagg.54-55): «Non ripeteremo mai abbastanza quanto sia importante sfruttare
l’organizzazione di un evento come catalizzatore per programmi di sviluppo o di
riqualificazioni esistenti».
Expo, quindi, come pretesto per
proporre un nuovo (anche se tanto nuovo non sembra) modello di sviluppo. Basta
questa frase per comprendere, e non solo dal punto di vista della speculazione
ambientale, una delle anime fondanti dell’evento. A proposito, sapete da chi è
firmata la prefazione del libro di Clark? Da Sergio Chiamparino.
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