Se ad Expo diradiamo l’avvolgente
nebbia di effetti speciali e ci premuriamo con cura di sbucciare tutte quelle
che sono le promozioni turistiche dei vari Paesi (ci sono padiglioni incentrati
esclusivamente su questo: Ecuador, Colombia, Uruguay, Polonia, Cile, Indonesia,
Vietnam e qualche altro), si riesce a scorgere qualche idea su ciò che
l’Esposizione intende disporre per «Nutrire il pianeta».
Il punto di vista, lo si nota già
a qualche metro dall’entrata, è smaccatamente schierato: la parte del leone è
giocata infatti dagli onnipresenti, ben posizionati e mai estranei alla vista
padiglioni dei grandi sponsor, talvolta con la sfacciataggine di collocarsi nel
cuore dei cosiddetti cluster il cui scopo è quello di offrire uno spazio
espositivo anche alle nazioni con minori disponibilità (disponibilità che in
totale sono ammontate comunque a circa 45 milioni).
In tal modo appena entrati ci
ritroviamo sulla sinistra l’invitante banco di Casa Algida, pronta a sponsorizzare
i prodotti dell’omonima azienda espressione di Unilever. La stessa Unilever che
nella gestione della fabbrica Hindustan Lever Ltd. è stata sovente soggetta a
procedimenti giudiziari da parte dell’India per i vari tentativi di
estromettere qualsiasi forza sindacale, la stessa Unilever che acquista
abbondanti quantitativi di olio di palma alla Wilmar (tristemente nota come tra
le maggiori responsabili della deforestazione indonesiana, con tanto di pesanti
intimidazioni verso le popolazioni locali), la stessa Unilever che costringe i
lavoratori delle piantagioni indiane di tè a vedere costanti decurtazioni dei
salari e segrega i braccianti del Kenya in «cubicoli» senza servizi igienici
dove far vivere intere famiglie, la stessa Unilever che in Pakistan arrivò addirittura
ad assoldare la polizia locale per costringere alcuni lavoratori a
sottoscrivere contratti sindacali privi delle garanzie previste dalla legge e
che, infine, talvolta rifila ai propri consumatori prodotti OGM.
Appena sulla destra, se si
desidera un momento di ristoro, non resta che lasciarsi cadere sulle
poltroncine offerte dalla Ferrero, non altrettanto generosa nei confronti dei
contadini a cui i fornitori di cacao, olio di palma e tè sottopongono i loro
dipendenti e nemmeno altrettanto con i loro cospicui consumatori, se è vero
che, almeno secondo Greenpeace, si registra un singolare silenzio di fronte
alla richiesta di non adoperare organismi geneticamente modificati nei suoi
prodotti.
Proseguendo più avanti ecco il
civettuolo store della Perugina, che non tutti sanno essere affiliata della
Nestlè (la quale fra l’altro ad Expo gode di un iper-interattivo padiglione
affiancato a quello della Svizzera) che non tutti sanno essere tra le
responsabili dell’alta mortalità infantile in paesi come il Bangladesh in
«virtù» dei consigli, spesso autentici raggiri, che invogliano le madri ad
alimentare i propri bambini con latte in polvere dell’azienda. Verso i bambini
la Nestlè ha una discreta bramosia, se è vero che sfrutta, in condizioni
paragonabili alla schiavitù, centinaia di ragazzini nelle piantagioni di cacao
della Costa d’Avorio. Senza considerare i gravissimi danni ambientali dovuti
alle piantagioni illegali di caffè responsabili di pesanti deforestazioni o gli
altrettanto atroci sospetti di coinvolgimenti dell’azienda sia in azioni
squadriste condotte contro rappresentanti sindacali sia addirittura nel
misterioso omicidio del sindacalista Luciano Enrique Molina.
Non manca ovviamente
l’organizzatissimo padiglione della Coca-Cola, tanto disponibile nell’offrire
bevande fresche ai suoi avventori (sperando che dentro l’intruglio non ci sia
polvere di ferro, come denunciato nel 2006 da un consumatore giapponese) quanto
spietato nelle più scellerate violazioni dei diritti umani (basti considerare
che tra il 1990 e il 2008 nella sola Colombia dodici sindacalisti sono stati
assassinati e 179 sono state le aggressioni). Né poteva mancare la
gettonatissima McDonald’s, tra le prime responsabili della distruzione della
foresta amazzonica al fine di lasciare spazio alle coltivazioni di soia.
Sono loro a forgiare buona parte
dello spirito alimentare di Expo, a partire dall’acqua (venduta come merce
qualsiasi dalla Nestlè) fino a redigere de facto di loro pugno la «carta di
Milano», ossia quello che dovrebbe rappresentare il lascito moralmente più
rilevante dell’Esposizione. A ispirare tale documento è infatti la Fondazione
Barilla, legata strettamente all’omonima azienda responsabile (secondo
Flai-Cgil) di licenziamenti mascherati, responsabile dello sversamento in
atmosfera nel solo 2006 di 60 milioni di chili di gas serra e, dulcis in fundo,
titolare di finanziarie collocate in Lussemburgo.
Le raccomandazioni, che trapelano
dal documento ma in realtà filo conduttore di tutta l’Esposizione, finalizzate
a sconfiggere la malnutrizione del pianeta si possono riassumere in (quelli che
seguono sono estratti della «Magna Charta»): «Individuare e denunciare le
principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione
degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e
ridistribuire le eccedenze», «creare strumenti di sostegno in favore delle
fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli
attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita
delle eccedenze alimentari» e infine «che il cibo sia consumato prima che
deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si
deteriori». Stando a quanto si prescrive, pare che la fame nel mondo dipenda
soltanto da come si comporta il tipico consumatore occidentale con gli avanzi
della sua cena: al posto di buttarli dovrebbe elargirli a chi ne ha bisogno.
Tale semplicistico (al limite del
grottesco) modo di pensare non solo esime di ogni responsabilità i magnati dell’agro-industria
e della grande distribuzione scaricando ogni colpa sul consumatore finale (il
quale si ritrova sottoposto ad un autentico processo fin dal «padiglione zero»),
ma ritiene perfettamente regolare sia la ripartizione delle ricchezze, economiche
e naturali, sia l’iter di creazione e trasformazione del cibo che invece dovrebbero
essere i protagonisti indiscussi di un dibattito sulla fame nel mondo. Nel
mentre quindi i cittadini poveri sono trattati come dei cani da compagnia a cui
riservare i rimasugli di ciò che resta sul tavolo quando i benestanti sono sufficientemente
sazi e nel mentre si vede nell’obesità (affrontata alla stregua di un hobby) la
visibile causa di cosa significa sottrarre risorse alimentari a chi non ne
possiede (senza minimamente osservare che, più che la quantità, è la
scarsissima qualità dei prodotti alimentari che i grandi colossi propinano a
suscitare anomalie nella salute), della scandalosa concentrazione in pochissime
mani di tutti i punti nevralgici dell’alimentazione, dalla terra alle fasi di
trasformazione e commercializzazione (dove fra l’altro si concentra più di un
terzo dello spreco, tra lo scarto di frutta non esteticamente perfetta e date
di scadenza talvolta piazzate con notevole anticipo) si decide semplicemente di
stendere un velo di silenzio.
Lo stesso comparto prettamente
agricolo viene affrontato senza mai tenere conto di quanto ammonti
effettivamente il terreno coltivabile sul pianeta: secondo la Fao abbiamo a che
fare con 4,1 miliardi di ettari, quanto basta non solo per nutrire a piena
sufficienza tutti i suoi abitanti, ma anche per disporre di materiale da
costruzione, fibre da tessere e persino una superficie boschiva estesa trenta
volte più dell’Italia. Ammetterlo però significherebbe riconoscere
implicitamente l’aberrante gestione delle risorse agricole, a partire dagli
allevamenti da carne arrivando fino alla recente moda del biocarburante, che da
solo arriva a divorare un quarto della produzione statunitense annua di mais e
frumento senza la presenza di autentiche garanzie di convenienza.
Si preferisce invece suscitare
allarme su come fare per rendere più produttivo il terreno, e ambigui
riferimenti alla «genetica» (specie nei padiglioni francese e tedesco, tra i
pochissimi ad affrontare tematiche connesse all’agricoltura) lasciano presagire
quale sia la strada imposta dai colossi agro-alimentari globali: gli OGM.
Se lo chiedeva con una sana dose
di malizia Cinzia Scaffidi, membro di spicco del movimento Slow Food, in un
articolo su «La Stampa» del luglio 2014: «Come mai tutto quest’agitarsi,
proprio adesso e proprio qui, su questo tema [gli OGM, ndr.]? Per via del
semestre italiano di presidenza europea, diranno alcuni…Ma il semestre italiano
non è la sola ragione…Esso, infatti, finirà, e cederà il passo, pochi mesi
dopo, a un altro grande appuntamento, l’Expo 2015, nel quale le aziende che
producono semi gm per l’agricoltura saranno presenti e forse desiderano trovare
un Paese meglio disposto, verso di loro, di quanto lo sia oggi. Questa specie
di campagna stampa si spiegherebbe così con la necessità di offrire alle
multinazionali un pubblico italiano meno critico rispetto agli OGM in
agricoltura. O, semplicemente, già talmente stufo di sentirne parlare che si
lascerà scivolare addosso gli slogan e i toni da crociata che oggi sembrano
caratterizzare i sostenitori di quel tipo di biotecnologia».
Meritano un applauso solo solo
per la schiettezza, affermazioni di questo tipo. Se non fosse che Slow Food del
sistema Expo ne figura tra i protagonisti, pronta a dimostrare (insieme ai
compari Eataly e Coop) un’opposizione di facciata ad uso e consumo dei medesimi
colossi finanziari e industriali talmente potenti da manovrare non solo i
contenuti dell'evento, ma addirittura la sua più influente contestazione. Questo sarà il
prossimo argomento affrontato.
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