Solo qualche anno fa il
politologo Ilvo Diamanti dava alle stampe un gustoso volumetto, «Gramsci,
Manzoni e mia suocera» in cui s’ironizzava sul fatto che mentre i vari esperti
cantavano in coro il requiem delle appartenenze politiche nella società, la
ripartizione dei risultati elettorali dimostrava al contrario come il bacino di
consenso delle diverse tradizioni culturali fosse collocato geograficamente in
maniera quasi identica dai tempi della nascita della Repubblica.
L’insorgere a suo modo
rivoluzionario del berlusconismo, con una carica populista refrattaria verso
ogni struttura sociale ed eredità storica, non aveva quindi scalfito in maniera
consistente l’equilibrio della Prima Repubblica tale per cui prender parte ad
una categoria o abitare in una certa regione comportava quasi automaticamente
l’appoggio di un determinato schieramento politico. Visto col senno di poi, si
comprende come quello a cui abbiamo assistito nel primo ventennio della Seconda
Repubblica era soltanto un accanimento terapeutico ben distante già da qualche
decennio dalla tensione ideologica genuinamente onesta che, almeno a grandi
linee, aveva caratterizzato il furore ideologico della cosiddetta «repubblica
dei partiti».
Ora, comunque, ogni finzione si
può dire definitivamente conclusa. Le recenti elezioni amministrative sono una
prova talmente lampante (al punto da essere per molti traumatica) di come la
società non si muova più secondo criteri tradizionali o quantomeno coerenti
rispetto alle precedenti scelte elettorali.
La politica nel senso di
partecipazione pubblica finalizzata al perseguimento di un progetto coerente e
articolato è pressoché distrutta e sostituita troppo spesso da un fetido conglomerato che vede, talvolta
contemporaneamente, l’imporsi del favoritismo personale, del tornaconto
familiare, del profitto aziendale fino ad arrivare direttamente al voto di
scambio. Una realtà che mostra tutta la sua evidenza nelle amministrazioni
locali purtroppo tradizionalmente vincolate da antiche e ramificate ragnatele
corruttive (la Campania in primis), ove nemmeno la gestione
estremamente personalizzata delle più consistenti forze politiche (nello
specifico il Pd renziano) riesce nell’obiettivo di mettere ombra allo
strapotere dei signorotti del territorio. Anzi, finisce per galvanizzarli: l’incapacità
(e comunque il totale disinteresse) a fornire dei chiari contenuti in termini
d’idee fornisce il diserbante più efficace per essiccare una sincera
partecipazione interna, un proficuo dibattito e, di conseguenza, una classe
dirigente responsabile maturata dopo una strutturata gavetta.
Il trionfo dell’interesse
personale nell’immediato periodo ha quindi comportato un tacito patto sociale
grazie al quale l’amministrazione della cosa pubblica viene completamente
delegata ad organismi esterni o per mera incapacità oppure in cambio di qualche
prebenda spesso nemmeno troppo consistente. Emblematica, in tal senso, la
sorpresa esplicitata da Salvatore Buzzi nel vedere la fila (la fila!) di
esponenti politici capitolini disposti (anzi, desiderosi) a vendergli la
gestione del bilancio locale pur di ottenere in cambio l’assunzione di qualche
familiare quando non direttamente una percentuale (nemmeno troppo elevata) sui
tanto ingenti quanto spregevoli traffici del dominus delle cooperative romane.
Casi di elevatissima portata ma
non diversi nella sostanza rispetto ai cedimenti che i potentati alla stregua
di De Luca elargiscono all’intricato intreccio d’interessi non solo necessario,
ma ahimè indispensabile al fine di conseguire la vittoria elettorale.
L’indignazione pubblica e lo
stracciarsi le vesti di fronte al malaffare della «casta» finisce per frenarsi
bruscamente quando gli stessi membri della suddetta sono in grado di erogare
privilegi personali riuscendo addirittura a far passare figure come De Luca o
Emiliano o, se vogliamo, anche Raffaele Fitto come vera alternativa «vicina al
popolo». E pazienza se vicinanza, in questo caso, diventi sinonimo di
collusione. Del resto, l’indignazione popolare continua imperterrita a
rivolgersi contro i «partiti», negando in tal modo l’evidenza rappresentata dal
fatto non solo che ora tutti i partiti sono definitivamente scomparsi ma che
questo deterioramento sia esso stesso la base dello scadimento della gestione
amministrativa.
La spinta del «cambiamento»,
questa più sentita nelle scelte elettorali di tipo nazionale e (specie nei
grandi territori) talvolta di tipo locale, assume quindi da tempo un
significato distorto. Cambiamento a livello di facce, cambiamento spesso
generazionale, cambiamento finanche disposto a portare una concreta e
rinfrancante ventata di moralizzazione delle classi dirigenti (è il caso dei 5
Stelle) ma mai viene auspicato a livello sociale un reale cambiamento in grado
di sradicare una volta per tutte le illegalità quotidiane che continuano a
costellare la vita di buona fetta di elettorato, prima fra tutte l’evasione
fiscale, tema che fatica a trovare un vero spazio in tutte le forze politiche,
comprese quelle più sensibili al tema dell’onestà. A dirla tutta, il
cambiamento così tanto efficace a livello elettorale è un cambiamento che si
premura anzi di alleggerire ancor di più gli oneri personali, primo fra tutti
le tasse.
Ed è proprio il tema fiscale uno
di quelli più determinanti per capire come mai il Pd renziano, dopo aver perso
la quota più ideologizzata del suo partito, non è riuscito ad attrarre a sé la
quota di elettorato cosiddetto «moderato».
Lottare contro i corpi intermedi
(in primis il sindacato), ridicolizzare la magistratura, offrire una leadership
pronta a supplire il cittadino dal fastidioso onere della partecipazione
politica e negare perciò ogni conflitto sociale non sono bastati al
premier/segretario dem per implementare la propria percentuale all’interno di
questa gigantesca opera di corteggiamento. Nonostante un consenso ancora
sostenuto (tutto sommato non così sgradevole per un partito alla guida del
governo da più di un anno) Renzi ha però fallito miseramente il suo obiettivo.
I colpi di martello abbattuti contro ogni residuo d’intermediazione politica,
necessari per forgiare il (per ora) superato partito della Nazione, sono stati dati
per lo più a vuoto, colpendo istituzioni e organismi che poco scaldano il cuore
del dibattito pubblico quotidiano, monopolizzato appunto dal fisco e dai flussi
migratori; temi non a caso scippati con sfacciata disinvoltura dalla nuova
fiamma dei cittadini, l’arrembante leader leghista Matteo Salvini, forte prima
di tutto di un’ossessiva presenza televisiva (a maggio ben sette ore e un
quarto di «tempo di parola» nelle sole reti generaliste) ahimè essenziale per
ottenere un consenso cospicuo. E sebbene sarebbe ingiusto liquidare il voto
leghista esclusivamente come sintomo d’ignoranza (in fin dei conti sull’immigrazione
la linea del «rispettabile» Cameron non è molto diversa, senza parlare del
concordo unanime sull’esigenza di trovare alternative abitative per i rom),
sarebbe ancor più pericoloso inseguire l’elettorato di Salvini dando attuazione
alle sue agghiaccianti parole d’ordine.
Invece, considerati gli
interventi rilasciati dal premier negli ultimi giorni, sembra che almeno in
parte la linea sarà proprio questa. Non vi è alcuna volontà di recuperare il
terreno perduto finora, al contrario s’intende procedere con maggior attenzione
nell’opera di accalappiamento dell’elettore «moderato», con il consueto tono
ottimista distante anni luce da quello dell’altro Matteo, ma non per questo
meno restio a lasciarsi avvolgere da un sentire popolare sempre più svogliato e
a dir poco impermeabile verso ogni slancio verso la partecipazione e la
condivisione. Lo sconcertante dato dell’astensionismo ne rappresenta la più
palese, ma non l’unica, testimonianza.
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