Eataly, Coop e Slow Food sono i
vertici di un tenace triangolo comodo per perseguire i medesimi obiettivi dei
grandi operatori dell’agro-industria con la differenza di suscitare
l’ammirazione di un certo elettorato sedicente «di sinistra». Il rapporto fra i
tre è talmente vincolato da diventare talvolta indistinguibile: se Eataly
rappresenta «il principale sbocco commerciale per i prodotti dei Presidi»
targati Slow Food (da Tommaso Venturini, «Il nostro pane quotidiano: Eataly e
il futuro dei supermercati», pag.406), è anche vero che «a partire dal 2004, un
gruppo di 4-5 persone di Slow Food comincia a incontrare i piccoli e medi
produttori piemontesi e italiani per selezionare una rosa di nomi per Eataly»
(Venturini, pag.82). E ovviamente a questo punto s’inserisce il terzo attore;
prosegue Venturini (pagg.84-85): «Una volta individuato Slow Food come partner
capace di fornire a Eataly la competenza enogastronomica, Oscar Farinetti [il
guru di Eataly, ndr.] si mette alla ricerca di altri soci al fine di assicurare
al suo progetto sostegno finanziario ed esperienza del settore della
distribuzione alimentare…La scelta cade quasi inevitabilmente su Coop. Molte
sono le ragioni che determinano l’esistenza di un’affinità elettiva tra Eataly
e Coop…Per Eataly, Coop rappresenta dunque un alleato più che solido e per
Coop, Eataly rappresenta un investimento importante in termini di visibilità e
prestigio, ma in nessun caso un possibile competitor. Inoltre, da alcuni anni
Coop ha stabilito una solida collaborazione con Slow Food nel recupero delle
tradizioni gastronomiche italiane. In particolare, le cooperative Coop sono tra
i principali sponsor di molti dei Presidi». Senza il consistente appoggio di
Coop Liguria e Piemonte e Coop Adriatica (che arrivano ad acquisire il 40% di
Eataly distribuzione) si può star certi che il nome di Farinetti sarebbe
sconosciuto ai più. Ad ogni modo, la stima di cui gode Farinetti non si può
certo definire unanime, soprattutto dopo le polemiche sul trattamento riservato
ai suoi dipendenti (otto euro orari e abbondanza di perquisizioni) in cui
risulta coinvolto anche Slow Food se si tiene a mente il fatto che è proprio
quest’ultimo a occuparsi di una parte della formazione dei dipendenti Eataly.
Farinetti, comunque, rappresenta
il prodotto migliore nella divulgazione del Verbo anti-egualitario
dell’agro-industria. Se almeno i rappresentanti di Slow Food preferiscono
nascondersi dietro un imbarazzato silenzio, il capo di Eataly non ha remore di
alcun tipo, forte fra l’altro di un solido sodalizio, corredato da frequenti
corrispondenze via sms, con Matteo Renzi (di cui Farinetti doveva
originariamente diventare nientemeno che ministro).
I salari ridicoli? «Se lo Stato
ci toglie un po’ di tasse e rende sexy assumere, allora possiamo anche
aumentare gli stipendi». Lavoratori sottoposti a costanti perquisizioni? «Chi
ha un reddito basso e non ha coscienza civica è spinto a rubare. Li abbiamo
beccati» (peccato che a fornire il «reddito basso» sia lo stesso Farinetti). Le
istituzioni pubbliche? Da distruggere. Proprio così: «Un terzo dei politici
sono uguali a noi, un terzo meglio di noi e un terzo peggio di noi. Dobbiamo
individuare quel terzo migliore di noi, che conosce anche la macchina amministrativa
perché dobbiamo distruggerla, e per distruggerla bisogna conoscerla, hai
capito?». Distruggiamo pure i servizi essenziali e gli ultimi tremolanti
baluardi di eque possibilità per tutti. Ci penserà la grande imprenditoria di
cui Farinetti rappresenta l’aedo più sfacciato a rimpiazzarlo con criteri
facilmente intuibili.
Nel frattempo, la grande
imprenditoria internazionale ha già provveduto a fornire plasticamente il
modello perfetto di un mondo a sua immagine e somiglianza: Expo Milano 2015. Lo
diceva anche Carlin Petrini, in un articolo dall’eloquente titolo, «Solo
cemento sui campi dell’Expo» («La Repubblica», 12/07/2011): «Siccome al Bie [l’istituzione
proprietaria del marchio Expo, ndr.] l’unica cosa che interessa sono le
royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l’Expo, è chiaro
che la sua visionarietà- e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro
sottoscrivendo la sua pochezza- si riduce a quello: pecunia» e lo ribadisce
spesso e volentieri, una volta (era il maggio 2014) arrivando a descrivere
l’Esposizione come «senz’anima, il sito è una ferita sul territorio» (da Luca
Zorloni, «Il Giorno» del 30/05/2014).
Un gran peccato che tra coloro
che «sono andati dietro» ad Expo figuri anche lui, con un luminoso padiglione
piazzato come conclusione del Decumano. Certo, lo fa aderendo ad Expo dei
Popoli, una bizzarra associazione che mira a «rappresentare la complessità
della società civile impegnata sui temi della sovranità alimentare, del diritto
al cibo, all’acqua, alla terra e alle altre risorse, nel percorso che porterà
verso Expo 2015 a Milano» (così sta scritto sull’apposito sito web). Certo, lo
fa con una rivendicata funzione critica che, però, non traspare concretamente
da nessuna parte.
E a fare compagnia in quest’opera
di addolcimento della pillola di Expo provvede anche Cascina Triulza, «il
padiglione espositivo della Società Civile» (i cui componenti sono stati
attentamente scelti da Expo in base a un bando di gara) ove sul manifesto della
Fondazione omonima compare l’impegno di realizzare «una società equa» e «uno
sviluppo umano sostenibile». Tra i firmatari, Compagnia delle Opere (ossia
Comunione e Liberazione), Confcooperative e Legacoop Lombardia. Alla faccia
dell’equità…
All’Esposizione non manca
ovviamente Eataly, con un poderosissimo padiglione ricco di ristoranti, né
ovviamente potevano essere assenti Coop e Granarolo. Tutti compatti come un sol
uomo a celebrare il mondo della massima diseguaglianza dove l’estrema
degradazione del lavoro diviene uno dei punti fondamentali. Del resto, come
asserisce ossessivamente Farinetti, per fare più giusto il mondo basta saperlo
narrare bene, ed Expo in questo è un esempio di ammirevole efficacia; si
osservi, ad esempio, come viene spacciato il lavoro gratuito per l’Esposizione
sul sito web volunteer.expo2015.org: «Essendo parte del team di Volontari per
Expo 2015…acquisirai competenze e conoscenze uniche…rendendoti partecipe di un
contesto, internazionale, multiculturale e multilingue che sarà un percorso
formativo e di crescita…un network di relazioni vere basato su entusiasmo,
energia, talento, intraprendenza, voglia di fare ed esperienze diffuse, che
potrà esserti utile anche nel tuo futuro». Non solo il volontario deve
rinunciare a qualsiasi remunerazione, ma si trova addirittura a sostenere un
costo (sia di alloggio, sia di pasto) pur di spaccarsi la schiena in nome di
Expo.
Pagare per lavorare. Queste le
nuove frontiere del lavoro nell’éra della disoccupazione dominante e
dell’estrema precarizzazione. Lo ammise lo stesso governo Letta, definendo
questo sistema «un modello nazionale». Con tanto di approvazione da parte dei
principali sindacati.
Nonostante il confortante flop di
questa iniziativa (se nel luglio 2013 si auspicavano 18.500 volontari,
nell’ottobre 2014 a stento si raggiungeva quota 7mila), il trattamento a cui
sono sottoposti i dipendenti remunerati di Expo (comunque non più di 3.738
nell’estate 2014, checché venga decantato l’evento come opportunità
occupazionale) non si discosta molto dalla logica degradante.
L’urgenza dei lavori in vista
dell’evento (la stessa urgenza che in Italia ha favorito più di ogni altra cosa
mazzette e criminalità più disparate) ha spinto Cgil, Cisl, Uil ed Expo 2015 ad
un accordo siglato il 25 luglio 2014 tra le cui clausole figurano: «Nessun
limite sulla quantità di contratti a tempo determinato…che si possono stipulare
per il personale di gestione dei padiglioni. Apprendistato breve per favorire
l’occupazione giovanile. Una disciplina prestabilita per orari di lavoro,
riposi, ferie e permessi. Infine, un armistizio sulle agitazioni sindacali:
niente ricorsi al giudice né agitazioni “salvo i casi in cui siano in campo
valori democratici e di dignità dei lavoratori”». Non solo. La disciplina
prestabilita degli orari prevede infatti «che il riposo fra un turno e l’altro
possa essere ridotto a 9 ore in particolari circostanze; le ferie dovranno
essere godute fuori dal periodo dell’Expo e l’orario di lavoro, straordinari
compresi, potrà essere elevato a 48 ore settimanali. Questo tipo di contratti
potrà essere utilizzato fino al 31 maggio 2016».
I principali sindacati firmano e
controfirmano, con una convinzione tale che (da Rita Querzè sul «Corriere della
Sera» dell’11/11/2014) la Cgil di Bergamo si spinge addirittura a proporre
nuove compressioni dei diritti dei lavoratori: «Per evitare il blackout dei
trasporti pre-esposizione universale…niente scioperi in cambio di un tavolo
aziendale che metta qualcosa in tasca a tranvieri e dipendenti degli
aeroporti». Nonostante l’evidente prova d’affetto e generosità, i novelli
«padroni» hanno però declinato la gentile offerta.
Questo per quanto riguarda il
presente.
Ma da che mondo è mondo le
Esposizioni universali servono a profilare le novità che ci prospetta
l’avvenire, e lo svilimento dell’occupazione è uno snodo cruciale per i magnati
dell’agroalimentare. Provvede Coop a mostrarci negli spazi espositivi di Expo
il futuro che ci attende su questo versante, seguendo la logica che già da
qualche anno viene imposta nelle direttive ai fornitori di passate: bisogna a
tutti i costi garantire il «rispetto dei diritti dei lavoratori, anche passando
attraverso un aumento della quota di raccolta meccanizzata, in particolare per
quanto riguarda i pomodori» (da «Coop consumatori», edizione Reno, pag.24).
In altre parole, bisogna
usufruire al massimo delle innovazioni tecnologiche non per migliorare la vita,
bensì per ridurre il numero dei dipendenti e, di conseguenza, risparmiare ancor
di più sui salari. Questa la prospettiva che emerge chiaramente dal Future Food
District, il fantascientifico supermercato del futuro dove la spesa avviene con
totale autonomia da parte del cliente.
Eliminare totalmente la voce
«lavoro» dai costi aziendali è un sogno che Expo promette di realizzare nel
giro di pochissimi anni.
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