mercoledì 17 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte quinta)



Eataly, Coop e Slow Food sono i vertici di un tenace triangolo comodo per perseguire i medesimi obiettivi dei grandi operatori dell’agro-industria con la differenza di suscitare l’ammirazione di un certo elettorato sedicente «di sinistra». Il rapporto fra i tre è talmente vincolato da diventare talvolta indistinguibile: se Eataly rappresenta «il principale sbocco commerciale per i prodotti dei Presidi» targati Slow Food (da Tommaso Venturini, «Il nostro pane quotidiano: Eataly e il futuro dei supermercati», pag.406), è anche vero che «a partire dal 2004, un gruppo di 4-5 persone di Slow Food comincia a incontrare i piccoli e medi produttori piemontesi e italiani per selezionare una rosa di nomi per Eataly» (Venturini, pag.82). E ovviamente a questo punto s’inserisce il terzo attore; prosegue Venturini (pagg.84-85): «Una volta individuato Slow Food come partner capace di fornire a Eataly la competenza enogastronomica, Oscar Farinetti [il guru di Eataly, ndr.] si mette alla ricerca di altri soci al fine di assicurare al suo progetto sostegno finanziario ed esperienza del settore della distribuzione alimentare…La scelta cade quasi inevitabilmente su Coop. Molte sono le ragioni che determinano l’esistenza di un’affinità elettiva tra Eataly e Coop…Per Eataly, Coop rappresenta dunque un alleato più che solido e per Coop, Eataly rappresenta un investimento importante in termini di visibilità e prestigio, ma in nessun caso un possibile competitor. Inoltre, da alcuni anni Coop ha stabilito una solida collaborazione con Slow Food nel recupero delle tradizioni gastronomiche italiane. In particolare, le cooperative Coop sono tra i principali sponsor di molti dei Presidi». Senza il consistente appoggio di Coop Liguria e Piemonte e Coop Adriatica (che arrivano ad acquisire il 40% di Eataly distribuzione) si può star certi che il nome di Farinetti sarebbe sconosciuto ai più. Ad ogni modo, la stima di cui gode Farinetti non si può certo definire unanime, soprattutto dopo le polemiche sul trattamento riservato ai suoi dipendenti (otto euro orari e abbondanza di perquisizioni) in cui risulta coinvolto anche Slow Food se si tiene a mente il fatto che è proprio quest’ultimo a occuparsi di una parte della formazione dei dipendenti Eataly.
Farinetti, comunque, rappresenta il prodotto migliore nella divulgazione del Verbo anti-egualitario dell’agro-industria. Se almeno i rappresentanti di Slow Food preferiscono nascondersi dietro un imbarazzato silenzio, il capo di Eataly non ha remore di alcun tipo, forte fra l’altro di un solido sodalizio, corredato da frequenti corrispondenze via sms, con Matteo Renzi (di cui Farinetti doveva originariamente diventare nientemeno che ministro).
I salari ridicoli? «Se lo Stato ci toglie un po’ di tasse e rende sexy assumere, allora possiamo anche aumentare gli stipendi». Lavoratori sottoposti a costanti perquisizioni? «Chi ha un reddito basso e non ha coscienza civica è spinto a rubare. Li abbiamo beccati» (peccato che a fornire il «reddito basso» sia lo stesso Farinetti). Le istituzioni pubbliche? Da distruggere. Proprio così: «Un terzo dei politici sono uguali a noi, un terzo meglio di noi e un terzo peggio di noi. Dobbiamo individuare quel terzo migliore di noi, che conosce anche la macchina amministrativa perché dobbiamo distruggerla, e per distruggerla bisogna conoscerla, hai capito?». Distruggiamo pure i servizi essenziali e gli ultimi tremolanti baluardi di eque possibilità per tutti. Ci penserà la grande imprenditoria di cui Farinetti rappresenta l’aedo più sfacciato a rimpiazzarlo con criteri facilmente intuibili.
Nel frattempo, la grande imprenditoria internazionale ha già provveduto a fornire plasticamente il modello perfetto di un mondo a sua immagine e somiglianza: Expo Milano 2015. Lo diceva anche Carlin Petrini, in un articolo dall’eloquente titolo, «Solo cemento sui campi dell’Expo» («La Repubblica», 12/07/2011): «Siccome al Bie [l’istituzione proprietaria del marchio Expo, ndr.] l’unica cosa che interessa sono le royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l’Expo, è chiaro che la sua visionarietà- e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro sottoscrivendo la sua pochezza- si riduce a quello: pecunia» e lo ribadisce spesso e volentieri, una volta (era il maggio 2014) arrivando a descrivere l’Esposizione come «senz’anima, il sito è una ferita sul territorio» (da Luca Zorloni, «Il Giorno» del 30/05/2014).
Un gran peccato che tra coloro che «sono andati dietro» ad Expo figuri anche lui, con un luminoso padiglione piazzato come conclusione del Decumano. Certo, lo fa aderendo ad Expo dei Popoli, una bizzarra associazione che mira a «rappresentare la complessità della società civile impegnata sui temi della sovranità alimentare, del diritto al cibo, all’acqua, alla terra e alle altre risorse, nel percorso che porterà verso Expo 2015 a Milano» (così sta scritto sull’apposito sito web). Certo, lo fa con una rivendicata funzione critica che, però, non traspare concretamente da nessuna parte.
E a fare compagnia in quest’opera di addolcimento della pillola di Expo provvede anche Cascina Triulza, «il padiglione espositivo della Società Civile» (i cui componenti sono stati attentamente scelti da Expo in base a un bando di gara) ove sul manifesto della Fondazione omonima compare l’impegno di realizzare «una società equa» e «uno sviluppo umano sostenibile». Tra i firmatari, Compagnia delle Opere (ossia Comunione e Liberazione), Confcooperative e Legacoop Lombardia. Alla faccia dell’equità…
All’Esposizione non manca ovviamente Eataly, con un poderosissimo padiglione ricco di ristoranti, né ovviamente potevano essere assenti Coop e Granarolo. Tutti compatti come un sol uomo a celebrare il mondo della massima diseguaglianza dove l’estrema degradazione del lavoro diviene uno dei punti fondamentali. Del resto, come asserisce ossessivamente Farinetti, per fare più giusto il mondo basta saperlo narrare bene, ed Expo in questo è un esempio di ammirevole efficacia; si osservi, ad esempio, come viene spacciato il lavoro gratuito per l’Esposizione sul sito web volunteer.expo2015.org: «Essendo parte del team di Volontari per Expo 2015…acquisirai competenze e conoscenze uniche…rendendoti partecipe di un contesto, internazionale, multiculturale e multilingue che sarà un percorso formativo e di crescita…un network di relazioni vere basato su entusiasmo, energia, talento, intraprendenza, voglia di fare ed esperienze diffuse, che potrà esserti utile anche nel tuo futuro». Non solo il volontario deve rinunciare a qualsiasi remunerazione, ma si trova addirittura a sostenere un costo (sia di alloggio, sia di pasto) pur di spaccarsi la schiena in nome di Expo.
Pagare per lavorare. Queste le nuove frontiere del lavoro nell’éra della disoccupazione dominante e dell’estrema precarizzazione. Lo ammise lo stesso governo Letta, definendo questo sistema «un modello nazionale». Con tanto di approvazione da parte dei principali sindacati.
Nonostante il confortante flop di questa iniziativa (se nel luglio 2013 si auspicavano 18.500 volontari, nell’ottobre 2014 a stento si raggiungeva quota 7mila), il trattamento a cui sono sottoposti i dipendenti remunerati di Expo (comunque non più di 3.738 nell’estate 2014, checché venga decantato l’evento come opportunità occupazionale) non si discosta molto dalla logica degradante.
L’urgenza dei lavori in vista dell’evento (la stessa urgenza che in Italia ha favorito più di ogni altra cosa mazzette e criminalità più disparate) ha spinto Cgil, Cisl, Uil ed Expo 2015 ad un accordo siglato il 25 luglio 2014 tra le cui clausole figurano: «Nessun limite sulla quantità di contratti a tempo determinato…che si possono stipulare per il personale di gestione dei padiglioni. Apprendistato breve per favorire l’occupazione giovanile. Una disciplina prestabilita per orari di lavoro, riposi, ferie e permessi. Infine, un armistizio sulle agitazioni sindacali: niente ricorsi al giudice né agitazioni “salvo i casi in cui siano in campo valori democratici e di dignità dei lavoratori”». Non solo. La disciplina prestabilita degli orari prevede infatti «che il riposo fra un turno e l’altro possa essere ridotto a 9 ore in particolari circostanze; le ferie dovranno essere godute fuori dal periodo dell’Expo e l’orario di lavoro, straordinari compresi, potrà essere elevato a 48 ore settimanali. Questo tipo di contratti potrà essere utilizzato fino al 31 maggio 2016».
I principali sindacati firmano e controfirmano, con una convinzione tale che (da Rita Querzè sul «Corriere della Sera» dell’11/11/2014) la Cgil di Bergamo si spinge addirittura a proporre nuove compressioni dei diritti dei lavoratori: «Per evitare il blackout dei trasporti pre-esposizione universale…niente scioperi in cambio di un tavolo aziendale che metta qualcosa in tasca a tranvieri e dipendenti degli aeroporti». Nonostante l’evidente prova d’affetto e generosità, i novelli «padroni» hanno però declinato la gentile offerta.
Questo per quanto riguarda il presente.
Ma da che mondo è mondo le Esposizioni universali servono a profilare le novità che ci prospetta l’avvenire, e lo svilimento dell’occupazione è uno snodo cruciale per i magnati dell’agroalimentare. Provvede Coop a mostrarci negli spazi espositivi di Expo il futuro che ci attende su questo versante, seguendo la logica che già da qualche anno viene imposta nelle direttive ai fornitori di passate: bisogna a tutti i costi garantire il «rispetto dei diritti dei lavoratori, anche passando attraverso un aumento della quota di raccolta meccanizzata, in particolare per quanto riguarda i pomodori» (da «Coop consumatori», edizione Reno, pag.24).
In altre parole, bisogna usufruire al massimo delle innovazioni tecnologiche non per migliorare la vita, bensì per ridurre il numero dei dipendenti e, di conseguenza, risparmiare ancor di più sui salari. Questa la prospettiva che emerge chiaramente dal Future Food District, il fantascientifico supermercato del futuro dove la spesa avviene con totale autonomia da parte del cliente.
Eliminare totalmente la voce «lavoro» dai costi aziendali è un sogno che Expo promette di realizzare nel giro di pochissimi anni.

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