Expo è un evento costoso, su
questo vige una concorde unanimità. Secondo il sito web expoleaks, ogni singolo
padiglione costa mediamente tra i 20 e i 25 milioni di euro, mentre il bilancio
di sostenibilità 2013 e 2014 di Expo 2015 Spa. ammette che i quattrini pubblici
sganciati per la manifestazione corrispondono a 1,3 miliardi, senza considerare
ovviamente la mole spaventosa di fondi sottratti dai contorti giri di
corruzione che da sempre trovano nelle Grandi Opere il terreno più
fertile (anzi, a voler essere maliziosi l’ostinazione verso la preparazione di
Grandi Opere e Grandi Eventi pare essere finalizzata appositamente a fornire piattaforme ideali su cui imbastire sempre più sofisticate pratiche criminali).
Considerando che secondo l’Onu
(correva l’anno 2008) per debellare la malnutrizione dal pianeta servirebbero
30 miliardi di dollari all’anno non occorre grande acume matematico per
comprendere che se effettivamente la sensibilità è rivolta alla nutrizione del
globo certe risorse sarebbe stato preferibile adoperarle direttamente per
quest’ultimo scopo.
Di fronte a queste banalissime
osservazioni sono in molti però a ribattere che attorno ad Expo ruotano
comunque altri aspetti (e molti padiglioni sembrano averlo capito benissimo)
tra i quali spicca con evidenza la presentazione del proprio Paese ai cittadini
stranieri. Anche l’Italia non ha mancato di fare la sua parte, e infatti in
conclusione di questa rassegna di interventi su Expo non ci resta che
analizzare in definitiva il tipo di Italia che emerge dall’evento. Come viene
raccontata ma, soprattutto, come la si vorrebbe compiutamente realizzare.
«In assenza di correzioni, dietro
l’angolo non c’è l’uscita dall’Europa, il rifugio in un’impossibile autarchia,
ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal
nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra
storia e della nostra arte». Leggere ai giorni nostri questa affermazione di
Giuliano Amato (da Dino Pesole, «L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni»
sul «Sole 24Ore» online del 30/04/2010) strappa un amaro sorriso: sono bastati
poco più di vent’anni per trasformare un incubo da cui scappare ad un rifugio
verso il quale correre senza obiezioni. Ridurre la nostra penisola ad un
pittoresco cortile dove far svagare in piena libertà i grandi magnati
internazionali è infatti una parola d’ordine ossessiva, seppur addolcita da
formule di rito quali «attrarre investimenti stranieri», «puntare tutto
sull’export» e, la più fortunata, «puntare tutto sul turismo». Frasi subdole e,
specie l’ultima, a prima vista ineccepibili. Peccato solo per il fatto che
trasformare le nostre città in giganteschi parchi divertimenti per turisti,
meglio se facoltosi, ferisce mortalmente il tessuto connettivo di chi in quella
città ci vive, sottraendo (e a farne le spese sono anche i turisti, almeno
quelli più avveduti) una componente fondante di una comunità civile, ossia
l’ambiente umano, la storia, le storie, gli incontri e i contatti di cui una
città si nutre per poter essere definita tale. In una fredda parola il
contesto, di cui un’opera d’arte o una bellezza naturale rimangono legate in
uno splendido e insostituibile connubio.
A meno che, ed è questo il punto,
la capacità attrattiva dell’Italia non la si voglia rivolgere esclusivamente
verso chi dell’aspetto umano e sociale del nostro Paese ne fa volentieri a
meno, principalmente i turisti «mordi e fuggi» la cui ambizione più
sensazionale è contare i «mi piace» dei propri selfie di fronte alla torre di
Pisa (il che, purtroppo, attualmente rappresenta la quota maggioritaria e più
redditizia del settore turistico) oppure i turisti più facoltosi oppure, meglio
ancora, le grandi istituzioni industriali/finanziarie. Non c’è nemmeno più
bisogno di nascondersi per rendere palese questo progetto. Rimanendo nel
settore alimentare propagandato da Expo, si provveda a leggere con attenzione
le parole che il leader di Eataly Oscar Farinetti rivolge al giornalista Andrea
Scanzi nel corso di un’intervista (il video lo si può rintracciare su YouTube
sotto il titolo «Oscar Farinetti ospite da Andrea Scanzi a #Reputescion»): «Per
me nel Sud c’è una roba da fare: un unico grande Sharm el-Sheikh, hai presente
quella roba in Egitto dove ci va tutto il mondo in vacanza? [Il Sud, ndr.] è
uno dei posti più belli del mondo: facciamo venire i turisti di tutto il mondo
lì…E aprirei alle multinazionali di tutto il mondo che vengano a farlo, gli
farei agevolazioni fiscali bestiali, non pagano tasse per dieci anni». Concetto
ribadito in un illuminante convegno organizzato da Italiadecide e scaturito in
un documento («Italiadecide, Il Grand Tour del XXI secolo») destinato a
divenire una pietra miliare per capire cosa intendano fare dell’Italia
determinate classi di potere, tra cui spiccano due istituzioni che abbiamo
incontrato più volte nel nostro racconto: Autostrade per l’Italia (ossia
Benetton) e Intesa Sanpaolo. Tra le pagine 155 e 169, Farinetti illustra la
linea d’azione: «In poco tempo…dobbiamo censire i 5mila più impostanti paesaggi
italiani. Sto parlando di piazze, strade, borghi, valli, viste, colline,
montagne, pianure e mari. Ogni paesaggio va raccontato, descritto, spiegato
nelle sue origini, nei suoi particolari, in tutta la sua bellezza. Il tutto si
troverà sulla guida Italia Vera».
Sfogliando il documento, più
volte ricorrono imperativi quali «semplificazioni burocratiche» (pag.253) e
«revisione dei piani urbanistici» (pag.254) i quali, tradotto dal criptico
linguaggio propagandistico, significano soltanto l’eliminazione di ogni vincolo
nei confronti delle grandi imprese che vengono nel nostro Paese, primo fra
tutto il via libera alla cementificazione più selvaggia. Tanto più in un
periodo di crisi e preoccupante disoccupazione, la corsa condotta globalmente
dai vari Paesi per accaparrarsi investimenti e turismo deve adoperare tutte le
armi a disposizione (non è forse questo il fine della globalizzazione?) per
rendere più appetibile il proprio territorio; dalla compressione dei salari
alla massima libertà d’azione, gli Epuloni mondiali vanno coccolati in ogni
modo pur di ricevere quantomeno la speranza che lascino cadere qualche briciola
dal loro luculliano banchetto, al punto tale che lo storico d’arte Philippe
Daverio arriva a proporre nientemeno che di «adottare un ricco». E se non possiamo
materialmente cullare i grandi operatori internazionali, dobbiamo almeno
garantire a questi un ambiente comodo alle loro speculazioni anche dal punto di
vista delle libertà personali dei cittadini. Proseguendo nel rapporto di
Italiadecide (pag.239) si ritiene infatti che il successo dell’operazione di
attrazione verso l’Italia del capitale turistico straniero dipenda in misura
determinante «dall’immagine fornita dal sistema paese, dalla sua credibilità,
dal senso di sicurezza trasmesso ai potenziali visitatori, dall’idea di ordine
e di organizzazione territoriale, sociale ed economica veicolata dai
mass-media, dalle cronache quotidiane, dai social network». Avete letto bene.
Gli italiani devono mettersi in riga come solerti camerieri, non solo senza
fiatare, ma senza nemmeno la possibilità di sfogarsi liberamente su facebook.
Nell'immagine qui sopra, la testimonianza di come la narrazione di Expo sia così pervasiva da arrivare a contagiare persino i foglietti distribuiti durante la Messa
Anche da questo punto di vista,
Expo rappresenta la palestra e la prova generale di un mondo, e quindi anche di
un Paese, ridotto a silenzioso sguattero dei grandi apparati finanziari. È
sempre Philippe Daverio a chiedere se «per sei mesi proviamo ad abolire il
diritto al mugugno», e d’altronde non ci si poteva aspettare posizione diversa
da un signore attivo in prima persona nell’opera di svendita del patrimonio
culturale italiano (appartiene infatti al Comitato Scientifico a libro paga del
concessionario privato della Reggia di Monza, in un contesto dove i vertici di
Italiana Costruzioni intendono destinare la parte Nord della Villa ad un
albergo di lusso).
Potrà dispiacere a lorsignori, ma
il mugugno è il minimo che si possa emettere a fronte di una gestione del
patrimonio culturale finalizzata esclusivamente al profitto privato e sempre più proiettata verso la sindrome della cosiddetta «maledizione
delle risorse», ove la spietata ricerca della rendita di un lucroso prodotto
presente in quantità massiccia in un determinato paese (caso tipico quello del
petrolio) finisce per sfociare, usando le parole dello storico Tomaso Montanari
(ispirate a idee del sociologo Andrea Declich), «nella corruzione del rapporto
tra pubblico concedente e privato concessionario, nella rinuncia a sperimentare
economie alternative (come una vera economia pubblica del patrimonio: presente,
per esempio, in Francia), nella monocultura turistica ossessivamente praticata
dalle città d’arte più celebri, nella organizzazione di eventi che consentano
di massimizzare i risultati economici in un brevissimo termini». Una
distorsione che porta, prosegue Montanari, «a immaginare di spostare
continuamente i Bronzi di Riace in eventi di grido, invece che trasformare la
Salerno-Reggio Calabria in una vera autostrada che permetta ai cittadini e ai
turisti di raggiungere il Museo di Reggio; o che spinge ad “arredare” l’Expo di
Milano con inutili mostre di Giotto o Leonardo invece che a finanziare progetti
di arte contemporanea con ricadute permanenti sui territori che ne avrebbero
maggior bisogno».
Infatti, sebbene in pochi se ne
ricordino, Expo ospita all’interno dei comodissimi spazi affidati per oscure
congiunzioni astrali alla filo-governativa Eataly di Farinetti una raccolta di
esemplari di arte italiana, agglomerato senza uno straccio di filo conduttore
ove pezzi rilevanti del nostro patrimonio storico finiscono per diventare nulla di più di un marchio
commerciale il cui fine dichiarato non è l’arricchimento personale e culturale,
bensì la sponsorizzazione dell’impero farinettiano.
Un obiettivo, quello di
sottomettere la cultura italiana alle esigenze di marketing di Eataly, che,
come di consueto, non ha guardato in faccia a nessuno. Non ci si è fatti
scrupoli nel saccheggiare opere di proprietà pubblica, come quelle presenti
nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino oppure le otto monumentali
statue presenti nel Battistero di Pisa (mai trasportate finora per la notevole
fragilità delle opere) oppure il «San Paolo» di Masaccio custodito dal Museo
Nazionale di San Matteo di Pisa, ottenuto quest’ultimo grazie a coercizioni
politiche nei confronti di una soprintendenza inizialmente riluttante nel
concedere il proprio gioiellino.
Di fianco, la prova documentale dell'iniziale diniego della soprintendenza alla richiesta di utilizzare un'opera del Masaccio come vetrina di Eataly all'Esposizione
A confezionare tutto ciò, si
raggiunge dulcis in fundo l’apice del pacchiano con verybello.it, piattaforma
web predisposta dal Ministero dei Beni Culturali per valorizzare il patrimonio
culturale del Belpaese in occasione di Expo. Iniziativa non solo grottesca, ma
per giunta copiata di sana pianta da verybella.it, «prima linea di make-up e style
per bambine».
Avete capito bene: la
presentazione al mondo della nostra storia è affidata ad un sito internet
pesantemente ispirato alla cipria delle bimbe. Ridiamo per non piangere,
sperando che almeno questo ci sia concesso.
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