martedì 16 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte quarta)



La Grande Distribuzione rappresenta l’anello finale, ma non per questo più debole, nella catena dell’industria agro-alimentare, acquisendo dagli anelli precedenti della filiera tutte le storture che ne garantiscono la sopravvivenza.
Il circolo vizioso è sempre quello: massimo profitto ottenuto dal monopolio de facto del comparto e di conseguenza possibilità di un abnorme potere contrattuale su quelle che sono le voci di costo, prima fra tutte il lavoro. La concentrazione di potere della Grande Distribuzione (in Italia da sola commercializza il 72% del totale nazionale dei prodotti freschi e confezionati) vede la sua rappresentazione più palpabile nella pratica del «trade spending», ove il fornitore finisce addirittura per pagare gli attori della commercializzazione (in un contesto dove chiaramente dovrebbe avvenire il processo opposto) pur di «supportare, promuovere, o semplicemente vendere» il proprio prodotto. Operazioni che, stando al poc’anzi citato rapporto Agcom («Indagine conoscitiva sul settore della Gdo», 2010-2013, pag.127) «rappresentano, nel loro complesso, un costo significativo per i produttori- incidendo mediamente dell’11% sui ricavi per la vendita dei prodotti- e, simmetricamente, una consistente fonte di guadagno per i distributori». Il solo fatto di essere pagati nel momento in cui si acquista un prodotto la dovrebbe dire lunga ai cantori delle diseguaglianze come perfetta incarnazione del «libero mercato», ma il paradosso raggiunge l’apice nel momento in cui la Grande Distribuzione arriva addirittura a pretendere pesanti sconti dai propri fornitori (operazioni che vanno a incidere all’incirca per il 16,6% dei propri ricavi) senza alcuna possibilità di vedersi rifiutate queste «pressioni» dal momento in cui la «mancata accettazione» da parte del fornitore, prosegue il rapporto Agcom, sottopone quest’ultimo «a precise ritorsioni, quali il delisting (cioè l’esclusione dalla lista dei fornitori), totale o solo per alcuni prodotti, oppure un ingiustificato peggioramento delle condizioni trattate nel periodo di fornitura successivo».
In situazioni del genere, dove la «rossa» Coop gioca il ruolo principale, ci si può solo immaginare quale sia il trattamento riservato ai lavoratori. A tal proposito, un’avvisaglia l’abbiamo avuta nel 2011, quando cominciò un’ondata di scioperi da parte dei dipendenti delle «cooperative che movimentano le merci in arrivo e in partenza nei magazzini e nei poli logistici di vari tipi di aziende, dalle catene dei supermercati della grande distribuzione ai corrieri privati, da piccole zone industriali ai grossi interporti» (da Mimmo Perrotta, «Condizioni e lotte dei lavoratori migranti della logistica», «Lo Straniero», giugno 2013). Cominciata da Ikea, l’onda a metà novembre è ben lungi dall’arrestarsi se è vero che, spiega l’articolo, «si apre una vertenza anche nei magazzini di Coop Adriatica ad Anzola Emilia, alle porte di Bologna. A generare la mobilitazione è la proposta di Coop di un cambio di appalto…che causerebbe tra l’altro un abbassamento dei salari, la richiesta ai lavoratori di versare nuove quote sociali alle nuove cooperative, nonché la possibilità di effettuare licenziamenti mascherati. Caratteristiche comuni a queste e alle molte altre vertenze sono: la presenza di dirigenti di cooperative e capireparto particolarmente invisi ai lavoratori, la durezza degli scontri- i picchetti dei lavoratori ai cancelli dei magazzini sono oggetto di dure cariche delle forze dell’ordine, ma anche, in alcuni casi, di gruppi di “mazzieri” assoldati all’uopo- il reclutamento di crumiri, i tentativi di corruzione da parte delle cooperative, l’emergere di leader sindacali di base, soprattutto migranti…il ruolo ambiguo dei sindacati confederali e l’opposizione frontale tra questi e il sindacato di base Si Cobas».
Coinvolta risulta anche Granarolo, struttura talmente importante da aver avuto almeno la sincerità di togliersi di dosso l’etichetta cooperativa dal momento che la sua holding risulta partecipata per il 19,78% da…Intesa Sanpaolo. Ancora loro. E del resto la logica alle spalle della gestione aziendale prevede sempre lo stesso copione: comprimere i salari (di circa il 35%) ai propri dipendenti in Italia puntando la vendita dei propri prodotti sul mercato estero.
La risposta del Presidente di Granarolo (nonché ex-leader di Legacoop Bologna) non poteva essere più eloquente: la protesta in corso «attacca i baluardi della vita e del confronto democratico» (da «La Repubblica», sezione bolognese, 17/12/2013, pag.9). Una parola d’ordine prontamente ripetuta dai suoi zerbini in Parlamento nel corso di un’interrogazione al governo proprio sulle controversie della Granarolo: «Rispetto delle regole democratiche» è quanto invoca il gruppo parlamentare del Pd.
Le responsabilità della Grande Distribuzione non finiscono qui. Secondo Coldiretti Bologna (da «Una filiera agricola tutta italiana») se «per ogni euro speso dal consumatore» all’agricoltore arrivano soltanto 17 centesimi, ciò avviene perché «il resto va all’industria, ai servizi e soprattutto alla grande distribuzione organizzata che schiaccia con il suo potere il resto della filiera». A tal riguardo, Sos Rosarno (da «Rosarno agrumicultura e Grande Distribuzione Organizzata», da www.sosrosarno.org) asserisce con maggior precisione: «Per poter ottenere prezzi imbattibili mantenendo alti tassi di profitto, la Gdo esercita il suo buying power per imporre bassissimi prezzi alla fonte e realizza sulla quantità economie di scala. Non c’è da stupirsi dunque che organizzazioni come la Coldiretti denuncino ormai da anni questa situazione. Salvo però il fatto che le stesse dimenticano sempre di menzionare la vittima principale di questo circuito infernale: i braccianti immigrati, siano sub sahariani, magrebini, bulgari o romeni».
E a tutto ciò si aggiunge quanto rilevato da un’analisi del 2010 della Cgia di Mestre: «Tra il 2001 e il 2009 ad un aumento di poco più di 21mila addetti nella grande distribuzione, nelle piccole botteghe commerciali si sono persi quasi 130mila posti di lavoro. Vale a dire che per ogni nuovo occupato nei centri commerciali, si sono persi sei posti di lavoro tra i piccoli negozianti».
Dinnanzi a cotanto sfacelo, indovinate contro chi scaglia tutto il suo peso in termini di opinion-maker il Carlin Petrini di Slow Food? Sul consumatore, ovviamente. A fronte d’interessi così radicati ed estesi a livello praticamente planetario la linea d’azione è: «Tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi [dove si svolge il più ignobile sfruttamento di manodopera, ndr.], e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie». Ecco, appunto. Il problema è che non tutti possono permettersi di «pagare di più», spesso a causa proprio di questi assetti che consegnano tutti i profitti agricoli alla filiera dell’agro-industria. Ma, del resto, cosa ci si poteva aspettare dal patron di un movimento che con la Coop stringe intese da anni? Scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food» (pag.40): «I primi contatti tra Coop Italia e Slow Food sono datati 1999…L’esigenza di Coop era anche quella di individuare prodotti nuovi, possibilmente di qualità più alta e più vicini al territorio. Ecco dunque che nell’aprile 2001 Coop Italia e Slow Food siglano un accordo per la salvaguardia delle produzioni dei Presidi».
Quello era solo l’inizio di un sodalizio, che vedrà nel corso degli anni non solo il concepimento di un altro attore, Eataly, ma una giostra sempre più opprimente dove a farne le spese sono ancora una volta i lavoratori. Fino all’apoteosi raggiunta da Expo.

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