La Grande Distribuzione
rappresenta l’anello finale, ma non per questo più debole, nella catena
dell’industria agro-alimentare, acquisendo dagli anelli precedenti della
filiera tutte le storture che ne garantiscono la sopravvivenza.
Il circolo vizioso è sempre
quello: massimo profitto ottenuto dal monopolio de facto del comparto e di
conseguenza possibilità di un abnorme potere contrattuale su quelle che sono le
voci di costo, prima fra tutte il lavoro. La concentrazione di potere della
Grande Distribuzione (in Italia da sola commercializza il 72% del totale
nazionale dei prodotti freschi e confezionati) vede la sua rappresentazione più
palpabile nella pratica del «trade spending», ove il fornitore finisce
addirittura per pagare gli attori della commercializzazione (in un contesto
dove chiaramente dovrebbe avvenire il processo opposto) pur di «supportare,
promuovere, o semplicemente vendere» il proprio prodotto. Operazioni che,
stando al poc’anzi citato rapporto Agcom («Indagine conoscitiva sul settore
della Gdo», 2010-2013, pag.127) «rappresentano, nel loro complesso, un costo
significativo per i produttori- incidendo mediamente dell’11% sui ricavi per la
vendita dei prodotti- e, simmetricamente, una consistente fonte di guadagno per
i distributori». Il solo fatto di essere pagati nel momento in cui si acquista
un prodotto la dovrebbe dire lunga ai cantori delle diseguaglianze come
perfetta incarnazione del «libero mercato», ma il paradosso raggiunge l’apice
nel momento in cui la Grande Distribuzione arriva addirittura a pretendere
pesanti sconti dai propri fornitori (operazioni che vanno a incidere
all’incirca per il 16,6% dei propri ricavi) senza alcuna possibilità di vedersi rifiutate queste «pressioni» dal momento in cui la «mancata accettazione» da
parte del fornitore, prosegue il rapporto Agcom, sottopone quest’ultimo «a
precise ritorsioni, quali il delisting (cioè l’esclusione dalla lista dei
fornitori), totale o solo per alcuni prodotti, oppure un ingiustificato
peggioramento delle condizioni trattate nel periodo di fornitura successivo».
In situazioni del genere, dove la
«rossa» Coop gioca il ruolo principale, ci si può solo immaginare quale sia il
trattamento riservato ai lavoratori. A tal proposito, un’avvisaglia l’abbiamo
avuta nel 2011, quando cominciò un’ondata di scioperi da parte dei dipendenti
delle «cooperative che movimentano le merci in arrivo e in partenza nei
magazzini e nei poli logistici di vari tipi di aziende, dalle catene dei
supermercati della grande distribuzione ai corrieri privati, da piccole zone
industriali ai grossi interporti» (da Mimmo Perrotta, «Condizioni e lotte dei
lavoratori migranti della logistica», «Lo Straniero», giugno 2013). Cominciata
da Ikea, l’onda a metà novembre è ben lungi dall’arrestarsi se è vero che,
spiega l’articolo, «si apre una vertenza anche nei magazzini di Coop Adriatica
ad Anzola Emilia, alle porte di Bologna. A generare la mobilitazione è la
proposta di Coop di un cambio di appalto…che causerebbe tra l’altro un
abbassamento dei salari, la richiesta ai lavoratori di versare nuove quote
sociali alle nuove cooperative, nonché la possibilità di effettuare
licenziamenti mascherati. Caratteristiche comuni a queste e alle molte altre
vertenze sono: la presenza di dirigenti di cooperative e capireparto
particolarmente invisi ai lavoratori, la durezza degli scontri- i picchetti dei
lavoratori ai cancelli dei magazzini sono oggetto di dure cariche delle forze
dell’ordine, ma anche, in alcuni casi, di gruppi di “mazzieri” assoldati
all’uopo- il reclutamento di crumiri, i tentativi di corruzione da parte delle
cooperative, l’emergere di leader sindacali di base, soprattutto migranti…il
ruolo ambiguo dei sindacati confederali e l’opposizione frontale tra questi e
il sindacato di base Si Cobas».
Coinvolta risulta anche
Granarolo, struttura talmente importante da aver avuto almeno la sincerità di
togliersi di dosso l’etichetta cooperativa dal momento che la sua holding
risulta partecipata per il 19,78% da…Intesa Sanpaolo. Ancora loro. E del resto
la logica alle spalle della gestione aziendale prevede sempre lo stesso
copione: comprimere i salari (di circa il 35%) ai propri dipendenti in Italia
puntando la vendita dei propri prodotti sul mercato estero.
La risposta del Presidente di
Granarolo (nonché ex-leader di Legacoop Bologna) non poteva essere più
eloquente: la protesta in corso «attacca i baluardi della vita e del confronto
democratico» (da «La Repubblica», sezione bolognese, 17/12/2013, pag.9). Una
parola d’ordine prontamente ripetuta dai suoi zerbini in Parlamento nel corso
di un’interrogazione al governo proprio sulle controversie della Granarolo: «Rispetto
delle regole democratiche» è quanto invoca il gruppo parlamentare del Pd.
Le responsabilità della Grande
Distribuzione non finiscono qui. Secondo Coldiretti Bologna (da «Una filiera
agricola tutta italiana») se «per ogni euro speso dal consumatore»
all’agricoltore arrivano soltanto 17 centesimi, ciò avviene perché «il resto va
all’industria, ai servizi e soprattutto alla grande distribuzione organizzata
che schiaccia con il suo potere il resto della filiera». A tal riguardo, Sos
Rosarno (da «Rosarno agrumicultura e Grande Distribuzione Organizzata», da
www.sosrosarno.org) asserisce con maggior precisione: «Per poter ottenere
prezzi imbattibili mantenendo alti tassi di profitto, la Gdo esercita il suo
buying power per imporre bassissimi prezzi alla fonte e realizza sulla quantità
economie di scala. Non c’è da stupirsi dunque che organizzazioni come la
Coldiretti denuncino ormai da anni questa situazione. Salvo però il fatto che
le stesse dimenticano sempre di menzionare la vittima principale di questo
circuito infernale: i braccianti immigrati, siano sub sahariani, magrebini,
bulgari o romeni».
E a tutto ciò si aggiunge quanto
rilevato da un’analisi del 2010 della Cgia di Mestre: «Tra il 2001 e il 2009 ad
un aumento di poco più di 21mila addetti nella grande distribuzione, nelle
piccole botteghe commerciali si sono persi quasi 130mila posti di lavoro. Vale
a dire che per ogni nuovo occupato nei centri commerciali, si sono persi sei
posti di lavoro tra i piccoli negozianti».
Dinnanzi a cotanto sfacelo,
indovinate contro chi scaglia tutto il suo peso in termini di opinion-maker il
Carlin Petrini di Slow Food? Sul consumatore, ovviamente. A fronte d’interessi
così radicati ed estesi a livello praticamente planetario la linea d’azione è:
«Tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che
provengano da quei campi [dove si svolge il più ignobile sfruttamento di
manodopera, ndr.], e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi.
Voglio poterli boicottare e premiare invece chi lavora in maniera trasparente;
sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie». Ecco,
appunto. Il problema è che non tutti possono permettersi di «pagare di più»,
spesso a causa proprio di questi assetti che consegnano tutti i profitti
agricoli alla filiera dell’agro-industria. Ma, del resto, cosa ci si poteva
aspettare dal patron di un movimento che con la Coop stringe intese da anni?
Scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food»
(pag.40): «I primi contatti tra Coop Italia e Slow Food sono datati
1999…L’esigenza di Coop era anche quella di individuare prodotti nuovi,
possibilmente di qualità più alta e più vicini al territorio. Ecco dunque che
nell’aprile 2001 Coop Italia e Slow Food siglano un accordo per la salvaguardia
delle produzioni dei Presidi».
Quello era solo l’inizio di un
sodalizio, che vedrà nel corso degli anni non solo il concepimento di un altro
attore, Eataly, ma una giostra sempre più opprimente dove a farne le spese sono ancora una volta i lavoratori. Fino all’apoteosi raggiunta da Expo.
Nessun commento:
Posta un commento