La pacata narrazione di Slow
Food, così semplice e così invitante per il mondo della sinistra (ovunque sia
ora finita), è a suo modo paradigmatica per capire tante delle contraddizioni
che hanno accompagnato l’universo progressista italiano nel suo irreversibile
dissesto.
Lo racconta con illuminante
sagacia un volume di recente pubblicazione, «La danza delle mozzarelle» ad
opera di Wolf Bukowski, puntuale nel tracciare le tappe fondamentali di un
percorso che passo dopo passo ha portato la sinistra italiana a lasciarsi
ammaliare dai racconti dei vari guru Petrini e Farinetti senza rendersi conto
(o magari facendolo di proposito) quanto quelle idee così apparentemente ricche
di giustizia sociale e insofferenza verso le multinazionali fossero in realtà
funzionali alla spietata logica anti-egualitaria degli interessi più forti.
Interessi che, a ben guardare, sono onnipresenti nelle attività dei vari
radical-chic dell’esofago, diciamo anzi che ne sono indispensabili per la loro
sopravvivenza e che trovano nella partecipazione ad Expo il loro apice.
Basta una rapida occhiata sul
sito www.fondazioneslowfood.it
per scoprire, per esempio, quanto la Compagnia San Paolo (vale a dire Intesa
Sanpaolo, ossia la banca di riferimento di Expo, la stessa che più di tutte
partecipa alla mangiatoia delle infrastrutture di Expo, la stessa che fra le
altre cose si è distinta in passato per una cospicua esportazione di armi) sia
lodata dal movimento di Petrini per i lauti finanziamenti ricevuti in occasione
di una ricerca su «casi virtuosi di commercializzazione diretta o di filiera
corta». Ma le pratiche di copulazione tra la grande finanza e il punto di riferimento
gastronomico della sinistra più schizzinosa sono ancora più evidenti se andiamo
a leggere un comunicato stampa del 28 giugno 2014 dedicato alla presenza di
Intesa Sanpaolo al Salone del Gusto: il gruppo bancario per l’occasione non
manca di vantarsi di aver «scelto dal 2006 di essere partner di Slow Food, ne
condivide gli obiettivi e promuove anche al proprio interno comportamenti
improntati a evitare sprechi…Intesa Sanpaolo, che crede nell’eccellenza
italiana del settore agroalimentare e la sostiene, assume un ulteriore impegno
nella valorizzazione del made in Italy in qualità di Global Banking Partner di
Expo Milano 2015».
Non sono parole di circostanza.
Intesa Sanpaolo ha davvero le idee chiare su quale debba essere la direzione da
seguire per valorizzare le eccellenze italiane, tant’è vero che non solo nel
2009 sigla accordi con Confagricoltura (l’unico sindacato agricolo
smaccatamente a favore degli OGM), ma insieme a quest’ultima organizza
nell’ottobre del 2013 un ciclo di conferenze il cui obiettivo è divulgare «una
panoramica tra miti leggende e realtà che riguardano il tema delle
biotecnologie, del cibo e dell’agricoltura, che ha evidenziato la importanza
della comunicazione scientifica per contrastare una dilagante, preoccupante
disinformazione antiscientifica» (da Lorella Pellis, «Settimana Europea delle
Biotecnologie: ai Georgofili si è parlato di genetica e agricoltura», «Toscana
Oggi» del 04/10/2013).
Molti a questo punto ricorderanno
le veementi filippiche del gruppo di Carlin Petrini contro gli organismi
geneticamente modificati che più di ogni altra cosa stanno lì a testimoniare la
fiera posizione di Slow Food sull’argomento. Andando a scavare più a fondo, si
va però a scoprire quante sfumature e quanti distinguo rendano ambiguo il
movimento Slow in rapporto al tema delle biotecnologie.
Sfogliando ad esempio il volume
scritto a quattro mani dallo stesso Petrini insieme a Gigi Padovani («Slow Food
Revolution. Da Arcigola a Terra Madre. Una nuova cultura del cibo e della
vita», pag.256) possiamo assistere alle seguenti affermazioni del divino
Carlin: «Voglio chiarire che Slow Food con quella campagna a favore della
biodiversità lanciata nel novembre 2004 ha semplicemente voluto affermare la
necessità di avere regole certe e definite per la coltivazione di organismi
geneticamente modificati in campo aperto…Ci siamo battuti per ottenere norme
prudenziali a tutela di pratiche agricole contro quelle industriali. Non ci
stiamo ad essere accusati di luddismo o oscurantismo. Siamo convinti che il vero
superamento della questione possa avvenire soltanto con il tempo, attraverso un
colloquio tra i saperi tradizionali, dei quali sono depositarie le comunità
rurali, e la scienza ufficiale».
È semplicemente l’assenza di
dispositivi di legge sulla materia a rendere scettici sulle conseguenze degli
OGM, un pudore legalitario che emerge con nettezza in un comunicato di Cinzia
Scaffidi («Slow Food Italia: OGM, necessario il rispetto della legalità in
Friuli») risalente al giugno 2014 in cui si esplicita: «Qui non si tratta di
ideologia, di pro o contro gli OGM. Con buona pace di tutti i sostenitori degli
OGM, al momento esiste un decreto che vieta in Italia la coltivazione del MON
810 ed esiste anche una legge regionale che rafforza questo quadro. Non si può fare
nessuna discussione se prima non si ristabilisce la legalità».
Sorge spontaneo il dubbio su cosa
accadrà, un evento non così remoto, quando effettivamente la coltivazione degli
organismi geneticamente modificati sarà pienamente legalizzata e operativa.
Sarà bello capire a quel punto dove intende schierarsi Slow Food, e la risposta
a tal riguardo diviene sempre più sospetta se si va a leggere cosa pensa
Petrini di una figura come José Bové che non ci ha pensato due volte a far
valere le sue idee (con tanto di trattore in azione per impedire l’edificazione
di un McDonald’s) anche rischiando serie ripercussioni giudiziarie: «Quando
passa all’azione, però, [Bové, ndr.] percorre strade e adotta strategie di
aperto conflitto con le multinazionali che noi non intendiamo praticare» (da
Carlo Petrini, «Slow Food, le ragioni del gusto», pagg.27-28).
L’opposizione praticata da Slow
Food è quella che tira la fune stando però ben attento a non spezzarla, che si
lamenta dei grandi guai del mondo senza però additarne chiaramente le cause e
proporre radicali alternative di sviluppo. La sua opera più «rivoluzionaria» è
quella di spiegare il sistema di sfruttamento degli uomini e delle risorse, non
di volerlo combattere alla radice; e infatti la prima rivendicazione di Petrini
è: «Iniziare assolutamente dalle scuole…Il richiamo alla realtà è per tutti: il
sapere gastronomico deve essere recuperato e vanno posti i termini perché possa
essere veicolato» (da Carlo Petrini, «Buono, pulito e giusto», pagg.150-151).
L’importante è non scontentare
troppo lorsignori, gli Epuloni dell’industria agroalimentare che in misura
massiccia compaiono tra i «Partner Strategici» della (costosissima) Università
di Scienze Gastronomiche «nata e promossa nel 2004 dall’associazione
internazionale Slow Food con la collaborazione delle regioni Piemonte ed Emilia
Romagna», prima fra tutti Autogrill, emanazione della famiglia Benetton che
costringe i suoi (seppur indiretti) dipendenti cinesi alla rinuncia di ogni
libertà sindacale, che subisce nel 2004 una multa per violazione delle gare
d’appalto da parte dell’autorità garante, che secondo un’indagine Labour Behind
the Label è tra le più insensibili al tema delle paghe, che possiede il più
grande latifondo della Patagonia argentina (900mila ettari) anche a costo di
aver fatto sloggiare con ogni mezzo la popolazione Mapuche ivi residente da
secoli e che, dulcis in fundo, gestisce anche il maggior latifondo italiano
(Macarrese Spa., 3200 ettari nella zona di Fiumicino la quale fra l’altro, toh
guarda la coincidenza!, risulta associata a Confagricoltura). Ma tra questi
partner risultano anche Barilla, Ferrero, consorzio Parmacotto e finanche Ikea
(per un approfondimento si legga «Slow Food. Buono, Pulito e Giusto?»,
Anticorpi.info, 06/01/2013).
E sull’idea che questi magnati
possiedono della giustizia sul pianeta non persistono dubbi di alcun tipo. La
diseguaglianza è la linfa che li tiene in vita, e di questo messaggio è
impregnata indubbiamente anche l’attività di Slow Food: i prodotti che espone
sono chiaramente disponibili solo per chi dispone delle risorse economiche
necessarie per acquisirli. Delle classi disagiate di cui certa sinistra adora
sciacquarsi la bocca non vi è la minima considerazione. Anzi, lo stesso marchio
Slow Food finisce per divenire sinonimo di diseguaglianza se è vero che, come
scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food»
(pag.40), «i prodotti segnalati e valorizzati da Slow Food vedono incrementare
il loro valore di circa il 30%».
Un tema, questo, su cui J.M.
Hirsch («Slow Food must shed elitist label», Associated Press, 09/12/2008)
fornisce un’ottima chiosa: «La mamma single che accumula più lavori part-time
per dare da mangiare alla propria famiglia potrebbe anche adorare il gusto del
Brie locale e biologico, ma è difficile immaginare che vada a comprarselo
quando addirittura il prezzo del pane e del latte sono fuori portata».
Ma è sui rapporti con la Grande
Distribuzione (altra indubbia protagonista di Expo) che sia Slow Food che il
suo degno comprimario, Eataly, mostrano con maggiore nettezza il vero volto
nascosto dietro la maschera di opposizione comoda alla grande agro-industria.
Di questo sarà opportuno occuparsi a breve.
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