venerdì 28 febbraio 2014

Scuole insicure





A primo acchito pare l’ennesimo slogan ad effetto proposto dal nuovo Primo Ministro. Mettere tra le priorità del governo la situazione disastrosa dell’edilizia scolastica è invece un importantissimo punto di partenza, non un problema secondario come spesso siamo portati a pensare.
Gli edifici scolastici del nostro paese (in totale 42.000(1)) ospitano quotidianamente 5.348.791 alunni e all’incirca 624.697 dipendenti in organico(2). Un esercito di esseri umani che, il più delle volte inconsapevolmente, non si rende conto dei rischi che può correre entrando in quelle strutture.
Sono impresse nella memoria di tutti le lacrime disperate di Fortunato Scafidi, il cui figlio (Vito) era morto ad appena diciassette anni a causa della caduta del controsoffitto in un liceo di Rivoli. Era il novembre del 2008 quando Fortunato si rivolse rabbiosamente all’allora ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, dicendole: «Se avete anche solo il sospetto che una scuola possa cadere, la dovete chiudere». Un consiglio che dovrebbe essere banale e scontato in un paese civile, eppure in Italia non è così. La Gelmini, sospinta dall’onda emotiva seguita alla grave tragedia, disse a sei mesi di distanza dall’incidente: «Stiamo già lavorando con squadre costituite da tecnici per fare sopralluoghi in tutte le scuole e garantire la sicurezza».
Sono passati sei anni, e quasi nessuno ricorda più quelle parole. Più che puntare sugli interventi concreti, la nostra politica ha preferito nascondere il problema agli occhi dell’opinione pubblica. Alessandro Martelli, sismologo, presidente dell’associazione Glis e dell’International Sismic Safety Organization, ha ammesso: «A un recente convegno a Modena ho dovuto ascoltare, incredulo, che secondo le istituzioni nazionali occorre “rassicurare l’opinione pubblica, perché così essa chiede”»(3).
Lo stesso Martelli, in un articolo apparso su «Villaggio Globale» ha deciso di rompere questo silenzio denunciando che «oltre il 70% dell’edificato italiano non è in grado di resistere ai terremoti ai quali può risultare soggetto e che tale elevato numero di edifici altamente vulnerabili al sisma include numerose scuole, spesso ospitate da edifici antichi o semplicemente vecchi, per i quali l’adeguamento sismico è impossibile o eccessivamente costoso». La politica però ha preferito girare la testa dall’altra parte: occhio non vede, cuore non duole. L’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n.3274 del 2003 prevedeva che «in breve tempo» venisse stilata una mappa completa delle situazioni più gravi, eppure, prosegue Martelli, «“grazie” ai cosiddetti decreti “milleproroghe”, la data ultima per l’ultimazione di tali valutazioni è stata ogni anno inammissibilmente posposta».
A nulla sono valse le audizioni parlamentari dei vari esperti, che da anni denunciano «come nel nostro paese vi sia una gravissima situazione di scarsa sicurezza delle scuole e come, in particolare, si possa evincere che il 49% degli edifici scolastici in Italia non ha un certificato di agibilità. È accertato che 27.920 edifici scolastici sono in aree a elevato rischio sismico: 4.856 in Sicilia, 4.608 in Campania, 3.130 in Calabria (il 100% del totale), 2.864 in Toscana, 2.521 nel Lazio. Inoltre, 6.122 scuole sono a elevato rischio idrogeologico». Di queste 994 in Campania, 815 in Emilia-Romagna e 629 in Lombardia. Secondo il rapporto Ance-Cresme 2012, «il 37% degli edifici scolastici si trova in aree ad alto rischio sismico e il 9,6% ad elevato rischio idrogeologico». L’11% delle scuole non ha il certificato di valutazione dei rischi, l’82,3% non ha il certificato di prevenzione incendi. Tornando agli studi di Martelli, solo il 7,9% degli edifici è stato progettato con normativa antisismica, solo il 3,4% ha il certificato di conformità, solo il 4,2% ha il certificato di relazione geotecnica, solo il 5,5% ha presentato il certificato di relazione geologica. Già meglio la situazione delle verifiche sismiche, realizzate in ben (!) 4.479 edifici, pari al 9,5% del totale.
Queste gravi carenze sono spesso dovute al fatto che molti edifici scolastici (circa il 15% del totale(4)) sono stati solo in un secondo momento convertiti in scuole. Inoltre, 3 edifici su 4 hanno almeno trentatrè anni di età(5): il 44% delle scuole è stato costruito tra il 1961 e il 1980 e risulta «non completamente a norma»(6). Sempre secondo il rapporto Ance-Cresme 2012, tra gli edifici scolastici «6.415 sono stati realizzati prima del 1919, 6.026 tra il 1919 e il 1945, 28.127 tra il 1945 e il 1971. Il 62% del patrimonio ha quindi più di quarant’anni e spesso è stato sottoposto male e poco a manutenzione straordinaria»(7).
Ancora più sconcertante l’ultimo dossier di Cittadinanzattiva: «Il cattivo stato di manutenzione fa sì che in un’aula su quattro (25%) siano presenti segni di fatiscenza, come umidità, muffe, infiltrazioni di acqua oltre che distacchi di intonaco visibili in un’aula su cinque (20%). Barriere architettoniche (13%) e pavimenti sconnessi (12%) ostacolano la vita agli studenti con disabilità presenti in un numero sempre crescente nelle nostre scuole (…) e il 51% di esse è senza tapparelle o persiane e il 28% ha le finestre rotte».
Nonostante i fondi necessari per rendere sicuri gli edifici siano stati stimati intorno ai 10 miliardi, bisogna ammettere che il governo Letta ha provato a smuovere le acque. Nel decreto del Fare sono stati inseriti 150 milioni per le emergenze mentre il decreto scuola prevede un mutuo di 800 milioni con la Banca di sviluppo europea. Il problema, ancora una volta, è dovuto all’estenuante burocrazia: secondo gli esperti chiamati da Renzi ci sono 8 diverse fonti di finanziamento e 12 (dodici) procedure attuative. In poche parole, i soldi messi a disposizione ci sono già, l’unico intoppo è quello di rendere più semplice l’accesso al credito. Il fedelissimo renziano Davide Faraone ha spiegato: «Quei 2,5 miliardi di euro a cui ha fatto riferimento Renzi in Parlamento sono risorse già esistenti. Le risorse per aprire subito una grande stagione di ammodernamento, ristrutturazione e messa in sicurezza delle scuole sono il miliardo e 200 milioni di euro non utilizzati e stanziati negli ultimi dieci anni a vario titolo dallo Stato per la riqualificazione delle scuole; 150 milioni più altri 300 del decreto del “Fare”; 850 milioni dal 2015 per mutui che accenderanno le Regioni». Tra fondi Sviluppo Coesione, fondi della legge di stabilità, capitolo di bilancio del Ministero, decreto del Fare, decreto scuola, decreto anticrisi, fondi strutturali europei e fondi legge quei due miliardi e mezzo sono già disponibili, chissà che questa sia davvero la volta buona che vengano utilizzati(8).
Concludendo con le parole di Martelli: «Le scuole sono (assieme agli ospedali) gli edifici pubblici che dovrebbero offrire le maggiori garanzie di sicurezza, perché esse contengono il nostro bene più prezioso: il nostro futuro».       

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(1) da Valentina Santarpia, sul «Corriere della Sera» del 31/12/2013
(2) da uno schema apparso su «La Repubblica» del 07/09/2013 su dati riferiti all’anno 2013-2014 forniti da Miur, Skuola.net, ScuolaZoo, Codacons, Contribuenti.it
(3) da Gian Antonio Stella, su «Sette-Corriere della Sera» del 23/08/2013
(4) da Valentina Santarpia, sul «Corriere della Sera» del 31/12/2013
(5) da uno schema apparso su «La Repubblica» del 07/09/2013 su dati riferiti all’anno 2013-2014 forniti da Miur, Skuola.net, ScuolaZoo, Codacons, Contribuenti.it
(6) da Valentina Santarpia, sul «Corriere della Sera» del 31/12/2013
(7) da Gian Antonio Stella, sul «Corriere della Sera» del 26/02/2014
(8) da Mariolina Iossa, sul «Corriere della Sera» del 27/02/2014

lunedì 24 febbraio 2014

La poltrona bollente




Il primo governo Renzi ha iniziato la sua corsa. Renzi I lo chiamano, e non ci potrebbe essere nome migliore per battezzare la squadra dell’esecutivo. Dopo due governi sotto la tutela del Presidente della Repubblica questo esecutivo è fortemente premier-centrico: la squadra dei ministri (piccola, giovane, piena di donne e con pochi meridionali) appare come un satellite che ruota intorno a Matteo Renzi, vera e unica voce in capitolo nel governo. La figura del vicepremier è assente.
Per molti aspetti non è la squadra che Renzi desiderava: il Primo Ministro, ad esempio, desiderava qualche nome famoso e inaspettato (Saviano, Montezemolo, Farinetti, Baricco) ma alla fine ciò non è stato possibile e, a pensarci bene, probabilmente qualche nome troppo appariscente avrebbe rischiato di mettere mediaticamente in secondo piano il vero protagonista di questo esecutivo: Renzi, per l’appunto.
Dopo giorni di estenuanti trattative la squadra è una miscellanea dalle molte facce: c’è chi proviene da Confindustria, chi dal mondo delle cooperative, chi faceva il sindaco nella Locride, chi all’ottavo mese di gravidanza, chi proviene dall’area bersanian-cuperliana, addirittura un civatiano, tre ex-fedelissimi di Berlusconi, un ex-segretario comunista di Imola…andando a guardare bene, di personalità di stretta osservanza renziana ce ne sono pochissime. Il che può apparire una contraddizione: come può un governo fondato intorno alla figura di Renzi avere pochi renziani? Invece è proprio da questo cocktail che si capisce la personalità del premier, una personalità che passa disinvoltamente dall’esigenza dell’operaio alla richiesta dell’imprenditore, da Goldrake a Dante Alighieri, da Nelson Mandela a Paolo Virzì. È la poliedricità l’aspetto fondamentale della figura del premier.
Nella messa a punto della squadra i rospi ingoiati sono stati molti: probabilmente la discontinuità rispetto al governo Letta voleva essere più marcata, invece i ministri del Ncd sono rimasti tutti al loro posto e al ministero dell’economia è rimasto un tecnico.
Quella dell’economia in questo frangente è indubbiamente la poltrona più importante. Eppure Renzi non è riuscito a piazzare né un nome di fiducia e nemmeno una personalità proveniente dal mondo della politica. Un grosso smacco, frutto delle pressioni sia del Capo dello Stato che delle istituzioni europee, dalle quali siamo ancora fortemente vincolati.
Ironia del destino ha voluto che il ministro designato (Pier Carlo Padoan) non sia stato presente il giorno del giuramento del governo e non abbia nemmeno preso parte al primo Consiglio dei Ministri. Sia chiaro, i motivi sono dovuti unicamente al fatto che Padoan si trovasse all’altro capo del pianeta, eppure è una coincidenza che strappa un sorriso. Proprio Padoan, l’unica figura del governo distante anni luce dall’indole di Renzi, uno dei pochi ministri che il premier non è mai riuscito a conoscere di persona. Insomma, un alieno nel governo, per giunta seduto dietro la scrivania più importante; la scrivania realizzata dai maestri d’ascia biellesi e donata a Quintino Sella alla fine del suo terzo mandato; la scrivania meno ambita e meno sognata. Anzi, probabilmente la scrivania più temuta. «Non prendetevi troppa cura delle mie condizioni. Anch’io, come tutti, non mancherò di morire», disse Guido Carli, anziano ministro dell’economia alla fine degli anni Ottanta sotto il governo Andreotti. Basta questa frase per capire quanto sia pesante il fardello degli inquilini del palazzo di via XX settembre, quanto sia amaro il calice di chi siede dietro quella scrivania.
Stando alle parole del portavoce forlaniano Carra, all’epoca della Democrazia Cristiana si riteneva che il ministro dell’economia, a furia di parlare di conti pubblici e rigore, fosse vittima di un particolare malocchio. Sicuramente un malocchio non era, fatto sta che tutti i ministri di via XX settembre (l’unica eccezione è Ciampi) hanno vissuto di malavoglia la loro esperienza governativa, perenni vittime di attacchi, insinuazioni e invettive da parte di personaggi che sembrano avere in tasca la soluzione di tutti i problemi.
Uno degli uomini più longevi su quella poltrona è stato Beniamino Andreatta, che occupò quel posto dall’ottobre 1980 al dicembre 1992. Ovviamente non ebbe vita facile: dopo il crac del Banco Ambrosiano i rapporti con il Vaticano si fecero tesi e volarono ingiurie di ogni tipo. E cosa dire di Giuliano Amato, che durante un congresso del Partito Socialista scimmiottò se stesso cercando di svuotare il mare con un secchiello?
La Seconda Repubblica non ha sicuramente reso più piacevole questa carica. Anzi. Il ministero dell’economia si è costantemente ritrovato a dover mediare tra le richieste demagogiche del primo ministro e la situazione disperata dei conti pubblici. Una specie di cornacchia realista atta a sgonfiare le roboanti dichiarazioni da campagna elettorale.
Domenico Siniscalco lo aveva capito fin troppo bene, tant’è vero che rassegnò le dimissioni nel 2005, ad appena un anno dall’insediamento nel governo Berlusconi. Le dimissioni vennero invocate anche per Vittorio Grilli all’epoca del governo Monti a causa di alcune vicende legate ad ex mogli e consulenze Finmeccanica. Fino ad arrivare al governo Letta, dove il ministro Saccomanni minacciò le dimissioni nel settembre 2013 a causa dei continui attacchi di alcuni esponenti della maggioranza di governo (Brunetta in primis). La colpa: quella di non saper dove trovare in poche settimane 5 miliardi di euro per eliminare la seconda rata dell’Imu e l’aumento dell’Iva.
Sberleffi, cattiverie, insulti e pretese assurde. Questo è il risultato che spetta ai vari ministri dell’economia in Italia. Nel corso dell’ultimo governo Prodi, per esempio, durante una manifestazione venne fatto sfilare un somaro che teneva appeso al collo il nome di Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca, manco a dirlo, ministro dell’economia. Una sorte assai benevola se paragonata alle liti furenti tra il premier Silvio Berlusconi e il suo ministro Giulio Tremonti, specie tra la primavera e l’autunno del 2011, quando ormai la maggioranza di governo era sfaldata e l’accanimento degli speculatori sul nostro debito si faceva pesante.
Leggenda vuole che, di fronte ad un ospite che visitava villa Certosa, il padrone di casa Berlusconi abbia mostrato la sua collezione di piante grasse dando particolare risalto a un cactus spinoso e contorto, a cui era stato affibbiato il nome di «Cervello di Giulio Tremonti».
Questa la dura storia dei ministri dell’economia, lasciati soli a fronteggiare i guai finanziari oppressi dalle ingerenze della potente burocrazia del ministero e oppressi dalla demagogia dei partiti di governo.
La sorte di Padoan è ancora difficile da definire. Finora i suoi rapporti sia con la politica (di destra e di sinistra) che con le istituzioni europee sono stati pacifici. Ora staremo a vedere cosa succederà quando dovrà mettere in pratica la furia innovatrice che propone Matteo Renzi. Gli auguro buona
fortuna(1).

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(1) Le citazioni storiche sono state estrapolate da Filippo Ceccarelli, su «La Repubblica» del 23/09/2013

domenica 16 febbraio 2014

Trappola e tradimento. Storia di una crisi di governo



«Sono tantissimi i nostri che dicono: ma perché dobbiamo andare al governo ora? Ma chi ce lo fa fare? Ci sono anch’io tra questi, nel senso che nessuno di noi ha mai chiesto di andare a prendere al governo». Questo, incredibile a dirsi, era il ragionamento che Matteo Renzi spiegava ai giornalisti meno di una settimana fa. Gli faceva eco la sua angelica discepola, Maria Elena Boschi: «Il mio augurio è che Renzi diventi Presidente del Consiglio attraverso l’investitura popolare». Più categorico un altro membro della nuova segreteria, Davide Faraone: «Chi propone Matteo premier, lo fa con lo spirito di quei democristiani che volevano far fuori un leader e lo promuovevano a Palazzo Chigi».
Poi, d’improvviso, il repentino cambio di rotta. Renzi, di punto in bianco, esige la poltrona di Letta. Proprio lui, che tutte le mediazioni e i cavilli legislativi li guardava con il distacco di una bambina schizzinosa, proprio lui che il governo di larghe intese lo viveva come un impiccio e un motivo d’imbarazzo per il partito. Non vi sono, inoltre, dei motivi di interesse personale a spingere il sindaco a Palazzo Chigi: fare il Presidente del Consiglio senza un mandato popolare in un governo che include elementi della destra ex-berlusconiana non è la posizione più ambita all’interno del Pd. E allora a cosa si deve questa conversione? Il sospetto è che, in qualche modo, il sindaco sia stato sospinto da un’onda partita da tutti gli organi politici-imprenditoriali del Paese. Nelle ultime settimane si è consumato un vero e proprio ammutinamento nei confronti dell’esecutivo.
Il segnale più esplicito era partito da Confindustria. Squinzi aveva detto chiaro e tondo che, se il governo si fosse presentato al direttivo «con la bisaccia vuota», «tanto varrebbe andare a votare». Una posizione dura, ben descritta da Cicchitto del Ncd: «Non si è mai visto un presidente di Confindustria trattare così un Presidente del Consiglio. La verità è che si sono schierati con Renzi. Vogliono la staffetta a Palazzo Chigi». Sorprendentemente, la Cgil non sembrerebbe pensare cose molto diverse rispetto a Squinzi.
Nel mondo imprenditoriale anche le grandi aziende pubbliche, in particolare Scaroni dell’Eni, erano settimane che bramavano per un governo Renzi. Lo stesso Scaroni, prima di un’apparizione a  «Porta a Porta», si era avvicinato al segretario dem dicendogli tranquillamente: «Matteo, hai visto quello schema che ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami…» il riferimento, fin troppo esplicito, è al cambio dei vertici delle aziende pubbliche (tra questi Eni, Enel e Finmeccanica) che si consumerà questa primavera. Il sindaco, agli occhi di Scaroni, rappresenta indubbiamente una garanzia maggiore sugli incarichi da assegnare.
Queste le posizioni del mondo economico. Nel mondo della politica la storia è più complessa: nelle ultime settimane i rapporti tra Letta e Renzi erano ai minimi termini. L’incomunicabilità era totale. Letta stava preparando un nuovo programma («Impegno 2014») corredato da una nuova squadra di governo. Renzi, da parte sua, non si fidava. Voleva un cambiamento vero, audace. I propositi di Letta venivano liquidati (sebbene non ufficialmente) come «un misero rimpastino». Per questo motivo, il sindaco cercava di rinviare per il maggior tempo possibile la presentazione del nuovo programma: prima bisogna aspettare che le riforme superino il primo scoglio in Aula, poi bisogna discutere i vari punti del programma nella Direzione del partito, e solo allora si può fare un patto di governo solido e duraturo. In poche parole, il programma per il 2014 sarebbe stato messo in moto solo a metà dell’anno. Questa situazione stava irrimediabilmente portando alla palude, all’immobilismo più deleterio, un immobilismo rischioso dal punto di vista del consenso popolare in particolar modo per il Pd.
Fin dall’inizio di febbraio la «minoranza interna» al partito (in particolare la fronda bersanian-dalemiana) preme affinché il segretario assuma l’incarico di governo in modo da porre fine a questo logoramento. Le chiacchiere iniziano a circolare, anche Alfano sembra persuaso: l’immobilismo può uccidere anche lui. Serve assolutamente un cambio di passo, un cambio di passo che dev’essere condiviso da tutto il Pd. Se il Pd non è compatto, il Ncd non ha motivo di collaborare col governo. Voci di corridoio dicono che Alfano, all’inizio della scorsa settimana, abbia pronunciato in Transatlantico le seguenti parole: «Noi vogliamo tanto bene a Letta, ma vogliamo più bene a noi stessi…»
Per le medesime ragioni, anche i partitini di centro (ora sbriciolati in una caterva di frazioni) auspicano un cambio repentino. Come se non bastasse, i parlamentari di praticamente tutta la scena politica iniziano anch’essi a convincersi che la cosa migliore sia la «staffetta»: un governo Renzi si prospetta più duraturo e compatto, il soggiorno a Roma è garantito per più tempo.
Il sindaco da principio rifiuta e si dimostra ostentatamente contrario a ogni manovra di palazzo, ma le pressioni aumentano e iniziano a contagiare anche alcuni «fedelissimi». Il segretario capisce che non c’è alternativa. Letta è solo, abbandonato e tradito da tutti. La scelta è stata già fatta.
La sera di domenica 9 febbraio Renzi si convince: a conferma di ciò vi è una telefonata fatta ad Arcore in cui il sindaco spiega a Berlusconi che la «staffetta» è compiuta e in cui garantisce al Cavaliere che il cammino delle riforme non subirà scossoni. Il dado è tratto.
C’è solo un piccolo inconveniente: Letta non vuole saperne di lasciare l’incarico. Continua a dire che il programma è pronto, che ci sono stati degli importanti risultati, che non ci sono motivi validi per passare la mano.
È a questo punto che inizia il vero e proprio dramma per il premier: nel corso di questa settimana il tradimento diverrà sfacciato, quelli che credeva fossero dei bastoni solidi su cui appoggiarsi si trasformeranno in ramoscelli scricchiolanti. Gli viene detto senza mezzi termini che il governo non può proseguire di questo passo. Lui ribatte (e un fondo di ragione ce l’ha) che è stato Renzi a voler rimandare alle calende greche il suo programma. Ma ormai la situazione è chiara. Letta è rimasto solo.
Per tre giorni uomini di ogni corrente del suo partito gli hanno chiesto le dimissioni. Anche uomini sui quali nutriva una fiducia incondizionata. Tra questi Cuperlo, ma il colpo maggiore è stato quello di Franceschini. Letta e Franceschini hanno avuto una lite furibonda in cui, pare, il premier abbia giurato vendetta dicendo che, nel caso di ripartenza del governo, Franceschini sarebbe stato escluso dalla squadra. «Giuda» lo hanno soprannominato i pochissimi parlamentari rimasti fedeli a Letta.
Il Primo Ministro prova disperatamente a chiedere aiuto a Napolitano durante un breve colloquio tenutosi martedì, ma il Capo dello Stato non può nulla e non può che ripetere quello che dice da giorni: «Dev’essere il Pd a decidere la sorte del governo». Se tutto l’arco parlamentare auspica un cambio di passo il Quirinale è impotente. L’unica cosa che il Colle può impedire è lo scioglimento delle Camere (con il proporzionale puro in vigore le urne sarebbero solo una perdita di tempo, e inoltre il governo non è materia che spetta ai cittadini).
Mercoledì c’è l’incontro più importante: quello tra Letta e Renzi. Un incontro burrascoso, tant’è vero che all’uscita le due personalità danno una versione diversa: secondo il sindaco Letta ha capito che non c’è più nulla da fare, secondo il premier ognuno è rimasto sulle proprie posizioni. Il Presidente del Consiglio ha ancora un fondo di speranza, ma assomiglia sempre di più a un Don Chisciotte che sfida i mulini a vento. Fa una mossa disperata, convinto di smuovere gli animi: alle 18 di mercoledì sfodera il suo programma in conferenza stampa, a dimostrazione che un progetto esiste, che l’immobilismo è una scusa, che l’esecutivo può proseguire il suo cammino. Solo una sfiducia del Parlamento può convincerlo a lasciare la sedia. Letta ci credeva veramente in qualche miracolo parlamentare: ha addirittura telefonato al convalescente Bersani, ricevendo la rassicurazione che i parlamentari bersaniani non avrebbero tradito il governo. Il passare delle ore però lo convince che non è il caso di mostrare il pugno di ferro, e che un passaggio parlamentare può solo rappresentare un umiliazione.
Giovedì 13 febbraio inizia la Direzione del Pd che deve decidere le sorti del governo. Renzi ringrazia Letta per il lavoro svolto ma, in maniera spicciativa e senza una motivazione chiara, gli chiede un passo indietro: c’è bisogno di un nuovo governo, che vada avanti fino al 2018 con la medesima maggioranza di larghe intese. Quasi il 90% della Direzione approva.
Il tradimento è consumato ed è sotto gli occhi di tutti, indugiare non ha senso.
Venerdì mattina Enrico Letta rassegna (in lacrime) le dimissioni al Capo dello Stato. Matteo Renzi è destinato a diventare Presidente del Consiglio, con la stessa litigiosa maggioranza del governo Letta e senza alcun mandato popolare.

I due «cavalli di razza» del Pd, gli unici due ex-democristiani che sembravano manovrare le sorti del partito, sono stati catapultati in una situazione che non immaginavano e nemmeno auspicavano. Destra e sinistra, imprenditori e sindacati hanno compiuto la loro scelta con compattezza e determinazione. I diretti interessati non hanno potuto fare altro che lasciarsi trascinare da questa onda d’urto, i cui esiti sono ancora un’incognita.

mercoledì 12 febbraio 2014

La versione di Friedman. Tutto quello che è successo nell'estate 2011



Se n’è parlato molto in questi giorni. Si sono immaginati scenari, retroscena, complotti, complotti di complotti e fantasie di ogni genere.
Una vicenda senza risvolti giudiziari, ma stracolma di strascichi polemici. Strascichi polemici che si avvalgono di una ricostruzione fuorviante ma pur sempre efficace quando si tratta di sputare fango mediatico contro la più alta Istituzione della Repubblica. La polemica era stata ampiamente prevista: il giornalista che ha indagato sulla vicenda, lo statunitense Alan Friedman, ha dedicato molto tempo per delineare la storia in tutti i suoi aspetti. La pubblicazione dello scoop, concordata tra «Corriere della Sera» e «Financial Times», è stata preceduta anch’essa da varie verifiche. In particolare, il prestigioso quotidiano anglosassone ha impiegato ben quattordici dipendenti (tra i quali un avvocato) per appurare l’attendibilità della vicenda.
In realtà lo scopo di Friedman era ben lungi dal trovare qualche scoop sul Presidente della Repubblica. La vicenda nasce (forse casualmente, forse no) durante un’intervista rilasciata dal dominus del gruppo Repubblica-l’Espresso Carlo De Benedetti nell’autunno scorso. Friedman voleva sentire alcuni pareri dell’imprenditore sulle prospettive dell’economia italiana, oggetto del libro che andava scrivendo (per la precisione «Ammazziamo il Gattopardo», uscito stamattina).
Nel corso dell’intervista, De Benedetti rilascia qualche dichiarazione di troppo su alcuni colloqui privati avuti tra Monti e Napolitano nell’estate 2011, colloqui che affascinano il giornalista, il quale, per mesi, decide di scavare a fondo nella questione.
Quello che segue è il racconto, addolcito da un po’ di prosa, di quanto è avvenuto in quell’estate passata ad architettare il destino del governo italiano. Per la ricostruzione ci si è avvalsi delle cronache di quei giorni e delle dichiarazioni di Mario Monti, Giorgio Napolitano, Carlo De Benedetti e Romano Prodi.

Giugno 2011
Le nubi iniziano ad addensarsi sulla scena italiana.
Il salvataggio della Grecia da parte dell’Unione Europea rischia di innescare una serie di speculazioni sui titoli di Stato di altri paesi in difficoltà, in primis l’Italia.
Il governo appare ben poco consapevole delle gravi responsabilità. Secondo il Primo Ministro, Silvio Berlusconi, «i ristoranti sono pieni», la crisi è solo un fattore psicologico, non c’è alcun bisogno di ricevere aiuti da parte dell’Europa. Come se non bastasse, la maggioranza parlamentare si va sempre più sfaldando: il Pdl ha visto una quota di parlamentari abbandonare il partito per sostenere la nuova formazione di Gianfranco Fini, serpeggiano i malumori della Lega Nord in materia pensionistica, il Ministro dell’Economia Tremonti suscita perplessità all’interno del suo stesso partito, Brancher e Cosentino sono costretti a dimettersi, il primo qualche ora dopo l'insediamento.
Il 7 giugno arriva il primo avvertimento da parte dell’Europa: bisogna agire, entro ottobre il deficit italiano va assolutamente ridotto. Giulio Tremonti va a parlare con Napolitano.
In Europa, e non solo, sono in molti a sostenere che, in caso di estrema urgenza, l’Italia debba affidarsi a un governo responsabile e consapevole. È in questi giorni che un nome inizia a farsi strada: quello di Mario Monti, stimato economista ed editorialista del «Corriere della Sera». Secondo molti illustri pareri è lui la persona che, se la situazione dovesse peggiorare, sarebbe destinata a guidare un governo di tecnici per riportare l’Italia su un sentiero virtuoso. Tra questi illustri pareri c’è anche quello del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Napolitano conosce Monti da anni, legge con curiosità e apprezzamento i suoi articoli, intavola spesso e volentieri dei colloqui con l’economista. Insomma: Napolitano stima Monti, è una persona di cui nutre fiducia. I due si danno addirittura del «tu».
Non è dato sapere se già a quell’epoca Napolitano avesse parlato esplicitamente a Monti di un possibile incarico a Presidente del Consiglio, fatto sta che la voce di una possibile investitura in caso di estrema urgenza è insistente già da giugno.
Talmente insistente che a fine mese l’ex Presidente del Consiglio ed ex capo della Commissione Europea Romano Prodi, durante una delle lunghe chiacchierate con l’amico Monti nell’Ufficio dell’economista, dice chiaro e tondo: «Vedrai, Mario, quando lo spread arriverà a 300 punti ti chiameranno a fare il Primo Ministro». Una frase del genere lascia Monti un po’ attonito. L’argomento è delicato e lui sa di non avere per nulla la stoffa del politico. Prodi capisce la sensazione dell’amico, ma il buon Romano (che di governi ne ha guidati due e che di politica ci capisce qualcosa) lo rassicura come un padre affettuoso e navigato: «Non puoi fare nulla per diventare Presidente del Consiglio. Se ti arriverà l’offerta non ti potrai sottrarre. Ma non ti devi preoccupare dell’evenienza, anzi: quando l’offerta arriverà dovrai essere felice, l’uomo più felice del mondo!»
Le parole di Prodi servono come supporto psicologico a Monti. La discesa in politica ha per lui lo stesso effetto di uno sciroppo amaro. La scena politica italiana è complicata, buffa, inestricabile. Come si fa a sentirsi felici in mezzo a quella ciurma di chiassosi personaggi?
Sono molte le figure di spicco del mondo economico che, nei colloqui con Napolitano, sottolineano l’esigenza di un «piano B» da attuare nel caso la situazione sfugga di mano. Questo governo non è in grado di fronteggiare i guai finanziari che sembrano avvicinarsi.
Tra questi economisti c’è Corrado Passera, capo del gruppo Banca Intesa, che al Capo dello Stato riferisce senza troppi mezzi termini: «Occorre un programma di governo da tenere a portata di mano in caso di estrema necessità. Ma bisogna fare in fretta. Se la situazione va avanti di questo passo c’è bisogno di un cambio di rotta il prima possibile». Napolitano è concorde e affida proprio a Corrado Passera l’incarico di stilare una bozza di programma di governo.
Passera si mette al lavoro.

Luglio 2011
I segnali di tempesta in arrivo si fanno sempre più insistenti.
Tra l’8 e l’11 di quel mese lo spread schizza da 150 a 300 punti base, i titoli di Stato e le quotazioni borsistiche sono sotto il tiro degli investitori internazionali. La Borsa perde quasi il 4%.
Tremonti e Berlusconi promettono che, entro l’estate, arriverà la manovra economica. Ma a Brunetta non va a genio l’impostazione rigorista di Tremonti e quindi le fibrillazioni nella maggioranza e, manco a dirlo, tra maggioranza e opposizione restano molto alte. Dovrà intervenire Napolitano per chiedere di calmare gli animi e affrontare la situazione con la più grande responsabilità possibile. Ma anche lui sa che il governo, così com’è, non è in grado di fronteggiare la catastrofe.
Nei colloqui con Mario Monti, Napolitano dà dei segnali sempre più chiari: «Tieniti pronto, potrei chiamarti da un momento all’altro per sostituire Berlusconi».
Nel frattempo Corrado Passera ha stilato la prima bozza di programma di governo. L’ha fatta in fretta e furia, consapevole che non c’è tempo da perdere. Passera consegna una copia del documento sia a Mario Monti (con cui si era già ritrovato a parlare di questo documento), sia a Giorgio Napolitano.
La bozza sembra buona ad entrambi i lettori. Contiene molti punti (il documento finale, che arriverà a novembre, è formato da quasi 200 pagine) e tocca molti aspetti. Si parla di «terapia d’urto». C’è la priorità di risanare i conti (la famosa «austerity»), ma c’è anche lo spazio per programmi che favoriscano la crescita. Nel documento finale, ma è probabile che vi sia scritto anche nella bozza di luglio, è riportato chiaro e tondo: «Non ci mancano le possibilità ed energie per raggiungere obiettivi di questa portata a patto, però, di non sprecare il poco tempo che ci rimane a disposizione». Si parla di politiche per il lavoro, di pensioni, di privatizzazioni (un piano da 100 miliardi), di liberalizzazioni, di una patrimoniale al 2% su tutti i patrimoni immobiliari e finanziari (eccezion fatta per conti bancari e prime case).

Agosto 2011
Mario Monti, come ogni estate, passa qualche giorno di relax in una casa presa in affitto a Silvaplana, nei pressi di St.Moritz. Ma in quella situazione c’è ben poco da rilassarsi. Berlusconi è ancora al governo, lo spread ora sfiora quota 400.
Il 5 agosto arriva una lettera di fuoco da parte della Banca Centrale Europea: bisogna assolutamente darsi una mossa per evitare l’irreparabile.
Berlusconi è furibondo, vede la lettera come un inopportuno diktat da parte dell’Europa. Nonostante ciò, si decide di anticipare il pareggio di bilancio già nel 2013 e il Parlamento continuerà a lavorare senza pausa.
Durante la permanenza estiva a St.Moritz, Monti incontra spesso Carlo De Benedetti. Il professore conosce De Benedetti da una vita, era addirittura amico di suo padre. I due si scambiano confidenze e consigli. Nell’agosto 2011 però Monti appare più cupo e preoccupato del solito. Quando vede De Benedetti e la consorte chiede un incontro.
«Con piacere! Ci possiamo trovare a cena uno di questi giorni. Conosco una bella trattoria tipica. È un po’ fuori mano ma sono sicuro che non ne rimarrai deluso» risponde solare De Benedetti. Passare una serata con un vecchio amico è sempre allettante. Vengono fissati il giorno e l’ora.
Si stanno già salutando quando Monti trova il coraggio e chiede un po’ imbarazzato: «Però vorrei parlarti a quattr’occhi di una faccenda seria». «Nessun problema», risponde De Benedetti. «Vieni a casa mia prima della cena così possiamo parlare in tutta tranquillità».
Così avvenne.
Sono circa le 18 del giorno prestabilito quando Mario Monti si trova nello studio della casa dell’imprenditore.
È un po’ difficile trovare le parole adatte, ma alla fine Monti arriva al nocciolo della questione: «C’è la concreta possibilità che io venga nominato Primo Ministro. Cosa mi consigli? Io non ho mai avuto grossi rapporti con la politica, ho paura di inciampare…»
«Ma guarda», risponde De Benedetti, tranquillo e riflessivo: «Secondo me tu sei perfettamente all’altezza di un ruolo del genere, l’unica questione è il timing: se te lo chiedono a settembre accetta senza neanche pensarci. Se te lo chiedono a dicembre o più in là ti conviene lasciar perdere. Insomma, non c’è tempo da perdere: o vai subito a Palazzo Chigi, altrimenti è inutile».

Quanto narrato è quello che è esattamente successo nell’estate 2011, le vicende sono confermate da tutti i diretti interessati. Quelli che urlano al «complotto» dicendo che quell’estate l’Italia andava a gonfie vele sanno di mentire.
Il governo Berlusconi perdeva pezzi da tutte le parti, e i successivi tre mesi furono soltanto una sequela di fallimenti e figuracce. Il governo veniva battuto al Senato, l’Europa che considerava Berlusconi nient’altro che un ridicolo incompetente rideva di noi e dall’altro lato lanciava preoccupati ultimatum, le agenzie di rating tagliavano le valutazioni del debito pubblico italiano senza pietà, lo spread arrivava alla preoccupante quota record di 550 punti.
A novembre Napolitano convince Berlusconi a lasciare la poltrona: la situazione è insostenibile. Ciò che era stato previsto e calcolato (ma scongiurato) si avvera: Mario Monti viene convocato a guidare un nuovo esecutivo composto da persone che con la politica non hanno nulla a che fare.
Nonostante la stima goduta sia nell’ambiente politico che nell’ambiente economico, Monti è uno sconosciuto di fronte all’opinione pubblica. Nemmeno i giornali più attenti erano a conoscenza del fatto che da almeno quattro mesi il Quirinale stava avviando consultazioni nell’eventualità di un nuovo governo tecnico guidato dal professore.
Passera verrà nominato Ministro dello Sviluppo Economico, ma il suo programma (che vedrà ben quattro modifiche tra il luglio e il novembre 2011) non verrà mai messo in pratica.

Sull’opportunità da parte di Monti e De Benedetti di rivelare questa storia si può discutere a lungo, così come sull’effettiva efficacia del governo tecnico. Ma non è questo l’obiettivo di questo articolo. L’obiettivo è semplicemente quello di raccontare i fatti di quella torrida estate.

martedì 4 febbraio 2014

Il MoVimento dell'odio



Prima il «boia» rivolto (in Parlamento) al Presidente della Repubblica, poi la vera e propria occupazione della Camera e delle Commissioni (a suon di urla, minacce, insulti e ostruzionismo fisico), poi la richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, poi la provocatoria domanda «Voi cosa fareste da soli in macchina con la Boldrini?» corredata dalle prevedibili nauseabonde risposte da parte della rete. Il MoVimento 5 Stelle non concede tregua. Ogni giorno viene messa a punto una nuova arma, un nuovo pretesto, un nuovo capro espiatorio per scatenare l’odio popolare.
Con la scusa che «tutti i mezzi d’informazione sono corrotti», il padre-padrone del MoVimento, il comico Beppe Grillo, si erge a portatore di verità evangeliche, verità evangeliche ascoltate e credute senza remore dai suoi adepti. E pazienza se, dopo aver analizzato più di 60mila dichiarazioni, lo staff del sito web PagellaPolitica.it abbia rivelato che soltanto il 58% delle affermazioni del comico sono riconducibili alla realtà (una percentuale uguale a quella di Berlusconi, tanto per intenderci)(1).
Tanto per dirne una (forse la più grossa), durante la tappa a Siena dello Tsunami Tour nel gennaio 2013, aveva riferito che la crescita toglie posti di lavoro. A dimostrazione di ciò, riportava che la Germania aveva raddoppiato la sua produzione portando però ad una riduzione del 15% dei posti di lavoro. Una panzana smentita dai dati Eurostat e Ocse: la produzione tedesca non è raddoppiata, e i posti di lavoro sono, anzi, aumentati. Una perla del genere ha meritato giustamente il titolo onorifico di «Panzana dell’anno», mentre il suo inventore, Grillo, ha ricevuto nientemeno che l’iridato titolo di «Pinocchio 2013»(2).
Se continua di questo passo, temo che il comico possa essere il favorito anche per l’edizione 2014 di questo premio. Ogni giorno, infatti, la fervida fantasia di Grillo partorisce nuovi slogan, nuove invettive, nuove vicende. Il tutto rigorosamente inventato di sana pianta. Un esempio su tutti: l’esborso da parte dello Stato di 7,5 miliardi di euro per le banche azioniste di Bankitalia.
Lo scopo principale di queste scempiaggini è semplice e terrificante: scatenare ancora di più l’odio verso la politica e le Istituzioni, specie in un periodo in cui la macchina delle riforme si sta mettendo in moto. Ma non solo. Lo scopo di questi slogan privi di argomentazione è anche quella di tenera unita e salda la sua base elettorale.
Lo sappiamo tutti: il MoVimento 5 Stelle è stato la forza politica che ha riscosso più successo sul territorio nazionale alle elezioni politiche del febbraio 2013(3). Un vero e proprio «tsunami» di voti che conosce però un unico e flebile comune denominatore: l’odio verso la politica.
Coloro che hanno votato il MoVimento non lo hanno fatto per la fiducia che nutrono in Grillo (solo il 14% degli elettori 5 Stelle ha scelto il proprio voto in base alla simpatia per il leader, contro il 22 del Pd, il 41 del Pdl e il 68 di Sc), bensì per il programma elettorale (un striminzito elenco di frasette racchiuse in poche pagine) e per l’avversione nei confronti del resto delle forze politiche. Ben il 57% dell’elettorato 5 Stelle è stato spinto da uno di questi due motivi nella sua scelta di voto(4).
Non c’è nessuna ideologia di fondo, né alcun progetto di base. La mancanza delle basi essenziali per dare vita ad una forza politica (non c’è nemmeno un candidato premier!) ha provocato una grande eterogeneità tra gli elettori del MoVimento 5 Stelle. L’M5S ha pescato i suoi voti in ogni settore della vita pubblica, in ogni angolo geografico del paese, in ogni cultura e tradizione politica.
Agli albori, il MoVimento aveva una preponderante connotazione giovanile, di sinistra (alla fine del 2010 il 33% della base proveniva da questa cultura politica) e attirava per la gran parte lavoratori dipendenti. Con le Amministrative del 2012, i 5 Stelle iniziano ad avere più notorietà. L’aumento di notorietà ha comportato un significativo mutamento nel tipo di elettorato, che porterà addirittura, a cavallo tra il 2012 e il 2013, ad un imprevisto sorpasso dell’area culturale di destra rispetto all’area di sinistra (in questo periodo il 38% dell’elettorato 5 Stelle si dichiara «di destra» contro il 26% della connotazione opposta) per poi riequilibrarsi nei giorni delle elezioni politiche. Un equilibrio profondamente instabile(5).
Il MoVimento 5 Stelle, per paradosso, è stato il primo partito sia tra gli imprenditori (ben il 44,3% ha scelto il MoVimento di Grillo), sia tra gli operai (il 38,4% di questi ha sostenuto i 5 Stelle), sia tra i disoccupati (qui la percentuale è del 40%)(6).
Tenere unita questa miscellanea non è semplice. Ogni proposta rischia di scontentare qualcuno, ogni presa di posizione rischia di far storcere il naso a qualcun altro. A conseguenza di ciò, la scelta di Grillo è quella di continuare imperterrito a urlare slogan o a farsi bandiera di proposte dai contorni poco chiari, in modo da accontentare tutti. Vengono evitate accuratamente l’analisi dei problemi, le proposte concrete e (manco a dirlo) i compromessi con gli altri partiti.
Grillo sceglie di starsene fuori da tutto questo, preferisce stare barricato nel suo salotto di casa rifiutando ogni tipo di confronto e sparando quotidianamente i suoi infantili epiteti contro tutto e tutti (con particolare predilezione per i politici e gli intellettuali di sinistra).
Quando ci sono questioni su cui è impossibile tacere, la tecnica usata è quella di dare «un colpo al cerchio e un colpo alla botte». Un esempio su tutti: i candidati per la Presidenza della Repubblica. Prima si sostengono con veemenza Gabanelli e Rodotà, poi, per non scontentare la frangia di destra dell’elettorato, vengono ripudiati con accuse e frasi talvolta offensive.
Altro esempio: la legge elettorale. Qui le varie giravolte farebbero impallidire anche Roberto Bolle: prima si sostiene il Mattarellum, poi si dichiara che pur di ottenere le urne si può accettare anche il Porcellum, poi si ritorna sul Mattarellum, poi si elabora un bizzarro progetto ispano-elvetico. Dimenticato il progetto si ritorna sul Mattarellum (strizzando un occhio anche al proporzionale puro), poi, dulcis in fundo, si decide di consultare la rete, negli stessi giorni in cui la legge elettorale Renzi-Berlusconi-Alfano viene discussa in Aula.
In questo modo si cerca di far felici tutti, senza avanzare una vera proposta e attirando l’attenzione dei media che, dedicando spazio a Grillo, non parlano dell’iter delle riforme che rischia di mandare all’aria i principali slogan elettorali del comico.
Se finora gli slogan di Grillo, fatta qualche eccezione, si potevano liquidare come un contorno ornamentale e pittoresco del dibattito pubblico, in questi giorni la cosa ha assunto dei contorni più preoccupanti.
Il comico, infatti, si sta particolarmente accanendo contro il Presidente della Camera Laura Boldrini. Sfruttando la misoginia intrinseca e a stento nascosta di molti italiani, la si è scelta come autentico capro espiatorio. La colpa? Non aver scisso il decreto Imu-Bankitalia in due decreti distinti. Scissione che, cosa fondamentale, non spetta al Presidente della Camera. Dopo giorni di aspro confronto, Boldrini si è trovata costretta a interrompere il dibattito parlamentare (la famigerata «tagliola») e di procedere alla votazione del decreto prima che questo decadesse. Una scelta quasi automatica, che non ha nulla di illegale, ma che ha fornito un ottimo pretesto per le peggiori insinuazioni nei suoi riguardi. Un comportamento preoccupante, meschino. Chiunque ha osato esprimere la propria perplessità su questi atti (specie validi studiosi come Corrado Augias) si è ritrovato ricoperto di insulti.
Boldrini, proprio lei che meno di tutti ha a che fare con i vecchi partiti e la vecchia politica (fra l’altro il partito di cui fa parte è all’opposizione esattamente come i 5 Stelle), proprio lei che ha dimezzato le spese di rappresentanza della Camera, proprio lei che ha rinunciato agli appartamenti di servizio, proprio lei che ha fatto diminuire le indennità dei dipendenti della Camera dal 70 al 30%, proprio lei che con queste mosse ha restituito allo Stato 10 milioni, proprio lei che ha rifiutato la scorta(7), proprio lei che annunciò: «Ho accettato di candidarmi per un progetto nuovo di società, perché ero indignata della politica», proprio lei che dichiarò: «Rinunzio all’uso dell’alloggio di servizio e al rimborso delle spese accessorie di viaggio e telefoniche. Inoltre, domando che le indennità di funzione e il mio rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare siano ridotti della metà», proprio lei che, negli stessi giorni, disse: «L’acqua pubblica torni a essere un diritto umano universale», proprio lei che denunciò: «La misura è colma, la violenza sulle donne reclama attenzione maggiore. È un’urgenza che il Parlamento spero avverta come incalzante», proprio lei che, con gli stessi toni, proclamò: «Chi ha sparato a Palazzo Chigi era un disperato per perdita di lavoro. Urge dare risposte perché la crisi trasforma le vittime in carnefici». Proprio lei che, qualche mese dopo, disse: «Non può più riproporsi il conflitto lacerante tra produzione e tutela dell’ambiente, tra lavoro e salute». Proprio lei che denunciò con le lacrime agli occhi: «Sembra incredibile: dopo tanti anni dalla strage di Bologna chiediamo la cosa più semplice e non abbiamo ancora una risposta: abbiamo gli esecutori ma mancano i mandanti, i burattinai, gli strateghi».
Insomma, proprio lei che, sagacemente, riassunse tutto questo domandando: «Ci si aspetta che faccia il classico Presidente della Camera? Ma io non sono un presidente classico»(8).
Alla luce di tutto ciò, si capisce che l’accanimento nei suoi confronti non ha nulla di politico. La ferocia con la quale è stata vituperata è unicamente il frutto malato di una frustrazione inaccettabile in un paese civile. Dopo le frasi degradanti che le sono state rivolte, i 5 Stelle hanno dimostrato che non sono loro l’alternativa politica dopo anni di orrenda gestione della cosa pubblica. Anzi, incarnano i peggiori difetti di un popolo. Difetti che speravamo essere superati.

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(1) da Luca Mastrantonio, sul «Corriere della Sera» del 03/01/2014
(2) ibid.
(3) Se guardiamo alle forze politiche e non alle coalizioni, il MoVimento 5 Stelle è la forza che ha preso più voti sul territorio nazionale. I dati del Ministero dell'Interno dicono che nel territorio italiano (fatta eccezione per la Valle d'Aosta) il MoVimento ha raccolto 8.689.458 voti per la Camera dei Deputati e 7.285.850 voti per il Senato della Repubblica. Se si sommano però i voti degli italiani all'estero, si scopre che il MoVimento 5 Stelle, nell'intero risultato elettorale, è la seconda forza politica dopo il Pd. Nel risultato complessivo, l'M5S ha raccolto 8.797.902 voti per la Camera e 7.471.671 voti per il Senato, mentre il Partito Democratico ha raccolto rispettivamente 8.932.615 e 8.683.690 voti
(4) I dati sono stati forniti dall'Indagine Osservatorio elettorale LaPolis (Università di Urbino), marzo 2013 (base: 1528 casi). Il risultato completo dello studio è stato riportato nel libro «Un Salto Nel Voto» di Ilvo Diamanti, ed.2013, pag.49
(5) Le analisi (condotte dall'Osservatorio elettorale LaPolis) utilizzano un sistema di medie mobili che cumulano cluster sovrapposti di tre indagini. Tale strategia permette di disporre di numerosità adeguate per una componente elettorale inizialmente piuttosto circoscritta. Il risultato completo dello studio è stato riportato nel libro «Un Salto Nel Voto» di Ilvo Diamanti, ed.2013, pag.69
(6) I dati sono stati forniti dall'Indagine Osservatorio elettorale LaPolis (Università di Urbino), febbraio-marzo 2013 (base: 3546 casi). Il risultato completo dello studio è stato riportato nel libro «Un Salto Nel Voto» di Ilvo Diamanti, ed.2013, pag.66
(7) Le informazioni fin qui riportate sull'attività politica di Laura Boldrini sono state estrapolate dalle affermazioni di quest'ultima durante un intervento a TgCom 24 nel novembre 2013 e riportate dal «Corriere della Sera» del 25/11/2013
(8) Le affermazioni sono state riportate su «La Stampa» del 12/09/2013 a cura di Mattia Feltri. Delle affermazioni trascritte, la prima è stata pronunciata il 17/03/2013, la seconda il 21/03/2013, la terza il 22/03/2013, la quarta il 20/04/2013, la quinta il 28/04/2013, la sesta il 07/06/2013, la settima il 02/08/2013 e l'ultima il 29/07/2013