giovedì 21 gennaio 2016

Quei voucher che rompono l'incantesimo



Attenendosi scrupolosamente alla vulgata espressa dagli apparati mediatici, pareva che il mondo del lavoro nell’èra di Facebook dovesse essere definitivamente riassunto in un galvanizzante corollario di vocaboli d’oltremanica. La fine del fordismo, l’estinzione delle tute imbrattate e la definitiva archiviazione dei contesti magistralmente rappresentati in «Tempi Moderni» di Chaplin dovrebbero secondo una cospicua pubblicistica consegnarci una situazione caratterizzata da lavoro «smart», ricco di stimoli, legato indissolubilmente alla conoscenza, dove il «merito» inteso come possibilità di far emergere le proprie sbalorditive capacità cognitive (e tecnologiche) fosse l’unico fattore in grado di sancire non solo il successo personale, ma anche le stesse possibilità di trovare un impiego.

Il mondo schernito da Chaplin è definitivamente concluso o si è soltanto evoluto?
Avvinghiati dai poster di Steve Jobs e ammaliati dalle slide di Bill Gates non pochi studiosi, politici ed economisti hanno provato a venderci l’immagine di un mercato ove l’elevatissimo grado di
Altro che prodigio tecnologico: il «New York Times» del
02/05/2014 affermò che
  
«se Steve Jobs fosse ancora vivo,oggi dovrebbe stare in carcere».
tecnologia in cui ci troviamo immersi fosse l’unico cardine possibile su cui imperniare la carriera, trasformando la creatività – e la competenza tecnica - nell’arma più affilata a disposizione, rendendo la fatica fisica un desueto ricordo da cartolina in bianco e nero, spacciando la «flessibilità» (di orario, di mansioni, di organizzazione) come una stimolante sfida giocata all’insegna di algoritmi da congegnare.

Il progresso tecnologico avrebbe
debellato le mansioni defatiganti - asserivano dal pulpito dei loro civettuoli «think-tanks» (ennesimo anglicismo) -, di conseguenza l’unico obiettivo perseguito dall’impresa sarebbe stato quello di ottenere personale il più possibile «smart», decisamente arricchito di «know-how», propenso al «problem solving» e chissà a quale altra peculiarità cognitiva. Dinnanzi a cotanta specializzazione, si è cercata di divulgare con una dose non irrilevante di malafede la concezione che un meccanismo così perfettamente congegnato non andasse caricato di polverosi vincoli. Se il «merito» dato dalla preparazione tecnologica è assurto al ruolo di protagonista del mercato, qualunque intralcio s’inserisca in questo contesto (in particolare quei ferrivecchi chiamati democrazie, Costituzioni, Statuti, contrattazioni collettive) va invariabilmente bollato come anacronistico sussulto anti-meritocratico. Del resto, questa la conclusione, se qualcuno non riesce ad inserirsi nel mercato vuol dire che il suo impegno è insufficiente. Il licenziamento finisce per essere considerato indubitabilmente una prova schiacciante dell’indolenza del lavoratore. La disoccupazione etichettata come tipica condizione dello scansafatiche.
L’impianto ideologico alla base dei contratti «a tutele crescenti» sostanzialmente ruota intorno a
Il giuslavorista Pietro Ichino, tra i più
solerti ad affermare che «oggi è per lo
più necessario un apprendimento
continuo e le attitudini del lavoratore, la
sua capacità di adattarsi agli shock
tecnologici richiedono sovente
molti mesi per essere valutate».
questi capisaldi, spacciati maldestramente come innovativi ma in realtà retaggio di connotazioni mentali tipiche della destra economica sin dagli inizi del XIX secolo: in particolare si afferma che per valutare l’effettiva preparazione cognitiva del neoassunto l’impresa necessiti di un periodo di rodaggio, frangente nel quale sarebbe a dir poco indiscreto imporre vincoli considerati (sulla base di mere fantasticherie) forieri di scoraggiamento per tali assunzioni. Secondo tale schema infatti l’impresa insegue un solo obiettivo: assumere persone valide. Anche soltanto abbozzare il pensiero che il periodo iniziale di lavoro possa essere adoperato anche per accertarsi della docilità del lavoratore (ossia che questi non si sogni di commettere azioni sovversive, prima fra tutte l’iscrizione a un sindacato) si finisce per essere sommariamente snobbati come figli di un atavico sospetto novecentesco superato dalla storia.

A infrangere la narrazione, capitano però tra capo e collo quelle piantagrane di rilevazioni statistiche. L’ultimo rapporto Inps, in particolare, ci mette al corrente della sbalorditiva diffusione dei voucher. D’improvviso quei numeri ci fanno catapultare in un mondo dove dietro lo sfavillante marketing della «net-economy» si celano magazzini automatizzati dediti allo smistamento degli ordinativi. Un pianeta in cui l’utilissima e iper-tecnologica piattaforma web fornita delle aziende è possibile solo grazie a frenetici lavori di aggiornamento talmente costanti da non dover per nulla invidiare le scene di Chaplin. Ma andando oltre le oniriche elucubrazioni sulla tecnologia quello spaventoso numero di buoni lavoro descrive più di ogni altra cosa un contesto in cui il progresso tecnologico, se esiste, non è ancora economicamente preferibile rispetto all’assunzione di lavoratori a bassa qualificazione.

Il voucher, ultima e apprezzata frontiera della precarietà.

Mansioni tuttora vive e vegete non solo nei tradizionali comparti del primario (raccoglitori, conducenti di macchinari, addetti agli allevamenti) e dell’industria (edilizia, automobile, costruzioni stradali, elettrodomestici e via discorrendo), ma soprattutto dei servizi: dal call center alla ristorazione, dalla ricezione alberghiera alle pulizie, dalla sorveglianza alla caffetteria, dal commercio all’assistenza alla persona, dai servizi ospedalieri al turismo.
Secondo i dati forniti da Excelsior-Unioncamere riferiti all’anno 2010 questo tipo di mansioni riguardava la bellezza di 5,2 milioni di lavoratori, quasi un terzo dei dipendenti. Oltretutto, lungi dal rappresentare una specie in via d’estinzione, il numero di tali lavoratori è destinato ad una crescita irresistibile, sicuramente non inferiore a quella delle mansioni ad alta qualificazione. Lo stesso studio prevedeva addirittura che nel giro di cinque anni le professioni con qualifiche medio-basse sarebbero aumentate di 400mila unità, registrando al contempo un incremento di soli 100mila posti per le mansioni ad alta competenza.
Già nel 2007, del resto, un rapporto Censis aveva spiegato con notevole puntualità la forma praticamente a clessidra che andava ad assumere il lavoro italiano (ma anche europeo): si spiegava infatti come nei cinque anni precedenti la dinamica occupazionale abbia 

«inciso profondamente sulla struttura professionale del mercato del lavoro, determinando un consolidamento di tutto quell’alone di professioni a basso livello di qualificazione che rappresenta ancora la base portante dell’occupazione italiana; in aperta contraddizione con le ambizioni d’un sistema che tende a fare dell’innalzamento delle competenze e dei livelli formativi di base un requisito sempre più necessario dell’accesso al lavoro».

La tabella Inps (si veda pag.36 di questo link) sull'esplosione dell'utilizzo dei voucher

Il mercato, attualmente, offre quindi non un scintillante brulichio di cervelli iper-connessi, quanto piuttosto un’estrema polarizzazione in cui le mansioni ove il «merito» è ben poco rilevante risultano quelle più in crescita.
Arginare questi effetti è comunque possibile, non inseguendo mondi onirici ma rimanendo coi piedi ben piantati al suolo. Di conseguenza, non proseguendo nel mantra di affidare alla totale discrezionalità (spesso inaccettabile, come dimostra la diffusione dei voucher) del mercato la gestione del lavoratore ottenendo come solo risultato l’incremento dei profitti speculativi a danno della condizione economica e sociale del salariato; ma spingendo affinché le istituzioni pubbliche agiscano in prima persona favorendo e incoraggiando progetti industriali di lungo periodo improntati sull’innovazione tecnologica. Offrendo ampi investimenti in ricerca e sviluppo. Garantendo una quota di laureati quantomeno conforme alla media europea. Congegnando delle vere e proprie politiche industriali.

In poche parole, invertendo drasticamente la rotta intrapresa dai governi negli ultimi venticinque anni.