mercoledì 9 dicembre 2015

Abbiamo bisogno di un partito

La vulgata anti-partitica inghiotte nella sua voragine strutture e organizzazioni, solidarietà e riti collettivi giustificandosi – quando non da uno sbraitare scomposto – tramite l’appello ad una presunta «modernità» traducibile concretamente, citando Hobbes, in un’esistenza misera, brutale e breve per la maggioranza schiacciante dei cittadini.
Avendo assistito a non esaltanti venticinque anni di Seconda Repubblica caratterizzati dalla quasi unanime damnatio memoriae nei riguardi delle organizzazioni partitiche è alquanto naturale giungere
Il cappio sventolato dalla Lega Nord durante Tangentopoli
inneggiava alla fine dei partiti
alla conclusione che forse una valutazione così impietosa verso le «polverose» organizzazioni di massa (il discorso si potrebbe infatti ampliare anche ai sindacati) non solo era ingenerosa, ma dettata più che altro da precisi interessi a cui eventi peraltro positivi come il crollo del muro di Berlino e il repulisti effettuato dalle procure nazionali hanno finito per fornire un’affrettata galvanizzazione a tutto scapito del lavoro e dell’assetto democratico.
Difficile rimanere inermi o trincerarsi dietro la rassicurazione omologante che «destra e sinistra non esistono più» quando ci si ritrova davanti alla sfacciata pubblicazione di un documento della JP Morgan in cui ci si vanta con malcelata euforia che

«I margini di profitto hanno raggiunto livelli che non si vedevano da decenni […] Sono le riduzioni dei salari e delle prestazioni sociali che spiegano la maggior parte dell’incremento netto degli utili. Questa tendenza continua da tempo: come abbiamo mostrato diverse volte negli ultimi due anni, la retribuzione dei lavoratori americani si colloca al punto più basso da cinquant’anni a questa parte in rapporto sia alle vendite delle società che al Pil degli Usa» (da JP Morgan, «Portfolios, US Corporate Profits and the Twilight of Gods», in «Eye on the Market», 11/07/2011, pag.1)

Poco ma sicuro che un grande partito di massa dotato di un solido radicamento e di una robusta rappresentanza parlamentare non avrebbe mai concesso che nei Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil – tra cui va annoverata anche la stima del reddito da lavoro autonomo – subisse uno sbalorditivo
La quota dei salari sul Pil nel corso degli anni
tracollo
di mediamente dieci punti percentuali tra il 1976 e il 2006, passando dal 67 al 57% (sorte particolarmente feroce per l’Italia, passata dal 68 al 53% con la caduta di un notevole 15%) garantendo un flusso miliardario nel versante delle rendite finanziarie, dei profitti e delle rendite immobiliari (da Ocse, «Croissance et inégalités», Paris 2008, pag.38, riq.1.2).
Comprimere ogni organo di consolidata rappresentanza dei cittadini ha rappresentato il passaggio chiave non solo per sradicare ogni barlume di opposizione organizzata all’opera di redistribuzione della ricchezza dai cittadini alle oligarchie finanziarie, ma per consegnare definitivamente ai padroni dell’apparato mediatico l’essenziale compito della formazione politica tanto per la massa quanto soprattutto per una classe dirigente (soprattutto burocratica) attivamente disposta ad esaudire i desiderata più consolidati.
Nella censura dell’«esautorazione del popolo ad opera dei partiti, visti soltanto come gruppi oligarchici di potere» e nel disprezzo dell’«organizzazione autonoma della cittadinanza attiva nello spazio politico» (il partito, appunto) un giurista come Gerhard Leibholz intravedeva «un nuovo romanticismo politico estremamente pericoloso» (da G. Leibholz, «La rappresentazione nella democrazia», Milano, 1989, pag.334 et passim) definito magistralmente da Kelsen

«attacco, ideologicamente mascherato, contro l’attuazione della democrazia» (da H. Kelsen, «La democrazia», Bologna, 1981, pag.57).

Con la fine della Prima Repubblica sono state soppresse tutte le organizzazioni di partito


Se la radice antidemocratica alla base dell’astio verso i partiti era evidente nella Prima Repubblica – a partire dal 1971 il periodico neofascista «Avanguardia» vedeva come sottotitolo «periodico di lotta alla partitocrazia» - dagli anni Novanta in poi la bramosa ingordigia di gettare tra i rifiuti ogni rappresentanza democratica condusse repentinamente ad un monopolio politico e culturale dominato da questa sconcia polemica. Non solo la prevedibile Lega Nord accanita contro la «partitocrazia centralista, corrotta e mafiosa» e i postumi missini di Alleanza Nazionale, ma persino organi della sinistra come la rivista «Micromega» arrivarono a ribaltare il discorso definendo l’organizzazione partitica un relitto della destra. Sulla stessa scia si collocarono ben presto gli eredi del Pci di Achille Occhetto, prolifico dispensatore di ingiurie nei confronti dei partiti «diaframma, intermediazione parassitaria» e propositi di «rompere il sistema consociativo» nonché «l’esproprio partitocratico» affidandosi alle virtù messianiche «dei cittadini elettori».
Non furono immuni alla travolgente orda anti-partitica riviste di prestigio come «Il Mulino», bramoso nella spasmodica attesa che «i partiti attuali passino attraverso la ghigliottina» dell’auspicato
Anche la sinistra finì per essere monopolizzata
dai dogmi antipolitici
referendum del ’92 sul maggioritario e sul finanziamento pubblico ai partiti, consultazione da definirsi gioiosamente «mazzata che scrolli via i partiti» (più feroce ancora il pur notevole Edmondo Berselli, non esitante nell’abbandonarsi all’invocazione di «distruggere», «scomporre» e «disarticolare i partiti»).
Come non mancò Confindustria di esprimere il suo beneplacito alle mozioni referendarie, i quotidiani nazionali inneggiarono in coro alla rivolta popolare contro i partiti, chi facendo leva sui suoi costi («Corriere della Sera»), chi sulla riscossa di una mitica «società civile» («La Repubblica»), chi scagliandosi contro «il tiranno senza volto» della partitocrazia («La Stampa») in un’assillante operazione mediatica ben riassunta dalle definizioni di un altro studioso ammirevole, Giovanni Sartori, all’epoca anch’esso assorto nella battaglia contro i «partiti piovra» e la «partitocrazia parassitaria».

Nasce nelle campagne, non nelle fabbriche, la nozione
di partito
Vinta in maniera sbalorditiva questa battaglia e terremotato alla radice ogni residuo di tradizionale rappresentanza, la Seconda Repubblica poté iniziare la sua ingloriosa epopea elargendo finora soltanto ampie manciate di carisma personali, leggi ad-personam, speculazioni, incapacità amministrative e deleghe in bianco al leader di turno a cui una frastornata sinistra non fu in grado di porsi come reale alternativa oscillando tra lo scimmiottamento della leadership berlusconiana, l’invocazione antipolitica di deleghe alla magistratura (o a qualche figura dello spettacolo), iniziative nebulose all’insegna di «girotondi» e prove traballanti di democrazia diretta poi in larga parte sfociate nel grillismo.
Acuita dagli sconvolgimenti globali, la scomparsa dei partiti è tornata finalmente al centro del dibattito pubblico portando parecchi studiosi alla conclusione che il partito sia da definirsi sorpassato dalla fine dell’assetto fordista imperniato attorno alla fabbrica. Una constatazione storicamente discutibile – il partito prende origine nel contesto agricolo, non operaio - a cui Lipset ha già fornito una concisa risposta, affermando che

«I partiti politici devono essere considerati come le più importanti istituzioni di mediazione tra cittadini e Stato. Ed un elemento fondamentale per una democrazia stabile è l’esistenza di grandi partiti con una significativa base di sostegno» (da S. M. Lipset, «Istituzioni, partiti, società civile», Bologna, 2009, pag.344)


La prima cosa di cui abbiamo bisogno è un partito.