martedì 16 dicembre 2014

Mafie in bagna cauda





La conseguenza più nefasta dell’assenza di autorevoli poteri strutturati, e di conseguenza della distanza sempre più siderale tra la cittadinanza e l’ordine legale si concretizza nel fenomeno del crimine organizzato, tanto più forte dove e quando sono più forti i sentimenti anti-istituzionali, anti-statali e anti-legalitari. Più vivo che mai, quindi, nei periodi di crisi economica e di sfiducia collettiva; e più vivo nelle aree dove il senso civico è storicamente più limitato, il Mezzogiorno in particolar modo. Ciò non toglie, comunque, che la portata del fenomeno mafioso raggiunga apici sbalorditivi lungo tutto l’asse della Penisola. Alcuni dati possono aiutare nella comprensione di questa vastità: la rivista «Fortune» stima un giro d’affari assimilabile a quello della Apple e della Bank of China sommate tra loro, con un guadagno netto di 104 miliardi nel solo 2011. Sos Impresa si spinge oltre, denunciando un business annuo oscillante intorno ai 138 miliardi (la General Motors gli fa un baffo) mentre gli economisti Michele Bagella e Francesco Busato sono giunti alla conclusione che il solo riciclaggio di denaro sporco abbia un valore di 200 miliardi, circa il 12% del Pil.
La vecchia immagine del mafioso con la coppola in testa e la lupara sulle spalle appartiene tutt’al più a qualche foto sbiadita e a qualche cimelio cinematografico. La realtà attuale del fenomeno mafioso è ben più camaleontica, trasversale, omertosa e onnipresente. Non conosce limiti né geografici, né affaristici nella sua spietata attività. Si serve della politica e la adopera a suo uso e consumo. Si serve della finanza e nel contempo la manovra a piacimento. E non da oggi. Già nell’estate del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi giorni prima di finire crivellato sotto i colpi di una mitragliatrice, affermò nel corso di un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca: «La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha grossi investimenti edilizi, commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere…». Si parlava già allora di «maggiori città italiane», senza troppe distinzioni tra le varie collocazioni geografiche. Di conferme in tal senso ne abbiamo, purtroppo, quasi tutti i giorni. Sperando di non urtare la sensibilità del governatore lombardo Bobo Maroni, è indicativo l’ascolto di alcune intercettazioni di membri della ‘ndrangheta (i «locali» non sono altro che le «succursali» del nucleo centrale operante in Calabria): «Siamo 500 uomini, Cecè, non siamo uno…Cecè, vedi che siamo 500 uomini qua in Lombardia, sono 20 locali aperti…». Secondo la relazione dell’Antimafia di «sedi» nella regione meneghina ce ne sono non meno di 26, tutte dotate «di autonomia affaristica, ovviamente su basi illegali e retti ognuno da un referente principale». Un’autonomia che arriva però soltanto fino a un certo punto e che bisogna inserire in un sistema a ragnatela di notevole complessità. In ogni caso, l’apertura di questi «sportelli» è sempre motivo d’orgoglio, tant’è vero che si svolse addirittura un brindisi (filmato da una videocamera nascosta) nella città della Madonnina a cui presero parte alcuni boss di primo piano della ‘ndrangheta lombarda con «alle loro spalle», secondo le parole del «Corriere della Sera», «una grande foto in bianco e nero» che «ritrae i giudici Falcone e Borsellino. Sono le 21.40 di sabato 31 ottobre 2009 a Paterno Dugano, hinterland di Milano. Nel circolo Arci intitolato ai magistrati trucidati da Cosa nostra, si svolge uno dei più importanti summit della ‘ndrangheta al Nord».
Bisognerà aspettare l’ottobre del 2013 prima di vedere lo scioglimento di un comune della Lombardia a causa delle contaminazioni mafiose. Si tratta di Sedriano, paese dove l’infiltrazione della ‘ndrangheta era così pressante da avere, secondo le accuse, fagocitato il gruppo Perego costruzioni, impresa dal respiro internazionale che costringerà la magistratura a vederci chiaro in ben 64 cantieri e, manco a dirlo, in molti appalti relativi all’Expo del prossimo anno. Solo il coraggio di una giovane giornalista, Ester Castano, ha permesso di scoperchiare questo vaso di Pandora. Altrimenti il sentimento prevalente è quello della più squallida omertà, testimoniata inequivocabilmente dal fatto che su 27.000 operazioni sospette denunciate a Bankitalia nel corso del 2010 solo 223 sono arrivate da soggetti esterni alle banche. «Quando ho iniziato a lavorare e a prendere in mano le redini dell’impresa», confessa un impresario edile del milanese, «avevo ben presente che era opportuno non entrare mai in conflitto con le aziende dei Papalia e con le imprese della famiglia Barbaro perché mafiose. Come ho detto, questa è la ragione per cui non vado a lavorare in certe zone…»
«Il mondo delle libere professioni e il mondo dell’impresa o non percepiscono i rischi oppure non li vogliono segnalare», concluse amaramente l’allora presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu. E nella caparbia volontà di non voler segnalare non concorrono soltanto la paura o il rischio di infangare il buon nome della propria città. Come ha spiegato durante un’audizione al Parlamento il prefetto di Padova Ennio Mario Sodano: «Esiste una scarsa consapevolezza dei rischi di penetrazione della mafia nell’economia in ragione del fatto che gli imprenditori ritengono ingenuamente di potersi servire dei mafiosi» per risolvere i mille problemi che le attanagliano in questi anni, finché «finiscono per rimanerne vittime con la perdita del controllo delle aziende», spesso con esiti di pesante drammaticità (si pensi al suicidio di molti piccoli imprenditori). Emblematica la vicenda della Blue Call, call center di Cernusco sul Naviglio gestito da due soci con quasi novecento dipendenti e 14 milioni di fatturato. Nel pieno dell’attività, dovendo riscuotere un credito, ben lungi dall’affidarsi nelle mani dell’odiata struttura pubblica, i soci si rivolgono alla cosca del Bellocco di Rosarno. Il prezzo di questo «servizio» sarà salatissimo: l’azienda finisce nelle mani della ‘ndrangheta, con la perdita del lavoro da parte di seicento lavoratori. I commissari antimafia noteranno: «Sorprende il grado di superficialità che caratterizza la scelta dei due imprenditori, convinti di poter convivere con la ‘ndrangheta e di potersene, all’occorrenza, liberare, ripagando le quote e dandole il benservito» senza capire il reale proposito dell'organizzazione, la quale «al momento opportuno, lungi dall’abbandonare la compagine sociale, mostra il suo vero volto imponendo all’imprenditore, questa volta con i metodi propri dell’agire mafioso (pestaggi sanguinari e coltello puntato alla gola), la cessione del pacchetto di maggioranza delle quote societarie» utili alla ‘ndrangheta per usufruire dell’azienda come macchina per il riciclo di denaro sporco.
La situazione non è tanto migliore nelle altre regioni settentrionali: la Liguria, zona dove la presenza delle ‘ndrine ha una tradizione che risale addirittura al dopoguerra, viene descritta dall’Antimafia come «paradiso dove poter riciclare le ingenti ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere con sistematicità le più proficue attività di estorsione e usura, il tutto all’ombra del paravento legale offerto dal casinò di Sanremo». Ma anche il Piemonte, dove due consigli comunali sono stati sciolti per mafia nel corso del 2012 e dove sono stati scoperti otto «sportelli» della ‘ndrangheta. E che dire dell’Emilia-Romagna? I locali del gioco d’azzardo della Riviera romagnola a detta dei Ros sarebbero monopolio della camorra e Reggio Emilia sarebbe talmente infetta d’interessi della mafia calabrese da essere definita dallo studioso Enzo Ciconte «enclave in terra nemica». Poi c’è il Veneto. Per quest’ultimo caso suonano assai eloquenti le parole dell’affiliato al clan dei Casalesi Mario Crisci: «Abbiamo scelto di concentrare le nostre attività nel Nord-Est, in particolare a Padova, perché qui il tessuto economico non è così onesto. Il margine di guadagno era buono, perché la gente non ha voglia di pagare le tasse…Avevamo la disponibilità di commercialisti e notai compiacenti…» utili anche per superare il primo impatto con gli imprenditori «perché chiaramente», prosegue Crisci, «non sarebbe stato utile far vedere immediatamente la massa di meridionali con quelle facce; ci serviva ed era utile una persona del Nord-Est, che comunque parlava la lingua del cliente».
La cappa  criminale che avvolge e stritola il Paese da Vipiteno a Pantelleria conosce mille storie, mille intrecci, mille affari, mille sostegni e altrettante protezioni. Perché il «mondo di mezzo», in realtà, è un pianeta estremamente onnivoro e dotato, ahimé, di pochi ostacoli.

mercoledì 10 dicembre 2014

I Gramazio e il dilemma della classe dirigente



«Er pinguino», viene affettuosamente soprannominato Domenico Gramazio. Affiorato dal sottobosco paludoso del neofascismo romano e noto per la sua assidua familiarità con gli ambienti missini e finiani, viene lautamente ripagato di questa prestigiosa carriera con un’onorifica poltrona parlamentare alla quale «Er pinguino» rimarrà avvinghiato per quattro mandati parlamentari, due volte da deputato e due volte da senatore, per poi passare all’ancor più remunerativo incarico di consigliere regionale del Lazio. Qui s’insedia per tre mandati. Il tutto condito da una formidabile gavetta nei sindacati che lo porterà, da semplice dipendente dell’Inps, a raggiungere gli apici della Cisnal (quella che tutt’oggi viene chiamata Ugl).
Alla fine di questo faticoso peregrinare arriva finalmente la meritata (doppia) pensione: 4982 euro al mese di vitalizio in qualità di ex-parlamentare e 5895 euro al mese di vitalizio in qualità di ex-consigliere regionale, per un totale di 10877 euro mensili. Una parte della quale, possiamo starne certi, donerà quale lascito al figlio insieme alla poltrona che, come impone la tradizione di certi ambienti, è già stata ereditata nel 2013: Luca Gramazio, infatti, ricopre dal 2013 l’incarico di consigliere della Regione Lazio nel gruppo di Forza Italia. «Non percepirò il vitalizio», ammette sconsolato il giovine Gramazio, riferendosi alle disposizioni seguite agli scandali di Batman&co., «ma sono figlio del vitalizio. Sono stato meno fortunato». Una sfortuna destinata a perseguitarlo, considerato il suo coinvolgimento nello squallido putridume dell’inchiesta sulla criminalità mafiosa nella Capitale. Gramazio jr., ascoltato in varie intercettazioni, pare essere legato a doppio filo alla Cupola della sperimentata ditta Carminati-Buzzi in un traffico di mazzette finalizzato alla compromissione del regolare esito delle elezioni regionali. Il suo seggio, questa l’accusa, sarebbe il frutto di una vera e propria manomissione delle schede elettorali. Altro che popolo sovrano, limitandoci a questa vicenda si evince che l’organigramma della Regione Lazio non è altro che il figlio diretto dei desiderata ben sovvenzionati di un manipolo di terroristi neri, ex-picchiatori, cafoni, nefandi e magari pure con qualche mese di galera alle spalle. Talmente insinuati in un intrecciato gioco di favori e «ringraziamenti» da essere diventati essi stessi i burattinai non solo di una classe politica mediocre e succube compiacente, ma dell’intera gestione della cosa pubblica in una Regione come il Lazio e, ancora più agghiacciante, in una città come Roma, al tempo stesso capitale dell’Italia, capitale religiosa, città d’arte, metropoli e città più popolosa della penisola.
Le avventure della famiglia Gramazio non terminano però qui: coloro che possiedono una discreta memoria delle cronache politiche ricorderanno Domenico Gramazio come il senatore che nel gennaio 2008, festeggiando nell’Aula di Palazzo Madama la caduta del governo Prodi, stappò senza pudore una bottiglia di spumante brandendola in aria e barrendo a gran voce la sua euforia.
Le vicende di questa famiglia sembrano una perfetta metafora di tutti i difetti della classe dirigente italiana: l’avidità, il nepotismo (o il clientelismo, a seconda dei casi), l’asservimento verso ambigui «gruppi» di pressione, il disprezzo per la legalità e il dissapore verso i valori della democrazia parlamentare.
Se ascoltassimo le parole del cittadino della strada, basterebbe estirpare la gramigna infestante dell’attuale classe politica e i problemi del Paese si risolverebbero con uno schiocco di dita. Semplice, lineare, di un’elementarità imbarazzante: se la politica rappresenta il tumore cresciuto in un corpo sano come quello del nostro Paese, estraiamo il tumore e tutti gli organi dovrebbero ritornare forti e sani come ai bei tempi. L’antipolitica, in fin dei conti, non va molto oltre questo schema: superiamo tutte le strutture che possono in qualche modo rappresentare un impiccio per il compimento della «pulizia» (via i partiti, via il Parlamento, via lo Stato; si affidi il tutto ad una singola figura carismatica e si proceda ad avviare il liberismo più sfrenato) e i problemi si risolvono senza eccessive scosse e, soprattutto, senza provare a sfiorare i propri personali interessi.
Basterebbe un po’ di memoria storica per comprendere che è proprio l’assenza (e non l’eccessiva presenza) di una guida politica accreditata, strutturata e frutto di una formazione specializzata (come ha fatto notare Sabino Cassese in questi giorni: se non esistono dei partiti solidi e definiti, quale sarà la gavetta per i futuri esponenti della classe dirigente?) ad aver favorito l’insorgere dei peggiori mali della nostra società. Mali, questi, che non appartengono solo alla classe politica come se questa fosse infetta da una specie di pandemia che attacca solo coloro che raggiungono certe cariche: sono mali intrinseci ad una società che si è sempre ritrovata totalmente priva di punti d’appoggio legali e di conseguenza priva di un’autorità statale in grado di fornire un esempio di autorevolezza, autonomia e credibilità. La Chiesa Cattolica, l’unica autorità ad essere sempre stata presente in ogni angolo della penisola e in grado di condizionare con la forza della sua dottrina amplissimi strati della popolazione, ha abdicato dal suo ruolo educativo almeno dai tempi della Controriforma, epoca in cui le gerarchie ecclesiastiche hanno scelto coscientemente (e vergognosamente) di perseguire un indottrinamento fondato sull’esteriorità, sul simbolismo spiccio e sulla forma superficiale degli aspetti quotidiani al posto di dedicarsi a piantare i semi della cultura del rispetto reciproco, del benessere collettivo e della responsabilità nei confronti del mondo circostante.
La continua invocazione popolare (tanto comprensibile quanto contestabile) di una generalizzata minor presenza della politica, di un generalizzato minor intervento pubblico e di una generalizzata soppressione degli aspetti sia formali che sostanziali della vita istituzionale non sono la risposta agli attuali problemi socio-economici, ma ne rappresentano la causa primaria e scatenante. Le imperterrite richieste che arrivano dalla società, ben lungi dall’essere il diserbante dell’attuale classe dirigente, ne rappresentano il miglior concime per mantenerla robusta e in salute. Non dimentichiamo che la famiglia Gramazio proviene dalle fila di Forza Italia, una formazione politica nata esattamente per assecondare queste antiche pulsioni popolari. Cerchiamo di non ripetere l’errore: non affidiamo il nostro futuro nelle mani di formazioni politiche che ne seguono l’esempio.  

venerdì 5 dicembre 2014

Beppegrillo.it e la lotta all'ultimo click



Massimo Artini, l’ultimo in ordine di tempo tra i parlamentari pentastellati ad essere finito sul plotone d’esecuzione della Rete degli iscritti, ha descritto nel seguente modo l’ultimo approccio tentato col leader maximo Beppe Grillo: «Beppe ci ha detto che il movimento va bene così, portando come prova i contatti avuti sul sito. Io ho cercato di fargli capire che il successo di un progetto politico non si misura dai clic su Internet». Non sappiamo se il racconto sia veritiero, né se l’enfasi della rabbia abbia offuscato la memoria di questo giovane deputato, fatto sta che una dichiarazione del genere, se unita ad altri tasselli, contribuisce a rendere più chiaro il motivo di tante scelte e di tanti misteri che aleggiano attorno ai 5 Stelle: i click contano, contano molto. Perché molte visualizzazioni significano molta pubblicità per gli inserzionisti che imbottiscono il blog degli annunci più disparati. Più pubblicità significa più guadagno per gli inserzionisti stessi. E se gli inserzionisti hanno un ottimo ritorno il prezzo da pagare per godere di un posto ad ottima visibilità sulle piattaforme a 5 Stelle inizia a lievitare, a tutto guadagno della Casaleggio Associati, che di queste piattaforme ne rappresenta il dominus assoluto.
Fa quasi sorridere leggere le parole di Grillo (che fra l’altro ha già dei trascorsi nel campo della pubblicità) quando asserisce che «la Rete è francescana e anticapitalistica», oppure quando l’esperto di marketing digitale e suo compare Gianroberto Casaleggio si abbandona a frasi come: «Credo che Internet apra all’umanità per la prima volta l’era della partecipazione e della conoscenza. La democrazia diretta si diffonderà in futuro grazie all’aumento dell’informazione libera dovuto a Internet». Quanta ingenuità in affermazioni che paiono dimenticare la realtà di un pianeta dove, al contrario, i grandi padroni della Rete hanno offerto negli ultimi anni lo spettacolo del capitalismo più sfrenato e predatorio. Un pianeta dove, tanto per dare un’idea, i listini della borsa vedono Facebook valere il triplo della Philip Morris e Google valere sette volte più della Nike. Come si fa a vedere il francescanesimo e il baluardo della libertà in una Rete dove il vero obiettivo dei grossi papaveri del web è quello di captare ogni singolo esercizio della nostra vita quotidiana e di catturare ogni nostro desiderio al fine di piazzarci i messaggi commerciali più consoni a noi ma, soprattutto, più remunerativi per le imprese private? È vero, non si possono negare le infinite possibilità che offre la Rete in termini di confronto, divulgazione e scambio d’idee, ma sulle reali potenzialità di aggregazione e di informazione che lo strumento offre c’è ancora moltissimo lavoro da fare: per come stanno le cose adesso, secondo uno studio commissionato dalla Hewlett-Packard, il quoziente intellettivo di alcuni professionisti (professionisti!) distratti dal leggere una mail precipita del 10% (tanto per dare un’idea, la marijuana ottiene una diminuzione del 5%). Il giornalista Federico Mello ha descritto nel seguente modo cosa avviene alla nostra psicologia mentre siamo connessi: «Se siamo sempre impegnati a capire se sta arrivando una nuova notifica, se la gratificazione immediata di una nuova mail (non il suo contenuto, ma l’arrivo della mail stessa) ci distrae da un articolo interessante che stiamo leggendo, se i nostri occhi partono sempre a cercare informazioni che ci riguardano direttamente, vuol dire che nel solo fatto di navigare online la nostra memoria di lavoro è già in buona parte impegnata. Di conseguenza la nostra capacità di pensare quando siamo connessi risulta ridotta. Siamo deboli, insomma, sul web; con un cervello esposto e seminudo».
Un cervello distratto, «esposto e seminudo» pare davvero il requisito più odioso per chi desideri imbastire un autentico luogo di scambio o di coordinamento virtuale. Eppure la gran parte delle volte che navighiamo succede proprio questo: la capacità di concentrazione cala sensibilmente, la riflessione della lettura è in genere assai ridotta (Tony Haile, amministratore delegato di Chartbet, una delle più importanti aziende che produce contenuti per il web, ha stimato che la durata media del 55% degli utenti che accedono alle sue piattaforme è di appena 15 secondi, mentre «Socialmedia today» avverte che uno status con meno di 70 caratteri riceve in media un terzo in più di «mi piace» rispetto a uno più lungo di 141) e se la capacità d’analisi si assottiglia così tanto, i contenuti da cui si viene attratti sono quelli più frivoli, inconsistenti e focalizzati sulle sensazioni più immediate: rabbia, gioia, sgomento e poco altro ancora. Basta che provochi sentimenti «di pancia» ed eviti di far funzionare il cervello. Il «click-baiting» si basa proprio su questo: ottenere il maggior numero di visualizzazioni del proprio sito suscitando reazioni tanto viscerali quanto destinate a consumarsi nel giro di qualche istante, giusto il tempo di accorgersi quanto sia stato inutile aprire quel link. Agli strateghi del «click-baiting» (il cui giro d’affari è stimato attorno ai 200 milioni di dollari) importa poco altro. L'importante è che quel sito sia stato visualizzato, chi se ne frega se per cinque secondi o per cinque minuti.

***

La Casaleggio Associati si occupa proprio di questo: lo scopo primario dell’azienda è esattamente quello di far attirare ai suoi clienti quanti più click possibili adoperando tutti i mezzi a disposizione e senza guardare in faccia a nessuno. Un esempio: quando si capì che il giornale «Il Fatto Quotidiano» poteva essere un progetto di buon successo, ci si pose il problema di dare vita a un sito web adeguato e inizialmente l’editoriale pensò proprio a Casaleggio per fargli risolvere la questione. Tutto andò a monte a causa del fatto che il manager pretendeva di decidere cosa andava pubblicato, come andava pubblicato e addirittura pretendeva che il sito web pubblicasse materiale prodotto da persone esterne alla redazione.
Un caso isolato? Niente affatto. Anche il sito web de L’Italia dei Valori venne gestito per un periodo di tempo da Casaleggio; la collaborazione s’interruppe sia per i problemi finanziari del partito, sia a causa dell’invadenza del manager. Un militante la racconta così: «Volevano decidere tutto loro. C’erano questi ragazzi dello staff che facevano e disponevano: cosa andava pubblicato, come, dove, quando. Di fatto era come se la linea del blog la decidessero loro».
Il caso più interessante è però un altro: la Casaleggio Associati nel 2011 aveva iniziato ad occuparsi del sito web della casa editrice Chiarelettere. Una piattaforma di questo tipo dovrebbe garantire prodotti di prima scelta e pregni di contenuto: è ovvio che i metodi demagogici e commerciali di Casaleggio sono i meno adatti e difatti, nonostante il successo di visualizzazioni, nel luglio 2013 avviene la rottura. Vanity Fair osserva come «nel mirino dei dirigenti Mauri Spagnol sono finite anche la gestione dei social network, ritenuta approssimativa, e la “bontà” dei pur numerosissimi accessi registrati dal portale cadoinpiedi.it [la piattaforma web di Chiarelettere, ndr]. Molte delle visite quotidiane a cadoinpiedi.it proverrebbero da link originati dal circuito beppegrillo.it. Gli articoli più visitati non sarebbero quelli a firma degli autori Chiarelettere, ma quelli scritti dai collaboratori della Casaleggio Associati e incentrati sul gossip».
Beppegrillo.it, il prodotto di punta della Casaleggio Associati, rappresenta l’esempio più eclatante di questo modo di fare comunicazione: brevi slogan di grande impatto emotivo e assolutamente carenti di contenuti di spessore. Tutto pare finalizzato ad attirare il massimo numero di visualizzazioni facendo guadagnare gli inserzionisti che quotidianamente imbottiscono il sito web dei più disparati banner pubblicitari.
È un caso che quando Grillo ha intrapreso ufficialmente la carriera politica ha imposto il suo sito web come unico punto di riferimento del nuovo movimento politico? Anzi, per essere precisi beppegrillo.it è divenuto esso stesso il movimento politico, comparendo addirittura nel simbolo ufficiale. Il non-statuto parla chiaro: il «“MoVimento 5 Stelle” è una “non Associazione”. Rappresenta una piattaforma e un veicolo di confronto e di consultazione che trae origine e trova il suo epicentro nel blog www.beppegrillo.it (…) La “Sede” del “MoVimento 5 Stelle” coincide con l’indirizzo web www.beppegrillo.it. I contatti con il MoVimento sono assicurati esclusivamente attraverso posta elettronica all’indirizzo MoVimento5stelle@beppegrillo.it». Più chiari di così non si può essere.
È assai interessante porre l’attenzione su un particolare sottodominio di beppegrillo.it, ossia «Tze-Tze», presenza fissa nella colonna destra (quella su cui casca subito l’occhio) del blog di Grillo. Si tratta di una sorta di giornale online, il cui scopo è «promuovere l’informazione indipendente in Rete svincolandosi dai mainstream media e pubblicare notizie in funzione dell’importanza attribuita dai loro utenti». Già il fatto che un giornale selezioni le notizie in base alla loro popolarità e non in base a dei precisi criteri d’importanza la dice lunga sul modo di Casaleggio di vedere il mondo dell’informazione, ma la cosa più sconcertante è il modo in cui sono redatti gli articoli. Oltre al fatto che i post sono soltanto finalizzati a fare propaganda in favore dei 5 Stelle (altro che «informazione indipendente»!), la piattaforma si distingue per il pietoso modo di erogare notizie (non a caso a breve finirà a giudizio per diffamazione).
Un post, ad esempio, afferma in pompa magna: «Di Maio asfalta il deputato Pd in diretta. Luigi Di Maio ridicolizza il deputato Pd Matteo Richetti. Guarda il video…». Si apre diligentemente il video (con pubblicità annessa) e si scopre una serie di frammenti di un dibattito dove i due deputati si affrontano in maniera molto pacata.
Un altro articolo titola: «Vergognoso attacco al M5S. Ecco cosa ha detto Laura Boldrini…Vergognoso! La Boldrini viene intervistata. Quello che state per leggere è sconcertante, ecco cosa ha detto». Apri diligentemente il link e scopri alcuni stralci di un’intervista in cui il momento più polemico del confronto è quando la Boldrini afferma che il 5 Stelle «poteva dare un apporto determinante per il cambiamento e invece non l’ha fatto». Non so voi, ma temo che il «vergognoso attacco» lo veda solo Casaleggio.
Oppure: «La rivelazione della Lorenzin in diretta. Sconcertante. Ecco cos’è successo alle elezioni europee». Clicchi sopra e vedi il ministro della Salute affermare che «la mia è una candidatura di servizio».
Un’altra volta il titolo è: «Ultim’ora- denunciato Matteo Renzi: clicca qui». Clicchi diligentemente e scopri che il Codacons ha annunciato l’intenzione di avanzare un esposto alla Corte dei Conti nei confronti del premier. Da qui ad affermare che Renzi è stato «denunciato» di acqua ne scorre.
Ancora: «L’onorevole vuota il sacco in diretta tv. Una confessione sconcertante. Guardate cos’è successo» promette il titolo di un articolo dove si riprende la seguente dichiarazione di Andrea Romano (Scelta Civica): «Prima di entrare in Parlamento io lavoravo».
Passare dai titoli mirabolanti alle bufale vere e proprie il passo è breve: grazie a «Tze-Tze» scopriamo che un vasaio indiano possiede un frigorifero che «funziona senza corrente», scopriamo che per «distruggere le cellule tumorali» la soluzione è data da «iniezioni di sale» e arriviamo nientemeno a sapere che il succo di melograno è «l’alimento che combatte il cancro».
Un metodo spudoratamente finalizzato solo e soltanto ad ottenere click (spesso mettendo in anteprima immagini sessiste). Una vera e propria truffa nei confronti del lettore. Un modo di agire adoperato anche da Grillo stesso; qualche mese fa egli stesso scriveva su Facebook: «Dati truccati! L’hanno fatto veramente! È una cosa assurda: clicca qui. Ci prendono in giro» con tanto di foto dell’allora premier Letta insieme al ministro Saccomanni. Apri il link e ti ritrovi un articolo del blog in cui s’informa che la Commissione Europea utilizzerà nuovi parametri per calcolare il Pil. «Dati truccati»? «Cosa assurda»? Ma quando mai. Questo è un puro e semplice raggiro per garantire visualizzazioni e far guadagnare gli inserzionisti. La domanda sorge spontanea: sono questi gli avamposti di conoscenza e partecipazione via web di cui parla Casaleggio? Spero proprio di no.

***

Grillo ha cercato più volte di smentire che il suo blog abbia finalità d’interesse economico e per tal motivo ha più volte evidenziato come il fatturato della Casaleggio Associati non sia molto elevato (anzi, nel 2011 era addirittura in perdita).
Peccato che il comico si dimentichi di spiegare che il valore delle aziende digitali non dipende dal fatturato. Twitter, ad esempio, nel 2012 aveva un passivo di 79 milioni di dollari; l’anno successivo entrò in borsa e venne valutato 31 miliardi di dollari.
Sapete quanto fatturato ottiene Instagram? Zero virgola zero. Eppure nel 2012 il popolare social network di foto venne acquistato da Zuckerberg per la sbalorditiva cifra di un miliardo di dollari. Una pazzia? Un’ingenuità? Una truffa? Nient’affatto, si tratta semplicemente del modo in cui vengono valutate le aziende digitali, un modello economico che prende il nome di «zero revenue model» («modello a zero incassi») consistente nel principio che una start-up di recente nascita non viene valutata in base agli incassi, ma in base agli utenti che coinvolge. Gli incassi in genere sono molto lenti ad arrivare: anche Google e Facebook hanno vissuto per anni senza vedere il becco di un quattrino pensando solo ad incrementare il proprio traffico. Attualmente, comunque, beppegrillo.it non se la passa male: si pensi ad esempio che il blog è nella categoria top site degli AdSense di Google; ciò significa che gli inserzionisti devono pagare una cifra superiore alla norma per poter inserire il proprio banner pubblicitario su beppegrillo.it. E non è un caso che la Casaleggio Associati ha visto il suo fatturato raddoppiare nel corso del 2013: si è passati magicamente da 1,2 a 2 milioni di euro…

giovedì 27 novembre 2014

Le cronache di «Repubblica»



«Repubblica» non è un giornale come tutti gli altri, «Repubblica» è il primo quotidiano nazionale. Ma «Repubblica» non rappresenta soltanto un organo d’informazione, è un baluardo, un simbolo, un apparato di potere in grado di decretare (come manco ai tempi di Nerone) la sorte della politica progressista italiana. Illuminante il ritratto che ne traccia il giornalista Claudio Cerasa: «La vera coscienza culturale della sinistra. Il vero azionista di riferimento del mondo progressista. Un giornale, o meglio una corazzata, che meglio di chiunque altro condiziona le scelte politiche della sinistra. Che meglio di chiunque altro influenza il percorso della sinistra. Che meglio di chiunque altro riesce a imporre una leadership rispetto a un’altra.
Mai un leader di centrosinistra è diventato leader del centrosinistra senza avere il sostegno di questo giornale. Ma allo stesso tempo, mai un politico diventato leader del centrosinistra anche grazie alla spinta ricevuta da questo giornale è riuscito a essere contemporaneamente maggioranza della sinistra e maggioranza del Paese. Da questo punto di vista il successo editoriale del quotidiano di cui stiamo parlando è clamoroso. Ed è difficile trovare in giro per il mondo giornali come questo che siano riusciti nella non facile impresa di far coincidere la voce della sinistra con quella del più grande giornale della sinistra». Nonostante questo suo potere, coadiuvato anche dalla presenza di alcune delle migliori firme del giornalismo italiano (Ilvo Diamanti, Filippo Ceccarelli, Federico Rampini, Mario Pirani, Federico Fubini, Corrado Augias e altri ancora), «Repubblica» da quando è principiato il cataclisma della crisi economica si è ritrovata immersa in un'infinita sequela di problemi, a cui in questi lunghi anni ha cercato di porre rimedio seguendo un percorso rocambolesco e avventuroso. Potrebbero scriverci un romanzo, e magari intitolarlo «Le cronache di “Repubblica”», sulla scia del celebre «Le cronache di Narnia». La lunghezza dello scritto, potete starne certi, sarebbe simile.

***

Partiamo dal Capodanno 2009: il quotidiano è nel pieno della sua crisi, la tiratura è talmente scarsa che il dominus del giornale, la Cir della famiglia De Benedetti, è tentata di abbandonare la proprietà della testata: occorrerà un feroce scontro generazionale tra il padre Carlo e il figlio Rodolfo (fautore della vendita) prima che il proposito venga abbandonato. Assai indicativo della cupidigia di quel frangente temporale è il fatto che il settimanale «L’Espresso», altro organo della Cir, deciderà d’interrompere la pubblicazione dei dati di vendita dei quotidiani. Il calo di tiratura registrato da «Repubblica» era talmente imbarazzante da costringere il direttore Ezio Mauro non solo a chiedere la censura dei numeri, ma di farlo anche in una maniera talmente brusca da rendere palpabile l’atroce affronto che quei numeri rappresentavano per lui. Il giornalista Giampaolo Pansa racconta: «Un giorno, mentre usciva da “Repubblica” per la pausa pranzo, [Ezio Mauro, ndr.] s’imbatté in uno dei vicedirettori dell’Hamaui [all’epoca direttrice de “L’Espresso”, ndr.]. E gli disse, a brutto muso: “Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?”. Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre».
All’improvviso, però, arrivò il miracolo. L’ex-moglie dell’allora premier Silvio Berlusconi, Veronica Lario, spedisce una lettera al giornale scagliandosi ferocemente contro la condotta privata del Caimano. Una manna dal cielo, la pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno, il Santo Graal: nessuna metafora può eguagliare cosa significò quell’evento per le sorti del quotidiano. Le vicende sessuali del Cavaliere divennero il carburante per far ripartire la macchina. Venne ingranata subito la marcia più alta: tra la primavera e i primi di giugno del 2009 «ItaliaOggi» stimò che «Repubblica» affrontò la vicenda di Noemi (la minorenne che si sospettava legata in maniera ambigua al premier) per 2236 volte. Leggenda vuole che le vendite subirono un’impennata di 30mila copie. Da allora la corazzata «Repubblica», compatta come una testuggine romana, senza sbavature, voci contrarie o grandi divagazioni, concentrò tutta la sua attenzione su un unico bersaglio: il Caimano, con particolare predilezione per la sua attività erotica. Questo tsunami editoriale trascinò bruscamente il Pd di Franceschini, costringendolo (con deludenti risultati elettorali) a inseguire la linea di «Repubblica»; e trascinò con sé anche «L’Espresso» della signora Hamaui il quale, in preda alla ormai assuefante Silvio-mania, tra il febbraio del 2009 e il marzo 2010 pubblicò (dati di «ItaliaOggi») 21 copertine con stampata sopra la faccia del Cavaliere.
Un’azione la cui coordinazione e tenacità lasciò stupefatti. L’ex-direttore de «l’Unità» Peppino Caldarola scrisse su «Il Riformista» del 10 ottobre 2009: «I giornalisti di “Repubblica” parlano tutti allo stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell’“Unità” che la pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella esangue dei partiti». Splendido epiteto, quello di «giornale-partito», che indica un’altra caratteristica della «Repubblica» di quei mesi: la fedeltà o, per meglio dire, il fanatismo di una frangia di lettori. Fermamente convinti che «Repubblica» fosse l’unico organo mediatico, ma anche politico, resistente all’avanzata berlusconiana (in realtà i giornali a favore del Cavaliere si potevano contare sulle dita di una mano) e imbevuti dell’enfasi semplicistica del quotidiano, alcuni pasdaran si abbandonarono a idee e proposte strabilianti. Ecco gli stralci di alcune lettere pubblicate dal giornale nel settembre 2009: «Perché non ci inventiamo un segnale da mettere sui nostri balconi per far vedere al Paese quanti siamo?» (Elisabetta Salvatori), «Propongo la nascita di un movimento con sedi in tutta Italia» (Pino Quarta), «Una bella idea sarebbe quella di creare un segno di riconoscimento. Da esporre da parte di tutti coloro che condividono questa battaglia per la libertà di stampa» (Rita Bega e Manuel Lugli) e molte altre ancora.
Lo stesso Carlo De Benedetti confessò che «Repubblica» gli ricordava ormai un «disco rotto» e che «se il Cavaliere fa “cucù” alla signora Merkel, la cancelliera tedesca, per tre giorni leggiamo su “Repubblica” sempre lo stesso editoriale». Un astio facilmente ricomponibile se si pensa che fu proprio in quei mesi, intorno al settembre 2010, che «Repubblica» divenne il primo giornale italiano con circa 510mila copie vendute. «Noi a “Repubblica” siamo grati a Berlusconi per averci dato la possibilità di informare bene più persone» fu costretto ad ammettere De Benedetti durante una lezione, «il 10% in più quando il Cavaliere dice cose pazze. E circa il 2% in più nelle situazioni normali».

***

La pacchia però non era destinata a durare in eterno: di lì a un anno la preoccupante tempesta finanziaria che si accanì sui titoli di debito costrinse Berlusconi (ormai privo della maggioranza parlamentare) ad abbandonare repentinamente il governo prima che per l’Italia si aprissero scenari apocalittici. La flebo che teneva in vita il giornale si esaurì e la testuggine no-Cav fu costretta ad un tormentato «rompete le righe», relegando «Repubblica» ad un insofferente appoggio al Pd (di cui, secondo la sarcastica definizione di Giuliano Ferrara, De Benedetti rimane pur sempre «la tessera numero 1»). Passa qualche anno e la situazione si fa ancora più drammatica: Silvio Berlusconi non solo diventa padre costituente (e in un quotidiano da sempre schierato sulla linea della «Costituzione più bella del mondo» non ci può essere incubo peggiore), ma lo fa in «profonda sintonia» con il nuovo leader della sinistra, Matteo Renzi.
Forte della sua supremazia sul mondo antiberlusconiano, «Repubblica» ha sempre snobbato i leader del Pd: De Benedetti nel corso del 2010 definì Bersani «leader totalmente inadeguato» e accusò D’Alema non solo di «stare ammazzando il Partito democratico» ma anche «di non aver fatto niente nella vita» (nel corso del botta e risposta successivo arrivò a definirlo nientemeno che «un problema umano»). Parere analogo a quello di Ezio Mauro: la sua insoddisfazione verso la leadership del Pd apparve in tutta la sua chiarezza quando dichiarò che «anche a sinistra è arrivata l’ora del Papa straniero» per poi specificare qualche mese più tardi su «L’Espresso»: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di cambiamento e di vittoria». Ironia della sorte, in quello stesso anno Matteo Renzi tagliò il nastro della corsa per la «rottamazione» e, ancora più sorprendente, lo fece proprio durante un’intervista rilasciata a «Repubblica». Eppure l’allora sindaco di Firenze non suscitò grande entusiasmo tra le firme del quotidiano: solo Riccardo Liguori e Claudio Tito (il quale instaurò ben presto un solido rapporto personale con l’ambizioso giovanotto) avevano capito che quello era un cavallo su cui puntare. Successivamente si aggiunse anche Goffredo De Marchis. Il resto della redazione restava titubante: nel settembre 2010 lo storico padre di «Repubblica», Eugenio Scalfari, liquidò il programma di Renzi come «carta straccia» e ancora nel 2012 De Benedetti, parlando sempre del giovane Matteo, asserì: «Non ci serve un Berlusconi di sinistra». La fedeltà a Bersani si manteneva svogliata ma intatta, alimentata dalla spavalda insofferenza che Renzi, in nome della lotta ai corpi intermedi, per lungo tempo ha nutrito pubblicamente verso la carta stampata (solo pubblicamente, perché in privato non sfugge mai alla lettura dei quotidiani; del resto, lui stesso da adolescente ha diretto il giornaletto scout «Ancora in cammino») al punto tale che, una volta al governo, più di un direttore di quotidiani è arrivato a lamentarsi avvilito: «Ma come, Enrico [Letta, ndr.] mi mandava un sms ogni mattina, mentre questo mai, niente».
Il cambio di rotta iniziò lentamente durante le primarie del 2012. De Benedetti ammise sì il suo voto a Bersani, ma aggiunse: «Su Renzi mi sono sbagliato: ha più stoffa di quel che pensassi». I risultati delle elezioni 2013 accelerarono la manovra: ben presto la compagine di «Repubblica» si schierò compattamente a favore di Renzi, primo fra tutti il capitan Ezio Mauro. Anche De Benedetti nel corso del 2013 dichiarò entusiasta: «L’unico leader spendibile al momento è Renzi. È una persona nuova, pragmatica, che ha fatto il sindaco ed è giovane». Rimanevano alcune pesanti voci fuori dal coro: Eugenio Scalfari (ancora il 28 settembre 2014 scrisse che Renzi «è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci») e l’esperto di economia Federico Fubini. L’approdo dell’analista Stefano Folli dal novembre 2014 dovrebbe rappresentare un’altra voce non esattamente allineata con l’esecutivo in carica. In generale, però, è tutta la redazione (da qualche settimana a questa parte) a vivere in piena crisi d’identità: un prolungato sostegno a Renzi rischia di rivelarsi controproducente. Succube di questo atroce dilemma e di un irrefrenabile calo di lettori, la saga di «Repubblica» per ora si ferma qui. L’avvincente romanzo proseguirà, questo è poco ma sicuro. La corazzata «Repubblica» garantisce sempre sorprese. 

domenica 23 novembre 2014

I tormenti di Viale Mazzini



Risale a mercoledì scorso una notizia totalmente inaspettata: il Consiglio d’amministrazione della Rai ha accolto la proposta di fare ricorso contro la scelta governativa di tagliare 150 milioni di euro all’azienda per coprire finanziariamente il bonus fiscale da 80 euro.
Una richiesta, quella dei 150 milioni, che si accompagna ad altre scelte a loro modo rivoluzionarie compiute dalla Rai negli ultimi tempi: l’abbassamento degli stipendi dei manager, deciso sempre dall’attuale esecutivo, ha costretto fra gli altri il direttore generale Luigi Gubitosi ad una bella potatura della sua retribuzione, passata improvvisamente da 650mila a 240mila euro annui; tra il 2011 e il 2013 il costo dei divi del piccolo schermo è stato ridotto dell’8%; nello stesso arco di tempo i servizi telefonici sono stati più che dimezzati (-55,5%); il peso economico delle scenografie è precipitato del 37%, e via di questo passo. Scelte dolorose ma a quanto pare insufficienti se si considera il fatto che il bilancio continua ad essere traballante, le pubblicità non garantiscono più le entrate di un tempo, il canone rimane la voce principale (1,7 miliardi l’anno, nonostante un evasione stimata al 30%) e la tecnologia non è di certo al passo coi tempi.
Nonostante tutto ciò, le principali sacche di privilegio continuano imperterrite a resistere nei confronti di qualsiasi assalto: gli accampamenti politici non hanno alcuna intenzione di alzare bandiera bianca, arrivando al punto che oramai la Rai è l’unica azienda televisiva pubblica al mondo dove esistono tre telegiornali ognuno dei quali fermamente legato al proprio gruppo politico di riferimento, con la naturale conseguenza di ritrovarci con tre distinte strutture, tre distinti team d’inviati, tre distinti direttori, tre distinte squadre di tecnici e tre distinti bilanci. Sui metodi di selezione del personale è meglio stendere un velo pietoso, ci si accontenti di leggere quanto scrive il gruppo di esperti coordinato da Massimo Bordignon all’interno del dossier per la spending review di Carlo Cottarelli: «A ogni cambio di governo o maggioranza e a ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono tre-quattro tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che, ad esempio, nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». Nemmeno un anno fa il deputato Pd Michele Anzaldi denunciava pubblicamente i risultati di questa pratica scriteriata: su 113 giornalisti del Tg1 ci sono più caporedattori (34) che redattori ordinari (32).
Visto però che tre carrozzoni del genere non erano sufficienti, nel corso del tempo si è aggiunta RaiNews24 (la cui piattaforma web è uno degli ultimi siti d’informazione per numero di consultazioni) e, dulcis in fundo, 26 sedi regionali. Ed è proprio in queste ultime strutture che spiccano i peggiori difetti della nostra industria televisiva (quinto gruppo culturale del continente, non dimentichiamolo), primo fra tutti l’asservimento nei confronti delle classi politiche locali. Spesso anche le più minute, se si pensa che la presenza di 26 sedi comporta l’installazione di redazioni Rai in località come Perugia, Campobasso e Potenza, arrivando al punto che alcune Regioni hanno l’onore di ospitare addirittura più sedi regionali: il Veneto dispone di Venezia e Verona, la Sicilia di Palermo e Catania e il Trentino Alto-Adige di Trento e Bolzano.
Non pensiate, inoltre, che tali sedi siano appartamenti austeri: fatta eccezione per la pericolante stazione di Cagliari, parliamo di palazzoni ovviamente di proprietà tra cui spicca la sede regionale di Genova, un maestoso grattacielo di dodici piani di cui se ne vengono occupati tre è già grasso che cola. Senza parlare dei dipendenti: le sedi regionali della Bbc (quindici in tutto, occupanti strutture che non superano i due piani) non occupano più di 1500 organici. Le sedi regionali della Rai superano i 2000. La sede locale più piccola della Bbc, quella delle Channel Island, occupa due dipendenti. La sede più piccola della Rai, quella di Campobasso, ne occupa 70. A Cosenza ce ne sono 95, contenuti in un palazzo simile a quello romano di Viale Mazzini.
Tutto questo dispendio (i giornalisti della Rai sono in tutto 1700) per produrre, come sentenziato dalla giornalista Milena Gabanelli, «tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi su sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale». Nemmeno paragonabile a quanto avviene nel Regno Unito, dove tutti i servizi globali vengono inglobati da Bbc One che li trasmette in quattro brevi collegamenti al giorno. È doveroso aggiungere che il canone della Bbc ha un costo notevolmente più elevato rispetto al nostro (174 euro contro 113), ma qualche spunto per razionalizzare la spesa l’emittente della perfida Albione lo offre ugualmente.
Andando a scavare un altro po’ tra i meandri aggrovigliati della televisione pubblica ci si imbatte anche in altre strutture di ambigua utilità. Prendiamo Rai Vaticano: tutto nasce nel 1997, quando un manipolo di dipendenti si assume l’onere, senza budget e occupando solamente due stanze, di comunicare con la Santa Sede al fine di preparare il Giubileo e fornire contenuti da vendere eventualmente anche ad altre emittenti fuori dai confini nazionali. Terminato l’evento planetario, il team, invece di congedarsi dall’incarico si è trasformato in una pesante struttura, con tanto di dirigenti, funzionari e con mansioni ignote. Passando dal potere celeste al potere temporale, una vicenda simile è accaduta con Rai Quirinale, munita di un direttore e 35 dipendenti la cui utilità è ristretta in pochi minuti all’anno, quelli del discorso del 31 dicembre del Capo dello Stato e quelli delle celebrazioni del 2 giugno.
Sorte analoga rischia di essere quella di Rai Expo, partita in quarta con una dirigenza e 45 dipendenti con il compito di svolgere un lavoro (seguire l’esposizione universale) che si sarebbe potuto affidare senza problemi alle sedi regionali le quali, come abbiamo visto, non difettano certo di strutture e personale. In un paese dove la ricchezza individuale è crollata in pochi anni dell’11,5%, dove il Pil ha visto una picchiata del 9%, la disoccupazione tormenta metà dei giovani e il numero di famiglie povere corrisponde nel Mezzogiorno al 70% del totale certe rinunce di alcuni ambiti della spesa pubblica dovrebbero rappresentare quasi un dovere. Altro che ricorsi.

mercoledì 19 novembre 2014

Legge di stabilità: nuovo verso, vecchi vizi

La lotta a criminalità ed evasione fiscale porta alla perdita di una delle fasce più consistenti di elettorato, una seria revisione della spesa pubblica rischia di essere impopolare e foriera di vibranti proteste in molti gangli della pubblica amministrazione, le privatizzazioni sono rischiose e richiedono un’elevata dose di delicatezza e attenzione, creare nuovo debito lo si può fare solo entro limiti inflessibili (ancora per poco: col Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione non ci sarà concesso nemmeno quello) e comporta un costo in termini d’interessi sui titoli di Stato (che ogni anno ci divorano circa 85 miliardi). Di conseguenza, anche se può apparire (e di fatto lo è) un paradosso, l’unica strada per partorire una manovra economica espansiva è aumentare le tasse. Possibilmente senza dare nell’occhio, magari camuffando il tutto con una bella spolverata di slide rassicuranti e con un pizzico qua e là di provvedimenti spot, e il piatto è servito.
La legge di Stabilità di quest’anno si prospetta esattamente in questo modo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nell’audizione del 4 novembre alla Camera dei Deputati, lo ha detto chiaro e tondo: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2% del 2015». Una leggerissima variazione momentanea, destinata ad accrescersi nel corso dei prossimi anni, almeno a quanto scrive il giornalista Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 22 ottobre: «Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018». Mica bruscolini. E queste sono pure delle stime ottimistiche, dato che non tengono conto dei probabili aumenti della tassazione regionale dovuti ai tagli imposti da questa manovra agli enti locali.
Questo, almeno, è quanto si prevede: con il governo Renzi è compito assai arduo analizzare con cura l’attività legislativa. Sotto la spessa coltre fumogena di dichiarazioni, incontri, mediazioni (poche) e anticipazioni giornalistiche (troppe) si danno per assodati elementi che non lo sono: il Jobs Act è ancora un foglio bianco da riempire nei prossimi mesi coi decreti delegati, il testo dell’Italicum è ufficialmente lo stesso del marzo scorso (con liste bloccate, soglie differenziate di entità poderosa e premio alla coalizione che raggiunge almeno il 37% dei consensi), la «buona scuola» è uno striminzito elenco di punti che ha la stessa validità di un Kleenex usato, e via di questo passo. Per la legge di Stabilità la situazione non è molto diversa: le norme sono state approvate dal Consiglio dei Ministri, ma (come tradizione impone) il balletto delle modifiche si vedrà durante i vari passaggi in Aula (che fra l’altro si prospettano ristretti, vista la priorità dichiarata di concentrare il lavoro parlamentare delle prossime settimane esclusivamente sul Jobs Act). Fatto questo ampio preambolo, concentriamoci su alcuni contenuti di questa legge, o quantomeno sulla sua bozza.

Il giornalista Vittorio Malagutti, su «L’Espresso» del 6 novembre, traccia una descrizione angosciante: «Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum», mentre in questo caso i danni non solo sarebbero permanenti, ma si ripercuoterebbero in maniera retroattiva su tutto il 2014.
Facciamo una breve premessa: gli italiani sono sempre più propensi al risparmio: vivendo nella quasi totale incertezza sul nostro futuro economico, ci siamo sempre più convinti che sia meglio comportarsi da formichine, con l’effetto da un lato di deprimere i consumi e dall’altro di iniettare i fondi d’investimento con una notevole mole di capitale: nei primi nove mesi del 2014 si sono riversati qualcosa come 97 miliardi, un dato strabiliante se confrontato coi 55 miliardi del 2013. Un salvadanaio per il futuro che rischia di venir razziato dalle compagini renziane in nome dell’incentivo ai consumi. Bizzarro modo di agevolare i consumi se con una mano si tassa il risparmio e con l’altra si rende sempre più incerto il futuro fiscale, lavorativo e a questo punto anche patrimoniale dei cittadini. La prima cannonata al risparmio era stata sparata in occasione del decreto Irpef dell’aprile scorso (il decreto sugli 80 euro, per intenderci) il quale fra le altre misure portava dal 20 al 26% la tassazione sulle rendite finanziarie. Un’azione tutto sommato innocua, che ci conforma alla media europea e che secondo i calcoli della Cgia di Mestre dovrebbe pesare, considerando che la media nazionale dei conti correnti è di 12mila euro, solo 93 centesimi all’anno. Un’inezia se confrontata con la mannaia destinata nel giro di qualche mese a piombare sui nostri risparmi. Prosegue Malagutti: «Alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5% dei proventi». Ma non solo: la tassazione sui dividendi azionari è passata dal 20 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione del Tfr in azienda è passata dall’11,5 al 17%, la tassazione sui fondi pensione è passata dall’11,5 al 20%, i conti di deposito hanno visto passare la loro tassazione dal 20 al 26%, così come le gestioni patrimoniali, i fondi d’investimento, i depositi bancari e postali, le obbligazioni italiane e le casse professionisti (queste ultime d’ora in poi saranno soggette, unico caso in Europa, ad una doppia tassazione). E pensare che il Presidente di Assofondipensione Michele Tronconi, confrontandosi qualche mese fa con Padoan, aveva ricevuto non solo rassicurazione, ma addirittura la promessa di agevolazioni per questo tipo di previdenza. Ma dall’esecutivo nato sotto l’insegna dell’#enricostaisereno non ci si poteva aspettare nulla di buono: altro che incentivo, il prelievo fiscale sui fondi pensione è stato quasi raddoppiato, con tutte le conseguenze che una scelta del genere comporterà nei prossimi anni. Tullio Jappelli, che dirige il Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche all’Università Federico II di Napoli, asserisce: «Il risparmio previdenziale merita attenzione perché è l’unico che consente di proteggerci dal cosiddetto rischio di longevità, cioè che la vita effettiva sia più lunga di quella attesa, con il rischio che gli anziani non abbiamo risorse sufficienti per i loro consumi».
Risparmio ma non solo: i modi per saziare il Fisco si estendono anche ad altre norme apparentemente di carattere diverso, prima fra tutte la possibilità da parte del lavoratore di farsi anticipare il proprio Tfr in busta paga.

Come spiega sempre Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 4 novembre: «Il trattamento di fine rapporto oggi è soggetto a una tassazione separata, che è di solito inferiore a quella dei redditi Irpef (di fatto è l’aliquota media effettiva dei cinque anni precedenti). Una volta entrato in busta paga, invece, il gruzzoletto verrebbe tassato ad aliquota marginale, che in funzione del reddito dichiarato può arrivare anche al 43%»; insomma, al Tfr entrato in busta verrà applicata l’aliquota che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscillante tra il 23 e il 43%) mentre se si opta per incassarlo, com’è sempre stato, a fine carriera, l’aliquota applicata è notevolmente inferiore (tra il 23 e il 33%). Inoltre, secondo l’ex-dirigente dell’Inpdap Maurizio Benetti, l’operazione del Tfr in busta paga non converrebbe nemmeno a coloro che beneficiano dello scaglione di aliquota più bassa (quella al 23%) poiché calerebbero le detrazioni da lavoro dipendente, e di conseguenza «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%».

L’andamento della tassazione di alcune branche del risparmio, da «L’Espresso» del 06/11/2014


Nemmeno le partite Iva possono dormire sonni tranquilli: viene riformato il cosiddetto regime dei minimi allargando la platea e ponendo il limite di reddito di 15mila euro per i professionisti e di 40mila euro per i commercianti e portando l’aliquota dal 5 al 15%. Come scrive Enrico Marro sul «Corriere della Sera» del 19 ottobre, i commercianti «sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo».

I sostenitori del governo obietteranno che si è fatto molto sul versante delle tasse sul lavoro. Spesso però si omettono alcuni particolari: a parte il fatto che l’abbattimento dell’Irap (per usare le parole di Malagutti) è «rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di Stabilità», questa operazione annulla la precedente riduzione applicata in occasione del decreto Irpef. Non solo: la norma riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato, di conseguenza per i contratti a tempo determinato e per le altre voci della base imponibile (profitti e interessi passivi) l’aliquota passa dal 3,5 al 3,9%. Stante tutto ciò, secondo i calcoli del giornalista Enrico Marro, il taglio complessivo dell’Irap non supererebbe i 2,9 miliardi (una somma ben diversa rispetto ai 5 miliardi sbandierati dal premier).

Passiamo all’abbattimento dei contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato: qui non si conosce l’entità dello stanziamento. Si parlava di un miliardo, che potrebbero divenire quasi due se si tiene conto della soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e degli sconti sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi. Volendo essere ottimisti prendiamo la somma di 1,9 miliardi, dividiamola per 6.200 (l’importo della contribuzione) e otterremo 306.451, i quali rappresentano nient’altro che i contratti attuabili con questa operazione. Sapete quanti sono i contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2013? Secondo il Ministero del Lavoro sono stati 1.584.516, leggermente di più rispetto ai 300mila consentiti dai fondi messi a disposizione dalla manovra.

Anche i fondi per la Cassa integrazione in deroga si rivelano assai striminziti: vengono stanziati 1,5 miliardi, la metà rispetto a quanto speso nel 2013.

Passiamo alle Regioni: il governo, probabilmente con troppa superficialità, ha richiesto 4 miliardi di euro. Spazi di manovra nelle spese regionali ce ne sarebbero. Tanto per dare un’idea, il governatore della Lombardia Roberto Maroni darà vita a breve a un referendum consultivo, incostituzionale e con l’obbligo di passare al vaglio del Parlamento nazionale, al fine di ottenere un opaco «statuto speciale di regione autonoma». Uno scherzetto dal sapore marcatamente elettorale che costerà ai lombardi qualcosa come 30 milioni di euro. Oppure, passando nel versante opposto (sia geograficamente che politicamente) la Puglia di Nichi Vendola assumerà a breve una nutrita pattuglia di 379 precari degli uffici regionali e di 518 precari delle partecipate regionali, senza uno straccio di concorso o di valutazione in base a requisiti di merito (come richiederebbe la legge). Un regalo (a pochi mesi dalle elezioni regionali, vedi un po’ le coincidenze) che peserà sulle tasche dei pugliesi per circa 31 milioni di euro. Dato però che di toccare certe spese proprio non si vuole sentir parlare, gli aumenti delle tasse regionali hanno una probabilità assai elevata: basti solo pensare che da gennaio sarà possibile portare l’aliquota Irpef dal 2,33 al 3,33% (nel Lazio la decisione è stata di fatto già adottata).

Tutto ciò senza contare il fatto che il gettito stimato derivante dalla lotta all’evasione è soltanto empirico e che il via libera da parte dell’Europa è ancora traballante. Se uno di questi due aspetti dovesse creare problemi scatterebbero in automatico le clausole di salvaguardia. Che consistono, lo avrete già capito, in nuove tasse.

sabato 15 novembre 2014

Fondata sulle tasse



Per quel tessuto connettivo di imprese oneste che ancora riesce a sopravvivere nonostante la morsa fatale di banche, criminalità e adempimenti statali di ogni genere, novembre non sarà il mese del ponte dei morti, né il mese del Jobs Act e tanto meno il mese della probabile chiusura del «patto del Nazareno». Il mese di novembre viene ricordato per un numero, 119. Tanti sono gli adempimenti fiscali che attendono i titolari di partite Iva da qui fino al primo di dicembre per poi, come nel tradizionale gioco dell’oca (in fin dei conti si tratta sempre di spennare), ricominciare da capo al punto tale da far calcolare alla Confesercenti che tra fine settembre e fine dicembre ci siano qualcosa come 187 adempimenti fiscali. Due tasse al giorno. Diego Lorenzon, presidente dell’azienda veronese Poolmeccanica Lorenzon Spa, ha provato a stilare un elenco: Cimp, Inail, Inps, Irap, Ires, Irpef, Iva, Tosa, tassa sui passi carrai, tassa sui rifiuti, tassa sulle bonifiche (ma nel frattempo sopravvive anche la tassa sulle paludi varata con regio decreto del 1904), tassa sulle proprietà, tassa sulle pubblicità, tassa sulla concessione per le frequenze, tasse sul contributo per riciclaggio, tasse sul risanamento ambientale, imposte sulle carte di credito, imposte catastali, imposte di fabbricazione, imposte sugli intrattenimenti, imposte di registro, imposte sulle successioni, imposte di bollo, imposte sulla Camera di commercio e imposte sugli oneri bancari passivi. Fortuna che non deve adempiere anche la tassa sull’ombra, pagata dagli esercenti che osano oscurare il marciapiede con la loro tenda, e fortuna che il suo comune non applica la tassa sui gradini (che devono versare i proprietari d’immobili con scalini che vanno sulla strada) o la tassa sui cani (da 20 a 50 euro per ogni Fido). Il rosario di doveri verso il Fisco ovviamente non si limita alle attività prettamente lavorative, ma si estende anche agli svaghi: se Lorenzon volesse usare il suo tempo libero andando a caccia dovrebbe pagare la concessione governativa di 115 euro per adoperare il fucile, se preferisse invece andare a pescare dovrebbe pagare la concessione governativa sulla canna da pesca (gli andrebbe peggio: qui si tratta di 173,16 euro), se invece volesse andare a raccogliere i funghi il Fisco lo inseguirebbe anche in mezzo ai boschi per fargli pagare l’imposta di bollo sui permessi di raccolta di chiodini e porcini. Se invece la sua predilezione fosse una più sedentaria partita della nazionale davanti alla tivù, conviene che ci pensi bene prima di esporre la bandiera fuori dal balcone: un albergo del nord è stato tassato anche per questo.
Quando Lorenzon passerà a miglior vita, sappia che il Fisco non si dimenticherà di lui: a parte il fatto che qualche comune potrebbe applicargli la tassa sui tumuli, si ritroverebbe comunque tra capo e collo la tassa (35 euro a cui si aggiunge un bollettino postale) per il rilascio del certificato di constatazione di decesso da parte dell’ufficiale sanitario dell’Asl e il diritto fisso sul decreto di trasporto dei defunti (58 euro, più un paio di marche da bollo). Solo per la cremazione sono richieste due imposte di bollo: una sulla domanda di affido personale delle ceneri e una sul provvedimento di autorizzazione. Nemmeno a funzioni concluse il Fisco si dimentica della buonanima: nel solo 2008 sono state spedite due milioni e mezzo di cartelle esattoriali a casa di persone decedute, e quando non si riesce a reperire il defunto ci sono sempre i congiunti a disposizione: l’Agenzia delle entrate potrebbe richiedere l’attestato di pagamento dei funerali. Se sei stanco di tutto questo e decidi di rivolgerti contro la pubblica amministrazione, sappi che anche tutte le tappe del ricorso sono regolarmente soggette a imposta.
Non bisogna quindi sorprendersi se uno studio a cura di Riccardo Fenochietto e Carola Pessino pubblicato l’anno scorso dal Fondo monetario internazionale riveli che il Tax Effort (traducibile come «sforzo fiscale») abbia toccato il tetto massimo: considerato 1 «il massimo livello di entrate fiscali che un Paese può ottenere» l’Italia si collocava nel 2011 a 0,99. Nessun altro Paese avanzato, pur disponendo di servizi sicuramente migliori dei nostri, raggiunge certi apici: eccezion fatta per la Francia e la Svezia (a quota 0,98), la media è notevolmente più bassa: la Germania sta a 0,84, la Spagna a 0,82, la Gran Bretagna a 0,86, gli Usa a 0,71 e via di questo passo.
Taluni obietteranno che molti studi (dall’Ocse all’Istat all’Eurostat) in realtà dimostrano che l’Italia non sia il Paese con la pressione fiscale più alta: l’Eurostat ad esempio ci colloca al sesto posto nel continente per livello di tassazione. Possibile che i francesi o i danesi siano più tartassati di noi italiani? E infatti l’ormai celebre rapporto tra gettito fiscale e Pil (la cosiddetta «pressione fiscale») è un metro di giudizio che non soddisfa tutti: la Banca Mondiale, ad esempio, preferisce applicare un parametro diverso, detto «total tax rate», che calcola il peso complessivo delle imposte sugli utili d’impresa (compreso il carico sul lavoro). Ebbene, in Italia (medaglia d’oro) questo dato raggiunge mediamente il 65,8%, in Francia il 64,7% in Spagna il 58,6%, nel Regno Unito il 34% e in Germania il 49,4%. Non solo: la Corte dei Conti ha scoperto che il Pil preso in considerazione negli studi della pressione fiscale è manipolato con una stima del presunto sommerso. Rifacendo i calcoli, nel 2013 l’allora presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha dichiarato durante un’audizione alla Camera che la pressione fiscale reale è almeno (almeno!) del 53%, una percentuale alquanto superiore rispetto al 44% che comunemente ci viene appioppato e che in alcuni casi (specie di piccole e medie imprese) può raggiungere il 68,3%.
Paolo Cardenà, consulente tributario e private banker, spiega cosa significano queste percentuali nella vita quotidiana di un’azienda con un utile di 32mila euro condotta in società da due artigiani:

«In questo caso, nella determinazione delle imposte da pagare a carico della società in esame, nonostante l’esiguità dell’utile – certamente non sufficiente a garantire la sussistenza degli imprenditori e delle rispettive famiglie – la tassazione pretesa dal fisco in capo alla società è di oltre 15mila euro, 15.593 euro, per l’esattezza. Di cui, 12.024 a titolo Ires, e 3.569 per Irap. Quindi, la società subisce un carico tributario di oltre il 48%. Ma la tassazione della società e dei due soci non si esaurisce con i 15.593 euro di tasse in capo alla società. Anche i soci sono colpiti dalle imposizioni tributarie e contributive. Già, per l’anno 2012, i due soci hanno corrisposto i contributi Inps, che fanno salire il conto a 21.993. Oltre ai contributi pagati sul reddito minimale, la legge prevede che ciascun socio che lavora nell’azienda debba versare anche i contributi Inps e la percentuale sulla parte di reddito eccedente il minimale. E l’imposizione fiscale complessiva, con un utile di appena 32mila euro, è già salita a quasi 25mila euro, ossia il 78% dell’utile prodotto nel 2012.
Ma c’è dell’altro. I due soci, nel corso del 2013, volendo prelevare l’utile netto realizzato nel 2012, dovranno registrare la delibera di distribuzione dell’utile, pagando 168 euro. Poi, nel 2014, nella propria dichiarazione dei redditi dovranno riportare l’utile imputato a ciascuno di loro (8.203) che andrà a formare la base imponibile in misura del 49,72% dell’utile prelevato, in quanto, in parte, già tassato in capo alla società. Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito da applicare sia il più basso (23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri deducibili pagati nel corso del 2013, dovrà corrispondere all’erario ulteriori 900 euro tra Irpef e addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate sia dalla società che dai soci, per un misero utile di 32mila euro, sale fino ad arrivare a 27mila euro, euro più euro meno. Ossia l’85% dell’utile prodotto dalla società nel 2012.
Oltre alle tasse di cui abbiamo dato nota, c’è da dire che l’impresa, durante l’esercizio, subisce altre forme d’imposizione. Si pensi, a esempio, al diritto annuale della Camera di commercio, alla tassa sulla vidimazione dei libri sociali, all’eventuale Imu (deducibile) e ad altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia, sono già considerate nella determinazione del risultato d’esercizio originario (32mila euro). E la pretesa del fisco non si esaurisce con questa pretesa assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di sostenibilità e ragionevolezza. Invero, per i cinque anni successivi, il fisco potrà esperire eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell’azienda e magari accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli indicatori previsti dagli studi di settore a cui la società è sottoposta.
Succede spesso che un’azienda paghi più tasse di quanto guadagni. Assolombardia ha condotto una ricerca su un campione di 6mila imprese [Osservatorio Assolombarda Bocconi e Prometeia, “Le imprese milanesi: struttura e dinamica reddituale. Periodo 2007-2011”, maggio 2013, ndr.] da cui è risultato che metà delle aziende ha una pressione fiscale complessiva attorno all’80% (!) e “in circa il 10% delle imprese analizzate il peso delle imposte ha superato il 100%”. Cioè guadagni 50 euro, paghi 70 euro di tasse. Incredibile. “Il nostro sistema fiscale penalizza gravemente le aziende che producono in Italia e quindi i loro posti di lavoro”, commenta l’ingegner Fabrizio Castaldi, presidente della Bcs Spa, colosso made in Italy nel settore delle macchine agricole. “Un’azienda con una pressione fiscale dell’80% non può sopravvivere con una concorrenza mondiale attestata intorno al 30%, perché risulta fortemente compromessa la sua possibilità di investire in ricerca e sviluppo. Per non implodere, l’azienda è costretta a rilocare la produzione e quindi i posti di lavoro all’estero”».

Tutto questo senza contare la fatica che richiede l’adempimento del proprio dovere fiscale: secondo Confartigianato tra il 2008 e l’agosto 2014 sono state emanate 418 norme di complicazione tributaria (una alla settimana) al punto da far dichiarare al fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti: «Ogni giorno dobbiamo fare uno slalom gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affonda nelle sabbie mobili italiane».
La causa primaria di questa incresciosa situazione non è data dalla classe dirigente, bensì da quella fascia sempre più ampia di evasori fiscali: secondo il Centro Studi di Confindustria, eliminando l’evasione le aliquote fiscali e contributive potrebbero calare del 16%. L’economista Tito Boeri si spinge addirittura oltre, sostenendo che dalla fine dell’evasione si otterrebbe un abbattimento fiscale del 20%. Al contrario di come molte personalità (compresi molti stimati editorialisti) siano portate a credere, l’evasione fiscale non è la conseguenza dell’eccessivo carico di tasse, bensì la sua causa. Partiamo da lì, una buona volta.

lunedì 10 novembre 2014

Rom



L’ammirazione in costante aumento che un leader come Matteo Salvini suscita in settori sempre più ampi e moderati della società italiana (tradizionalmente di destra, ma non solo) ci costringe a fare i conti con un sottovalutato aspetto mai sopito di una certa mentalità del nostro Paese: l’intolleranza verso il «diverso», in qualsiasi forma esso si presenti. Risale a pochi giorni fa il vergognoso assalto squadrista compiuto da un gruppetto di avventori di centri sociali nei confronti dell’automobile del capo leghista, recatosi a Bologna con l’intento (mai raggiunto) di visitare un campo nomade della zona. Una visita, quella, che sancisce la particolare rilevanza della tematica dei rom nel bagaglio propagandistico di Salvini, ultimo esponente di spicco in ordine di tempo di un partito, la Lega Nord, che solo sei anni fa vedeva uno come Giancarlo Gentilini esibirsi su un palco inveendo: «Voglio la pulizia dalle strade di tutte queste etnie che distruggono il nostro paese. Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, dei zingari. Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso. Non ci sono più zingari che vanno a rubare agli anziani! Voglio la tolleranza doppio zero! Maroni ha detto zero, io la voglio a doppio zero! Io voglio la rivoluzione nei confronti della televisione, della radio, dei giornali perché continuano a infangare la Lega. È tempo di zittirli. Dobbiamo mettergli dei turaccioli in bocca e su per il culo a quei giornalisti». Parole apprezzate, applaudite, acclamate, ripetute e rivendicate con orgoglio da una folta schiera di elettori, allora come oggi.
L’odio discriminatorio verso la cultura rom è particolarmente in voga nel nostro Paese: un sondaggio Eurobarometro 2008 ha rivelato che questo aspetto contraddistingue il 71% degli italiani contro il 51% dei tedeschi e il 37% degli spagnoli. In Europa solo la Repubblica Ceca nutre un astio superiore al nostro. Tutto questo nonostante un rapporto europeo sulla scolarizzazione redatto di Jean-Pierre Liégeois affermi che nella nostra area continentale (ossia quella situata tra la zona balcanica e la zona confinante con l’Atlantico) «la popolazione zingara può raggiungere al massimo il livello dello 0,2% rispetto alla popolazione». La Commissione Europea ha provato ad essere più precisa, asserendo che nell’estate del 2009 fossero presenti sulla nostra penisola tra i 120 e i 160mila rom (circa lo 0,26% della popolazione), un quinto rispetto alla Spagna e un terzo rispetto alla Francia. Di questi, ed è il dato che dovrebbe maggiormente far riflettere, solo 40mila alloggianti nei campi nomadi. Tutti gli altri possiedono le loro abitazioni, esattamente come Charlie Chaplin, Elvis Presley, Yul Brinner, Bob Hoskins e Michael Caine. Tutti illustri appartenenti alla cultura rom. Ma non solo loro: anche l’idolo del pallone Andrea Pirlo è di origine rom, così come lo sono il violinista Ion Voicu e i celebri direttori d’orchestra Sergiu Celibidache e Zubin Mehta. Dei rom fa parte Livio Togni, ex-senatore di Rifondazione Comunista passato tra le file del filo-berlusconiano Movimento per le Autonomie; alla comunità sinta appartiene la bionda Eva Rizzin, laureata con dottorato di ricerca in Geopolitica e Geostrategia all’università di Trieste; è rom Alexian Santino Spinelli, plurilaureato attualmente conteso tra le università di Torino, Chieti e Trieste; tra i rom italiani va annoverata anche Serena Spada, laureatasi nella elvetica European University di Montreux col sogno di fare la broker a Londra. È rom anche una buona fetta della classe dirigente di Melfi, città dove la comunità zingara si è integrata da secoli, anzi, spesso ne ha rappresentato la parte più emancipata se si considera che sono stati loro i primi a mandare i propri figli a scuola (correva l’anno 1905). Così come vanno considerate rom anche molte famiglie che campeggiano nei dintorni di Venezia, talmente entrate nel tessuto connettivo del territorio da portare ai giorni nostri cognomi come Pietrobon, Pavan e Brusadin. E chissà quanti altri cittadini italiani con i quali ci confrontiamo tutti i giorni appartengono a questa cultura, pur evitando di confessarlo pubblicamente e pur conducendo uno stile di vita del tutto innocuo. Non bisogna sorprendersi: il professor Tommaso Vitale spiega che «si va sempre a spanne perché il “mondo rom” è fatto di mille mondi. Ci sono i cristiani e i musulmani, gli ortodossi e i buddisti, quelli che mandano le donne a chiedere la carità e quelli che non lo farebbero manco morti, quelli la cui famiglia vive in Italia da sei secoli e quelli che sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni nei Balcani e sopravvivono in condizioni di estremo disagio, rubacchiando, e quelli che in qualche modo sono riusciti a inserirsi e non lo fanno più. E poi quelli che sanno di essere rom e lo negano e quelli che non lo sanno neppure. Ci sono perfino i razzisti che si considerano superiori a quelli di altre comunità…»
D’altro canto, non è passato molto tempo da quando il giornalista Orio Vergani (che non si può certo definire un ferreo sinistroide) scriveva sul «Corriere della Sera» dell’8 settembre 1953: «I nebbiosi inverni della Padania hanno fatto sempre amare i bruni zingari i cui visi sembrano bruciati da un sole antichissimo e parlano in nome di un misterioso oriente dal quale provengono con il passo furtivo, fossero essi mercanti di cavalli o battitori di rami, si sono sempre illuminate le fantasie dei ragazzi di Padania…L’elogio della vita zingaresca non può essere cantato se non da chi non si stacca mai dal proprio focolare…Probabilmente poteva nascere solo a Gonzaga l’idea di offrire i prati della propria fiera a un grande raduno di zingari. Gonzaga vanta come un titolo di nobiltà del suo lavoro agrario l’antichità della sua fiera, sorta appena si sperdeva il tenebrore del Medioevo italico». Suscitava ammirazione questo popolo errante. Quasi tutti i giornali si lasciavano incantare da questa tradizione millenaria. Su «L’Illustrazione Italiana» Leone Lombardi raccontava per l’occasione come gli antenati dei Gonzaga avessero appreso «l’utile che si poteva trarre dal proteggere i popoli nomadi e i popoli perseguitati. Atavicamente allenati al lavoro dei campi e a misurare i valori dei beni immobili, essi conobbero qui, dagli zingari antichissimi, il valore dei commerci dei beni mobili: proprio dagli zingari che vagavano di terra in terra lavorando il rame, battendo su piccole incudini monili d’oro e vendendo cavalli che andavano forse rubando pascolando qua e là nel loro instancabile peregrinare. Protettori di zingari prima, e poi protettori di ebrei, come dovevano esserlo, a Ferrara, gli Estensi. Il mercato zingaresco di Gonzaga e il ghetto di Mantova sono stati…i due caposaldi, dopo quello terriero, della loro fortuna finanziaria». Si abbandonava alle lodi anche un altro giornalista del «Corriere», Max David, che in quello stesso 1953 narrava dei rom andalusi: «Conoscono il segreto che cambia il mantello dei cavalli; conoscono il segreto che nasconde certe malattie; conoscono il segreto che dà agli animali una particolare prestanza; conoscono il segreto che fa rizzare le orecchie ciondoloni e fa tremolare le froge dei buricchi come petali di rose; conoscono infine il segreto, affascinante, di far trottare diritte le bestie che marcano. La mula del Nino de la Chata trottava diritta ed era zoppa; quella mula aveva dieci anni ma ne dimostrava tre». «Mille poeti biondi tra pentole e chitarre» era uno dei titoli sui rom che poteva apparire sui quotidiani, e questo è lo stralcio di un pezzo di Rino Albertarelli su «Settimo Giorno»: «Esplose dall’organetto un grappolo di notte, come fuoco d’artificio, e la tensione si sciolse di colpo in un lento ondeggiare di vestine multicolori; tutte le bambine danzavano, ognuna a sé o per sé, con una serietà impressionante. Le più grandi assumevano espressioni intense, drammatiche, inframmezzati di sorrisi sfumati, di sguardi ora languidi, tra le palpebre socchiuse, ora lampeggianti…».
È impossibile negare che in alcuni campi nomadi ci sia una particolare concentrazione di delinquenza, ma da qui ad abbandonarsi allo squallore discriminatorio c’è una bella differenza, senza contare l’autentico coacervo di dicerie strampalate che circondano questa cultura. Prendiamo per esempio lo stereotipo dello zingaro rapitore di bambini: la docente universitaria Sabrina Tosi Cambini ha analizzato puntigliosamente l’archivio dell’Ansa del periodo 1986-2007 scoprendo che nessun (dicasi nessun) fanciullo scomparso è mai stato trovato nei campi nomadi e scoprendo anche che dei 40 casi giudiziari sui rapimenti in cui sono stati coinvolti degli zingari 37 si sono conclusi con la piena assoluzione dei rom ed i restanti 3 rappresentano sentenze ancora avvolte da alcune controversie. L’archivio documentale del «Corriere della Sera» (uno dei più corposi d’Italia) ha consegnato alla ricerca soltanto due casi (uno nel 1952 e l’altro nel 1953), che fra l’altro non ricevettero alcun rilievo mediatico. Secondo lo studioso Leonardo Piasere, questa storiella risale nientemeno che ad una commedia veneta del 1545, da cui scaturì una fortunata tradizione letteraria che finì per contagiare anche Walt Disney e Stanlio e Ollio.
Spesso è proprio la tradizione storica a influenzare il nostro modo di pensare: secondo il docente Alexian Spinelli, tra il 1483 e il 1785 sono stati emessi solo nella nostra penisola 210 bandi anti-rom, di cui 79 provenienti dallo stato pontificio. Si legga la seguente grida della Repubblica di Venezia, datata 1558: «Possendo etiam li detti Cingani, così homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territiri Nostri esser impune ammazati, si che gli interfettori [gli assassini, ndr.] per tali homicidi non abbino ad incorrer in alcuna pena». Un esempio fra i tanti, simbolo di una persecuzione che da secoli tormenta in maniera quasi ininterrotta gli zingari. Persecuzione portata avanti senza alcuna conoscenza delle peculiarità, delle molteplici caratteristiche e delle innumerevoli distinzioni interne che caratterizzano una cultura millenaria e variegata come quella rom. Salvini non fa altro che collocarsi in questa scia di odio atavico e stereotipato, totalmente assoggettato ad un’ignoranza tanto antica quanto inestirpabile.