venerdì 31 gennaio 2014

Si mangia, si beve e Sicilia


La situazione della Sicilia si può riassumere nel paesaggio urbano di Palermo. Macerie e degrado convivono a stretto contatto con alcune delle più incantevoli opere d’arte di cui dispone il nostro Paese. Il meraviglioso complesso della Casa Professa, ad esempio, si trova immerso nel lerciume del mercato di Ballarò.
Estrema magnificenza ed estrema povertà. L’isola sembra non conoscere qualcosa di diverso dall’iperbole. Vale anche per la situazione sociale.
La Sicilia è la regione che più di tutte è stata colpita dalla scure della crisi. Il 20% delle famiglie siciliane vive con meno di mille euro al mese (nella vicina Calabria sono «solo» il 12,8%), due giovani su tre sono senza lavoro, le donne che lavorano sono solo il 34,7% (la media italiana è del 57%), l’abbandono scolastico è fissato al 25% (in Germania è a quota 10,5%). La società del trasporto pubblico di Palermo (l’Amat) ha avuto nel 2012 un bilancio in perdita di 9,5 milioni di euro. Nel 1951 la Sicilia, secondo Confindustria, produceva 1/8 del Pil italiano; ai giorni nostri ne produce 1/18. Nel 2011 il Pil pro capite della Val d’Aosta, secondo l’Istat, era di 32.565 euro; in Sicilia era di appena 15.136 euro, ossia il 66% rispetto alla media europea e con un calo del 13,3% rispetto al 2007. Secondo lo Svimez «crolla Pil siciliano (-4,3%), doppiata la decrescita nazionale». A detta de «Il Giornale di Sicilia» ci sono stati «65mila posti di lavoro persi in raffronto con il primo trimestre 2012, disoccupazione al 21,1%, imprese alla canna del gas con cali di fatturato e investimenti al palo, scambi con l’estero a -17,9%, con l’export petrolifero crollato a -28,4%, mercato immobiliare paralizzato e sempre meno mutui per l’acquisto di abitazioni (-26,9%)».
Inoltre, ancora secondo Confindustria, gli investimenti esteri in Sicilia nel periodo 2007-2011 erano lo 0,4% degli investimenti esteri compiuti in Italia.
Una situazione assai drammatica, che dovrebbe far comprendere la necessità urgente di agire. Nessuno si aspetterebbe che, da parte degli enti che dovrebbero provvedere a risanare queste profonde fratture, ci sia lo spreco più sfrenato. La Corte dei Conti, nel lontano giugno del 1990, denunciava: «C’è un concentrato di malgoverno nel quale emerge l’esplosione delle spese a scopo clientelare o demagogico».
Da allora non è cambiato molto, sebbene al governo della regione si siano avvicendati uomini di destra e di sinistra. Le situazioni di spreco dell’isola sono centinaia. Analizziamo soltanto il personale.
Nel 2010 i dipendenti della regione erano nientepopodimeno che 144.148 (di cui 17.531 assunti a tempo indeterminato), con 1874 dirigenti in più rispetto alla media nazionale.
Dirigenti e dipendenti che, ancora nel Natale del 2009, si vedevano ricevere regali di tutto rispetto: 300 gemelli da polsino e orecchini d’oro da 358 euro al pezzo, «1500 teste in ceramica dei discendenti dei Borbone» da 115 euro l’uno, cravatte di grande pregio e altro ancora.
Ma soffermiamoci un attimo sui dirigenti regionali: in totale sono 1818, in pratica uno ogni 9 dipendenti (nelle altre Regioni a statuto autonomo il rapporto è 1 a 19), una cifra all’incirca equivalente al numero dei dirigenti delle quindici regioni a statuto ordinario sommate insieme. I dirigenti di stanza a Palermo, tanto per dirne una, sono 7.647, il doppio di quelli lombardi. In mezzo a questa compagine di dirigenti si assiste a scene quasi grottesche: nel Parco archeologico dell’isola di Pantelleria c’è un unico dirigente che dirige soltanto se stesso (e non è un caso isolato: un caso analogo avviene al Parco archeologico della Morgantina e un atro ancora nella «Sezione operativa di assistenza tecnica» dell’assessorato all’Agricoltura).
Passiamo ora ai dipendenti: l’ufficio legale della regione conta la bellezza di 102 avvocati, nella sola Castelvetrano ci sono nel libro paga 77 ispettori del lavoro, il museo «Pirandello» di Agrigento conta 66 dipendenti e in questo esorbitante numero si trova in concorrenza con il «Pietro Griffo», che di dipendenti ne ha 68. Ovviamente poi bisogna aggiungere i 244 dipendenti del dipartimento dei Beni culturali. Lasciando per un attimo da parte il patrimonio culturale si scopre, ad esempio, che il Corpo forestale conta 480 dipendenti, il dipartimento «Acqua e rifiuti» 511, l’autoparco regionale nientemeno che 127.
E qui stiamo escludendo il personale esterno e a tempo. Non mi voglio dilungare molto a riguardo, segnalo soltanto che la Corte dei Conti indica in 20.213 unità il numero del personale di questo tipo. Infine c’è il magico mondo delle municipalizzate, che conta qualcosa come 7000 dipendenti.
Numeri abnormi, di cui bisogna mettere nel conto anche il costo delle pensioni che bisognerà erogare a questi individui. Il 31 dicembre gli assegni previdenziali sono stati 16.377, con 580 nuovi pensionati (di cui i due terzi ha chiesto pensioni particolari, ossia pensioni erogate grazie a una bizzarra normativa che prevede la possibilità di andare in pensione se un genitore è disabile, indipendentemente dall’età). Come se non bastasse, il vitalizio viene calcolato in larga misura in base all’ultima busta paga.
Ed eccoci arrivati ai costi della politica vera e propria, quelli che fanno più rabbrividire. Fa venire i capelli dritti pensare che i contributi dei lavoratori coprono soltanto il 32,3% dei vitalizi. A dicembre si è riusciti a ridurre il tetto degli stipendi dei parlamentari regionali portandoli a quota 11.100 euro lordi con solo qualche piccolo bonus. La beffa però rimane: la norma prevede l’adeguamento automatico al costo della vita. Quindi non è detto che il risparmio avvenga veramente. Fino a dicembre, infatti, la situazione aveva dell’incredibile. I 90 deputati regionali guadagnavano mediamente 11.780 euro netti al mese, tralasciando i vari bonus (tra cui 7.989 euro annui per il carburante necessario per raggiungere Palazzo dei Normanni e 4.866 euro per i presidenti dell’Assemblea e della Regione) che facevano lievitare lo stipendio alla cifra di 14.808 euro netti al mese, con punte di 17.476 (il doppio del segretario generale dell’Onu). Gli assessori regionali, con 9.900 euro al mese, guadagnavano più dei ministri. In totale, secondo il sito «lavoce.info», l’Assemblea Regionale costava 156 milioni. Quelli di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sommati insieme hanno un costo inferiore. Facendo tutti i conti, ciascun parlamentare regionale costava 1.735.000 euro (la media italiana è di 875.000 euro, in Trentino il costo medio è di 415.000 euro), il che vuol dire 85mila euro in più rispetto a un senatore. Ogni cittadino siciliano sborsava mediamente 31 euro per mantenere il proprio parlamentino, contro una media italiana di 16. Ogni giorno di seduta arrivava a contare 2.727 euro. Il segretario generale dell’Assemblea, tanto per dirne una, poteva arrivare a guadagnare 650mila euro l’anno, ossia il doppio di Obama, il triplo di Napolitano e 43 volte il Pil pro capite siciliano.
Ma, ripeto, non è detto che la situazione sia destinata a migliorare. Secondo Giancarlo Cancelleri, del MoVimento 5 Stelle, «in realtà abbiamo risparmiato sul lordo, ma non è detto che prendiamo meno sul netto. Infatti la somma comprende l’indennità che è lorda e la diaria che è esentasse. Se mettono l’indennità a 5.100 euro lordi e la diaria a 6.000 euro netti andremmo addirittura a prendere di più…»
Poi ci sono i contributi ai gruppi politici. I quali toccavano, prima del 2012, la sbalorditiva cifra di 136.577 euro per ognuno dei 90 consiglieri.
Ultimo dato: la buonuscita dei direttori regionali, aumentata del 225% dal 2011 a oggi.
Come prevedibile, il bilancio della regione è un requiem. Già nel 2008 la Corte dei Conti denunciava che l’indebitamento era «cresciuto dell’83%». Secondo la Cgia di Mestre il rapporto entrate-uscite della regione è a -1750 euro pro capite (per i lombardi è di +5775).
Una situazione disperata, che ha costretto il governatore Crocetta a salire a Roma l’altro giorno per chiedere disperatamente di sbloccare 558 milioni congelati. Ci riuscirà?(1)

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(1) Le fonti di quanto riportato sono: articolo di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera» del 25/11/2013 (munito di dati provenienti da Istat, Svimez e Confartigianato), articolo di Valentina Santarpia sul «Corriere della Sera» del 23/11/2013, l'articolo di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su «Sette-Corriere della Sera» del 06/12/2013,  l'articolo di Gian Antonio Stella sul  «Corriere della Sera» del 22/12/2013, l'articolo di Gian Antonio Stella sul  «Corriere della Sera» del 09/11/2013, l'articolo di Gian Antonio Stella sul  «Corriere della Sera» del 30/01/2014, l'articolo di Sergio Rizzo sul  «Corriere della Sera» del 03/12/2013, l'articolo di Michele Ainis sul  «Corriere della Sera» del 24/11/2013

lunedì 13 gennaio 2014

Lega Mort: il fallimento politico dei padani



C’era una volta la secessione. Una volta accortisi che la secessione poteva andare bene solo per qualche slogan elettorale, si puntò a livello pratico sul federalismo, a cui si accompagnava un progetto nebuloso che prendeva il nome di «macroregione».
Si è parlato molto di come il proposito moralizzatore della Lega Nord sia definitivamente crollato sotto i colpi delle indagini giudiziarie sull’uso assolutamente improprio dei rimborsi elettorali.
Non si è invece mai dato grande risalto al fallimento prettamente politico del partito. Partito che ha avuto un ruolo determinante nei governi Berlusconi e che, di conseguenza, ha tenuto in mano una parte considerevole delle redini del paese per un decennio. Partito che, considerandone la nascita anagrafica, è il più vecchio tra quelli tuttora presenti sulla scena politica.
Visti questi illustri trascorsi, la domanda sorge spontanea: la Lega è riuscita nel suo intento federalista? La risposta è netta: no.
Nel mare degli slogan populisti che ha costituito buona parte del fascino e dell’ideologia leghista, il federalismo (quantomeno quello fiscale) sembrava una proposta tutto sommato ragionevole e attuabile.
Soltanto tre anni fa, gli industriali lombardi riuniti a Cernobbio si dichiaravano fiduciosi e «pronti al federalismo»(1). Nel settembre 2013, in occasione del seminario Ambrosetti riunito, per pura coincidenza, sempre a Cernobbio, gli imprenditori hanno mutato profondamente il loro giudizio.
La domanda rivolta agli organizzatori del seminario era la seguente: «Quali dei grandi temi del Paese devono essere delegati alla competenza delle Regioni e non devono essere accentrati?». Le risposte sono assai eloquenti: il 40% ha dichiarato «nessuna», il 36,2% ha risposto «il turismo». I grandi temi per cui era nato il federalismo (sanità, grandi infrastrutture ed energia) hanno beccato rispettivamente il 7,6%, il 6,7% e il 9,5%(2). Briciole. Praticamente nessun imprenditore affiderebbe queste tre responsabilità alle Regioni.
Il commento a caldo di Luca Antonimi, ex presidente della commissione tecnica per l’attuazione del federalismo fiscale, è il seguente: «Non mi stupisco. Siamo riusciti a creare un federalismo di complicazione che rende la vita difficile alle imprese perché ha moltiplicato gli adempimenti e ha massacrato la certezza del diritto»(3).
Il vicepresidente di Confindustria con delega per i problemi del fisco, Andrea Bolla, ha saggiamente dichiarato: «Volevamo meno tasse e più efficienza e invece il federalismo ci ha portato in direzione opposta. La fiscalità locale si è sommata a quella nazionale e si è creata una sovrapposizione di competenze tra centro e periferia che ha complicato ulteriormente la vita degli imprenditori»(4).
Per quanto riguarda l’energia, grazie alla devolution verso gli enti locali, i piani di investimento sono bloccati. Per il lavoro, le Regioni che vedono più autonomia sono quelle dove ci sono più ritardi e incertezze normative.
La Cgia di Mestre ha calcolato che, a partire dal 1997 (quando entrò in vigore la legge Bassanini che diede il primo via libera alla decentralizzazione) le tasse locali sono aumentate del 204,3%, con un aumento in termini assoluti di 74,4 miliardi di euro(5). Secondo la Confartigianato, fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2% (quasi 25 punti al di sopra della media europea) e la tassa sui rifiuti nel periodo 2003-2013 è cresciuta del 56,6%(6).
Mentre per quanto riguarda i costi generali delle amministrazioni centrali l’Italia si trova nella media europea (38 miliardi, contro i 40 della Germania e i 23 della Francia), i costi delle amministrazioni locali sono di 13 miliardi in Italia e soltanto di 5 miliardi in Francia(7).
Un conto così salato dovrebbe garantire servizi impeccabili e pareggio di bilancio. Invece è proprio il contrario: secondo la Corte dei Conti le amministrazioni locali nel 2012 hanno speso 230 miliardi guadagnandone solo 140, e i servizi lasciano il più delle volte a desiderare(8).
Questi numeri fanno capire chiaramente il fallimento del federalismo leghista. Ora, infatti, il Carroccio sembra aver abbandonato il progetto e avere un’altra idea per la testa: la «macroregione».
La Lega si trova infatti nella paradisiaca situazione di avere il controllo delle tre più importanti regioni del Nord: Piemonte, Lombardia e Veneto. Veneto e Piemonte sono state conquistate rispettivamente da Luca Zaia e Roberto Cota il 28 marzo 2010 (nel periodo d’oro del consenso leghista), mentre la Lombardia è stata espugnata da Roberto Maroni durante le elezioni del 24 febbraio 2013. Un trionfo del genere aveva fatto dire a Maroni (allora segretario della Lega) in occasione della sua elezione: «Abbiamo tre governi di coalizione che hanno un’idea in testa: far ripartire la macchina del Nord». Non solo: «L’ambizione non è solo la macroregione ma anche di dar vita, sul piano politico, a qualcosa di nuovo che metta insieme le forze che adesso ci sono, Lega, Pdl e vedremo chi, sul modello bavarese, Csu, o sul modello catalano». Arrivando a minacciare: «Se serve, faremo guerra a Roma e al governo»(9).
Sembrano risoluti i leghisti, eppure a livello pratico questo «asse del Nord» fatica a mettersi in moto: ad esempio, a luglio il Veneto ha presentato il nuovo orario dei treni regionali, che ha visto di fatto annullate otto corse Venezia-Milano per questioni di bilancio(10).
A quanto pare Cota e Maroni hanno più a cuore le magagne interne (accentuate in queste ultime settimane dai dissidi provocati dalla spaccatura del Pdl) che non il progetto della «macroregione».
Un insospettabile aiuto alla causa è arrivato dalla tanto vituperata Europa: nell’ottobre 2013 il Ministro degli Esteri Emma Bonino con i colleghi di Francia, Slovenia, Austria, Germania, Svizzera e Liechtenstein ha firmato una risoluzione per dare vita all’Euroregione alpina, che comprende anche le cinque regioni del Nord-Italia. «Sono la stessa cosa» ha chiosato Maroni. A quanto pare si è dimenticato del fatto che questo strumento è nato nel 2006 con l’intento di favorire la gestione di alcune politiche comuni nelle aree di confine, senza alcuna velleità federalista o di trattenuta fiscale(11).
La recente sentenza del Tar, che di fatto ha annullato l’elezione di Roberto Cota a governatore del Piemonte a causa di alcune firme false presentate dalla lista «Pensionati per Cota», suona come un colpo di grazia al progetto della «macroregione».
Insomma, per la Lega questo è un periodo più nero che mai.


Il neo-segretario Salvini sta giocando il tutto e per tutto puntando sui temi anti-europeisti, e non è affatto scontato che la Lega non si possa riprendere da questa sua agonia. Se poi si dovesse optare in Italia per il sistema elettorale di tipo spagnolo (Dio non voglia) la Lega potrebbe addirittura ambire ai consensi del passato. L’incubo non è finito.

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(1) da Dario Di Vico, sul «Corriere della Sera» del 09/09/2013, pag.5
(2) da uno schema riportato sul «Corriere della Sera» del 09/09/2013, pag.5
(3) da Dario Di Vico, sul «Corriere della Sera» del 09/09/2013, pag.5
(4) ibid.
(5) da uno schema riportato sul «Corriere della Sera» del 09/09/2013, pag.5
(6) da Sergio Rizzo, sul «Corriere della Sera» del 07/10/2013, pag.1
(7) da una lettera scritta da Gianfelice Rocca, Presidente di Assolombardia, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 19/09/2013
(8) ibid.
(9) da Sergio Rizzo, sul «Corriere della Sera» del 15/12/2013, pag.10
(10) ibid.
(11) ibid.

domenica 5 gennaio 2014

Le unioni che dividono

Con la consueta schietta ironia, Massimo Gramellini scriveva su «La Stampa» qualche mese fa: «Il sindaco di Firenze, una volta conquistato il partito, sosterrà con forza il governo, non vede l’ora. A condizione che Letta realizzi i pochi, semplici punti del programma che il nuovo Pd di Renzi gli indicherà: abolizione del Senato, delle Province, della disoccupazione giovanile e della fame nel mondo; riduzione del numero dei parlamentari e delle apparizioni video della Camusso, taglio delle tasse e accorciamento dei baffi e della spocchia di D’Alema, assunzione di un milione di dipendenti pubblici senza raccomandazioni, superamento dell’effetto serra e degli ingorghi nei centri storici, assegnazione dello scudetto alla Fiorentina, ritrovamento della pietra filosofale. Naturalmente Renzi non sarà così ingeneroso da pretendere che queste piccole riforme vengano realizzate tutte d’un colpo, pena la caduta del governo. Letta avrà ben 48 ore di tempo a disposizione»(1).
Non era andato molto distante dalla realtà.
La voglia irrefrenabile di voler affrontare un tema etico palesemente divisivo come le unioni civili ne è la prova lampante. Anche un bambino capirebbe che un esecutivo fondato sull’unione (traballante, fra l’altro) di anime e tradizioni diametralmente opposte non potrà mai partorire un testo condiviso su un tema così spinoso. E se ci aggiungiamo che i partiti della maggioranza siano tutti (dicasi tutti) in preda a tumulti e profondi mutamenti interni, il desiderio di affrontare un argomento del genere diventa semplicemente illusorio. Sarebbe come se un conclave cardinalizio eleggesse una prostituta, tanto per intenderci.
È chiaro che lo scopo di Renzi sia quello di trasmettere l’idea di un Pd vispo, vivace, dinamico e aperto, ed è assolutamente lodevole il fatto che ci sia il desiderio di affrontare un tema così importante (siamo l’unico paese dell’Europa occidentale a non avere una legislazione in materia: persino Slovenia, Ungheria e Repubblica Ceca permettono le unioni civili)(2), però questo non è il momento per farlo.
Questo governo, per il 2014, ha già un programma ambizioso (riforma del Titolo V della Costituzione, abolizione delle Province, abolizione del Senato, riforma della legge elettorale in primis) e mettersi a discutere di unioni civili e immigrazione non farebbe altro che lacerare i rapporti tra i vari partiti e comportare perdite di tempo.
Il sospetto è che Renzi voglia affrontare la questione trovando l’appoggio del MoVimento 5 Stelle(3), ma Grillo, nei confronti dei partiti, ha sempre ostentato un netto rifiuto per qualunque tipo di accordo ed è quasi sicuro che si opporrebbe anche a queste proposte (inoltre, considerata la voglia dell’ex-comico di fare rifornimento di voti dal bacino elettorale della destra, non mi sorprenderebbe se, oltre a una questione di metodo, opponesse una questione di merito).
Fatte queste premesse, il problema che vorrei affrontare è un altro: il Pd è pronto ad affrontare un tema come le unioni civili?
Il Partito Democratico nasce nell’ottobre 2007 come un connubio tra Ds (discendente diretto del Partito Comunista) e Margherita (di chiara impronta cattolica). Emanuele Macaluso, uno dei massimi conoscitori della sinistra italiana, ha definito il Pd «un aggregato di diessini che si erano illusi di poter governare il Paese aggregando un pezzo di Dc»(4).
Le ultime primarie hanno comportato una svolta storica all’interno del partito, in quanto, per la prima volta, hanno visto soccombere l’«aggregato di diessini» in favore del «pezzo di Dc».
Renzi ha sempre dimostrato di non avere un grande feeling con l’eredità comunista: in un’intervista rilasciata ad Alfonso Signorini, il sindaco di Firenze dichiarava di conoscere «solo l’inizio» dell’inno «Bandiera Rossa» («Comincia così, Bandiera rossa la trionferà…» e aveva pure sbagliato)(5). Pur rifiutando l’etichetta di «ex-democristiano», Renzi proviene dal mondo dei boy-scout, i suoi miti sono La Pira e Baden-Powell, la sua carriera politica è iniziata facendo il portaborse di Lapo Pistelli (Ppi e in seguito coordinatore della Margherita)(6).
Le unioni civili non sono mai state un caposaldo della componente cattolica del centrosinistra, ed è tutto sommato sorprendente che a proporle sia stato un segretario che proviene proprio da quella tradizione. Ma questa apertura riuscirà a convincere anche gli altri cattolici del Pd? Diciamocelo francamente, le unioni civili sono uno di quei temi che in passato hanno sempre provocato forti dibattiti all’interno dello stesso centrosinistra. I precedenti parlano chiaro: i Pacs (Patti Civili di Solidarietà) furono proposti nel 2002 tramite un ddl del centrosinistra, ma finirono per naufragare, bombardati dalla componente cattolica della coalizione di sinistra. Nel 2007 fu la volta dei Dico (Diritti delle persone Conviventi) ma il governo, appoggiato da una spappolata, agonizzante e risicatissima maggioranza di centrosinistra (era l’ultimo governo Prodi) non riuscì a ottenere nulla di concreto(7).
Visto tutto questo, ben pochi si sono fatti illusioni: il centrosinistra non è il paladino dei temi etici. Alle elezioni politiche di febbraio (secondo l’Osservatorio LaPolis) soltanto il 2,3% degli elettori del Pd aveva scelto il partito per la sua posizione sui temi etici(8).
Che questa sia la volta buona per affrontare il problema senza veti interni? Possibile che i cattolici si siano aperti su questo tema, vista anche la minore intransigenza di Papa Francesco? Può darsi. Finora nel Pd non sono stati segnalati distinguo sull’idea del segretario. Penso che l’ultima dichiarazione in merito sia quella di Beppe Fioroni (paladino dei valori cattolici nel Pd), risalente a metà dicembre: «Il riconoscimento dei diritti delle persone che convivono, a diverso titolo, mi pare una cosa sensata. Basta che non sia un modo per ritirare in ballo il matrimonio o le adozioni»(9).
Roberto Giachetti, renziano della prima ora, si dice tranquillo da questo punto di vista (la dichiarazione risale anch’essa a metà dicembre): «Stavolta è la volta buona. È arrivato uno, Matteo, che se ne frega dei veti. E poi, non solo il 95 per cento del mio partito è favorevole alle unioni civili, ma questo è un tema trasversale. Facciamo ridere l’Europa se non lo affrontiamo»(10).
Insomma, l’ottimismo dilaga.
Forse Renzi è davvero riuscito nel miracolo di unire, sotto le sue insegne, gran parte delle anime interne al Pd. Se davvero il segretario-sindaco avesse ottenuto questo grande risultato non bisogna fare altro che complimentarsi. Sarebbe probabilmente uno dei suoi risultati più consistenti.
Fossi in lui mi accontenterei. Pretendere che anche la destra si apra sui temi etici è davvero troppo.
Macaluso ha dichiarato che dopo le ultime primarie il Pd «è morto, almeno così come era nato»(11). Se il Pd del passato è quello delle agguerrite e chiuse correnti interne che non riusciva ad attirare nuovo elettorato, non ci resta che festeggiarne il decesso.

Il miracolo è stato già fatto.

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(1) da «Matteo Il Conquistatore», pag.149, di Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene, ed.2013
(2) da uno schema riportato sul «Corriere della Sera» del 17/12/2013, pag.9
(3) per approfondire: Alessandro Trocino, sul «Corriere della Sera» del 04/01/2014, pag.6
(4) da Aldo Cazzullo, sul «Corriere della Sera» del 10/12/2013, pag.10
(5) ibid.
(6) da «Matteo Il Conquistatore», pag.37, di Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene, ed.2013
(7) da uno schema riportato sul «Corriere della Sera» del 17/12/2013, pag.9
(8) Indagine Osservatorio elettorale LaPolis (Univ. di Urbino), marzo 2013 (base: 1528 casi). Il sondaggio, nella sua versione integrale, lo si trova su «Un Salto Nel Voto», pag.40, di Ilvo Diamanti, ed.2013
(9) da Alessandro Trocino, sul «Corriere della Sera» del 17/12/2013, pag.9
(10) ibid.
(11) da Aldo Cazzullo, sul «Corriere della Sera» del 10/12/2013, pag.10