sabato 29 agosto 2015

Tagliare le tasse per aumentare le disuguaglianze. Una ricetta già vecchia

Rendere la pressione fiscale più leggera per le categorie più abbienti (tramite sgravi o pesanti riduzioni delle imposte sulle società) non ha nulla di fresco, a dispetto del volto giovane ed esuberante degli imberbi ministri che decantano le loro gesta spacciandole per spolverate d’innovazione. Al contrario, emana uno sgradevole fetore di stantio, di già visto, di talmente vetusto da risultare putrescente dinnanzi alla pesantezza di una crisi economica che di certi dogmi ne rappresenta la più sonora tra le smentite.
Proseguire con l’ideologia secondo cui le disuguaglianze vanno incentivate perché nella perfezione del mercato globale il ricco prospera perché pieno di meriti, il povero soccombe perché se l’è andata cercando e chi si è ritrovato senza lavoro ovviamente «non ha voglia di lavorare» (così si esprime il guru Oscar Farinetti nel corso di un’intervista di Carlo Tecce pubblicata sul «Fatto Quotidiano» del 21/12/2013, pag.6). La tassazione ovviamente deve agire di conseguenza, non solo premiando il merito di chi possiede un’invidiabile quota di capitale ma lasciando che sia la sua discrezione (secondo la bislacca teoria del «trickle-down») a garantire una vita decente a chi il capitale non lo possiede.
In questo studiato meccanismo ove ogni ingranaggio vede la concentrazione di ricchezza come obiettivo primario il carico fiscale ricopre un ruolo di primaria importanza, come dimostra quanto affermato dall’International Labour Organization («World of Work Report 2008: Income In-equalities in the Age of Financial Globalization», Genève 2008, pagg.IX-XII):

«La tassazione è diventata meno progressiva nella gran maggioranza dei Paesi e quindi meno capace di redistribuire i guadagni dello sviluppo economico. Ciò riflette un taglio delle imposte a carico degli alti redditi […] Tra il 1993 e il 2007, l’aliquota media dell’imposta sulle imprese è stata tagliata (in tutti i Paesi per cui esistono i dati) di 10 punti percentuali. Nel caso dell’aliquota massima sui redditi personali, nello stesso periodo essa venne ridotta di 3 punti».

Nello specifico del nostro Paese, tralasciando la solerzia nel proteggere un’evasione fiscale dai
contorni sbalorditivi (si pensi solo all’assortita sequela di condoni) e rimanendo nell’alveo del dettame legislativo, l’aliquota minima (quella applicata su un reddito inferiore a 15mila euro) è fissata al 23% contro l’aliquota unica applicabile sulle rendite da capitale, generose concessioni nei confronti di una porzione di denaro ottenuto senza lavorare, rimasta ferma per lungo tempo ad un misero 12,5%. Una percentuale che fa impallidire persino un’Europa di certo non affetta da pulsioni socialdemocratiche, se si considera che la media ha sempre veleggiato attorno al 20%.

«Tuttavia», asserisce il sociologo Luciano Gallino, «siamo pur sempre dinanzi al paradosso: un lavoratore con un imponibile di 28mila euro- quota entro la quale rientra la maggior parte dei lavoratori dipendenti- deve versare 6960 euro di imposte (sia pure al lordo di modeste detrazioni), a fronte di 1500 ore annue di lavoro pagate meno di venti euro l’una, mentre su un introito della stessa entità un redditiere da capitale ne paga soltanto 5600, senza dover lavorare neppure un’ora. E la medesima aliquota pagherà anche se quella rendita si moltiplica per mille».

Le imposte sulle società (tralasciando le elusioni, il business dei paradisi fiscali e gli accordi ad aziendam di cui un campione indiscusso è l’attuale dominus della Commissione Europea Jean-Claude Juncker) hanno seguito un analogo andamento discendente: la società di servizi finanziari Kpmg ha
Tagliare le tasse sul profitto è tra le priorità
di un governo sedicente "progressista" e "rottamatore"
pubblicato nel 2010 uno studio condotto su ottanta paesi rivelando come il tasso medio d’imposizione fiscale sia stato generosamente ridotto in quindici anni (si parla del periodo 1995-2010) dal 38 al 25%. Tra tutti si distinguono paradossalmente sia la Germania che la Grecia; sebbene, manco a dirlo, la prima si sia dimostrata più docile dando una sforbiciata di ben ventidue punti percentuali a questa aliquota (dal 51,6 al 29,4%) contro un taglio del 16% dei compari ellenici (dal 40 al 24%).
La nostra penisola si è data anch’essa da fare con discreti risultati apportando una riduzione di dieci punti (dal 41,3 al 31,4%) a cui però, a onor del vero, andrebbero aggiunti altri favori generosamente elargiti come la peculiarità quasi unica di essere sprovvisti di un’imposizione sul capitale ereditato o la caotica normativa delle detrazioni fiscali secondo cui (come scrive Mario Sensini sul «Corriere della Sera» del 22/07/2015) «le cedolari secche sulle locazioni, le erogazioni ai partiti politici e la deducibilità dell’assegno al coniuge, sottolinea l’Ufficio di Bilancio, hanno un effetto negativo sulla redistribuzione».
La prova del nove, comunque, la fornisce la distribuzione del prelievo Irpef: se alla fine degli anni Ottanta le entrate Irpef da lavoro dipendente ammontavano al 40% delle entrate totali derivanti da questa imposta, oggi queste sono arrivate al 60%. Processo inverso per la quota Irpef pagata da lavoro non dipendente, progressivamente ridotta da un indicativo 38% ad un insostenibile 10%.

A questa già difficile situazione si va ad aggiungere il nodo discusso in questi giorni: sotto l’albero di
Il Primo ministro interviene a Rimini
in occasione del meeting annuale di Cl
Natale della legge di Stabilità 2016 pare infatti in dirittura d’arrivo un altro demagogico pacchetto regalo d’iniquità fiscale sotto forma di abolizione definitiva di qualunque tassazione sugli immobili principali, uno dei pochi baluardi d’imposta sufficientemente progressiva, tutto sommato contenuta se paragonata alle nazioni dirimpettaie e ardua da evadere (tralasciando le disfunzioni di un catasto la cui riforma viene testardamente rimandata). Affrontando la sola decurtazione della Tasi (quella pagata su tutte le case con l’eccezione delle abitazioni di lusso) la Cgil aveva condotto una stima (si veda Rita Querzè sul «Corriere della Sera» del 02/08/2015, pag.4) secondo cui

«gli otto milioni di contribuenti delle fasce di reddito più basse risparmieranno 55 euro procapite mentre per il milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà di 827 euro».

L’intervento del premier sul palco del meeting di Comunione e Liberazione è riuscito a sorprendere ancor di più, aggiungendo al profluvio di parole e allo spargimento a piene mani di narrazioni fiabesche un riferimento all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, rendendo ancor più semplice la vita a chi si ritrova in disponibilità di manieri, castelli e ville da sogno.

I fautori dell’intervento non mancano comprensibilmente di addurre nobili motivazioni alla manovra, prima fra tutti l’accusa che la tassazione sulla casa firmata dal governo Monti abbia costituito il colpo di grazia sia per il mercato degli immobili che per il comparto dell’edilizia. Uno studio di recente pubblicazione ad opera di Paolo Surico e Riccardo Trezzi («Consumer Spending and Property Taxes») basato su rilevazioni di Bankitalia dimostra come le difficoltà di ambedue i comparti siano da imputare principalmente al periodo recessivo cominciato nel 2008, come testimoniato peraltro anche dal grafico qui sotto (dal «Corriere della Sera» del 27/07/2015, pag.13).



L’altro cardine per giustificare la scelta renziana (o berlusconiana, ma gli aggettivi sono ormai sinonimi) consiste nel sostenere che prelevare meno tasse significa lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini, i quali di conseguenza li spenderanno contribuendo a far ripartire il motore dell’economia. Lo studio di Surico e Trezzi non lascia trapelare questa convinzione. Anzi, nell’articolo cofirmato da Lucrezia Reichlin e dallo stesso Paolo Surico a presentazione dello studio (sul «Corriere della Sera» del 27/07/2015, pag.13) si afferma:

«Mentre l’imposta sulla prima abitazione ha avuto un effetto fortemente negativo sul consumo di
Nel 2013 l'attuale ministro delle Finanze reputava sbagliato
puntare sul taglio delle imposte immobiliari, da "Il Foglio"
beni durevoli (come ad esempio l’auto) per le famiglie che pagano un mutuo, l’effetto è pressoché nullo sia sul consumo delle famiglie che non hanno debiti- la grande maggioranza- che sul consumo delle famiglie soggette all’Imu sulla seconda abitazione. Per questa ultima categoria è interessante notare che, nonostante l’onere fiscale sulla seconda casa sia mediamente tre volte più alto che l’onere sulla prima, il consumo si rivela insensibile all’imposta, la quale è interamente finanziata dai risparmi. […] Come evidenziato da Surico e Trezzi, l’imposta sull’abitazione ha fortemente cambiato le abitudini di consumo solamente per una piccola parte di proprietari (coloro con mutuo) e come tale eliminarla oppure ridurla per questo gruppo di cittadini avrebbe un effetto di stimolo sui consumi senza ridurre significativamente le entrate dello Stato. Al contrario, eliminarla per tutte le prime abitazioni non stimolerebbe i consumi in modo molto più rilevante di quello 0,11% del Pil stimato da Surico e Trezzi per i proprietari con mutuo ma peserebbe sulle casse dello Stato con una riduzione delle entrate pari allo 0,9% del Pil
».

A ciò si deve aggiungere un altro tassello, probabilmente il più drammatico: per la grande maggioranza dei cittadini non solo l’effetto sui consumi risulta nullo, ma in termini di debito
Stando alle promesse, il taglio d'imposte
sulla casa varrà anche per gli immobili di lusso
 pubblico, di erogazioni statali e di protezioni sociali il rischio di un pesante peggioramento è quasi una certezza. Meno soldi incassati dallo Stato non significano meno sprechi (quelli si è ben restii dal porvi mano) bensì innanzitutto un consistente strangolamento degli spazi pubblici (pensiamo alla scuola, pensiamo alla sanità, pensiamo alle università e alle pensioni) che per ora rappresentano il più delle volte l’ultimo baluardo di servizio garantito a tutti e resistente all’incessante ondata di privatizzazioni. Oppure si passa alla scorciatoia di trovare altre fonti da tassare, o meglio ancora di tagliare consistentemente le elargizioni agli enti locali, con conseguente impennata delle imposte regionali e comunali (più 22% nel solo periodo 2011-2014, secondo la Corte dei Conti) o alienazioni di patrimonio statale.
Gli unici ad ottenere un sicuro guadagno saranno le categorie più abbienti, il cui vantaggio si tradurrà (alla faccia del «trickle-down») in investimenti nell’unico settore che garantisce ampi margini di profitto: quello finanziario. Un aumento delle disuguaglianze le cui ripercussioni non mancheranno di farsi sentire anche nella vita quotidiana. Concludo con un intervento di Luciano Gallino a tal riguardo:

«Succede che, data l’enorme possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via via cresciuta negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che le classi lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più permetterseli, o possono accedervi con molta maggiore fatica.

Si pensi a quella sorta di tassa sulla vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In molte
Fino a qualche tempo fa la corrente renziana
mostrava ostilità verso l'abolizione di tasse
sul patrimonio
città dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli immobili ovvero gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati talmente elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per la vita di una città, che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle loro esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più ricchi. Il punto della questione a cui badare è un altro: il vantaggio fiscale produce direttamente un peggioramento generale della qualità della vita delle classi lavoratrici e delle classi medie
».