domenica 27 settembre 2015

Papi Uniti d'America

Nel 1642 alcune colonie dell’America settentrionale, capofila la Virginia, emanavano una legge che vietava il culto del cattolicesimo, ne perseguitava i sacerdoti e interdiva ai fedeli qualsiasi ruolo nell’amministrazione pubblica; nel momento in cui queste colonie decisero di unirsi e rendersi indipendenti tra le prime azioni ci fu quella d’inserire nel Primo emendamento della Costituzione il divieto di qualsiasi ingerenza religiosa nella pratica politica. Una regola valida per il puritanesimo, la fede più diffusa tra gli statunitensi dell’epoca, ma soprattutto per un cattolicesimo il cui coinvolgimento nelle tremende guerre di religione interne all’Europa aveva suscitato un profondo trauma tra i legislatori del nuovo stato.

Lavoratori del Congresso usano l'effigie "obamizzata" di Papa Francesco
nel corso di una manifestazione a favore del salario minimo
Ciononostante l’ostilità, ricambiata, verso la minoranza cattolica era ben lungi dal trovare un punto di pacificazione, e alla discriminazione spesso sconfinata in colluttazioni violente si andarono ad aggiungere nel corso dei decenni sempre nuove vertenze in cui Santa Sede e Stati Uniti si trovavano su versanti opposti: dalla natura libertaria delle istituzioni d’Oltreoceano (a fine
Ottocento Papa Leone XIII fu persino costretto a rimproverare alcuni prelati americani di troppa condiscendenza verso i valori di libertà e laicità) all’espansionismo territoriale che quasi sempre andava a scalfire l’assetto di nazioni cattoliche (Francia, Messico, Spagna e per poco il Quebec), dal tema della schiavitù al ruolo dei sindacati, dalla guerra civile al conflitto contro la Spagna del 1898 arrivando fino alle divergenze nei riguardi della rivoluzione messicana. Se il rapporto tra vescovi locali e autorità statunitensi conobbe una flebile tregua- vista con sospetto dal Vaticano- nel corso del primo conflitto mondiale, ad armi taciute si riaccese lo scontro la cui vetta più memorabile è rappresentata dagli sforzi dei cattolici di boicottare i tentativi di Roosevelt di trovare un punto di mediazione sulla guerra civile spagnola.
Non ci si sorprenda, dunque, se durante la seconda guerra mondiale vennero divulgati volantini e vignette (la cui eco venne tramandata arrivando perfino alle elezioni presidenziali del 1960) in cui i cattolici americani erano rappresentati come infiltrati destabilizzanti al soldo di una rivale potenza straniera la quale, perfino nel corso della lotta anti-nazista, non mancò di polemizzare con gli Stati Uniti per l’alleanza strategica coi sovietici.
Il dissapore era talmente incancrenito che nemmeno la comune ferocia nella disputa anti-comunista riuscì a compattare le due autorità; anzi, Papa Pio XII non mancava di rimarcare quanto il
materialismo tipico della società statunitense fosse deleterio tanto quanto quello della società russa e uno degli sporadici candidati alla presidenza Usa di fede cattolica fu costretto nel 1960 ad una solenne dichiarazione pubblica in cui giurò che nel caso di elezione non si sarebbe mai piegato ai diktat della Santa Sede. A mantenere intatto il solco arrivarono nel corso del tempo la guerra in Việt Nam, l’Ostpolitik vaticana, il commercio di armi, le guerre del Golfo, l’immigrazione, la pena capitale, l’istruzione e, naturalmente, i temi etici.

«Insomma», conclude Manlio Graziano (docente di Geopolitica delle religioni all’Università Paris IV e all’American Graduate School di Parigi), «gli Stati Uniti e la Santa Sede si sono trovati molto raramente a percorrere la stessa strada; e quando hanno condiviso gli stessi nemici, la lotta contro di essi non perseguiva gli stessi scopi»;

il che è avvenuto fino a pochi anni fa se si considera che ancora nel 1984 i tentativi di accordi diplomatici fra Washington e il Vaticano suscitarono aspre polemiche.

Da "Limes-rivista italiana di geopolitica", n.4/2015
Eppure nel corso degli ultimi anni qualcosa sembra essere cambiato: se per i funerali di Papa Paolo VI nel 1978 la delegazione statunitense era composta unicamente dalla madre del presidente Carter, per quelli di Giovanni Paolo II nel 2005 accorsero il presidente George W. Bush, il padre (nonché ex-presidente) George H.W. Bush, il predecessore Bill Clinton, il segretario di Stato Condoleeza Rice e un prestigioso assortimento di delegati non ufficiali come Edward Kennedy, John Kerry, George Pataki, Micheal Bloomberg, il capo dello staff della Casa Bianca Andrew Card e il leader repubblicano al Senato Bill Frist. Un riconoscimento per il ruolo svolto da Papa Wojtyła nella caduta del regime comunista? Può darsi, ma da solo non riuscirebbe a spiegare la formidabile escalation di cattolici nelle leve di comando degli Stati Uniti che vede nell’amministrazione Obama un apice talmente smaccato da essere ritenuto da molti un unicum destinato a non ripetersi.

Dal "Corriere della Sera"
del 25/09/2015


Il caso più lampante è quello della Corte suprema, ove attualmente sei giudici su nove sono di fede cattolica (non dimentichiamo che nella sua secolare storia solo tredici cattolici sono riusciti ad accedervi, e sei di questi siedono contemporaneamente ai giorni attuali). Ma devoti alle gerarchie vaticane risultano anche ambedue i consiglieri per la Sicurezza interna, il vice-presidente, il capo dello staff della Casa Bianca, fino a qualche giorno fa entrambi i presidenti della Camera dei deputati (il repubblicano John Boehner si è dimesso proprio per l’emozione seguita all’intervento di Papa Francesco al Congresso), il leader democratico della Camera, il direttore dell’Fbi, il vicedirettore dell’Fbi, il direttore della Cia, il comandante dei marines, entrambi i capi di Stato maggiore scelti da Obama, il capo di Stato maggiore dell’Aviazione e il consigliere del periodo 2010-2013 per la Sicurezza nazionale. Cattolici, inoltre, risultano quasi il 40% dei governatori e all’incirca la metà degli aspiranti candidati alla Casa Bianca per la corsa del 2016 (da Jeb Bush a Joe Biden, da Marco Rubio a Andrew Cuomo, da Bobby Jindal a Joe Manchin).
In rapporto con la percentuale di cattolici negli Usa (tra il 25 e il 30%) il ruolo dei cattolici nelle cariche scelte direttamente dal presidente risulta davvero sbalorditivo (cosa che non avviene per i membri cattolici del Congresso i quali, essendo non più del 31%, rispecchiano in maniera accettabile il contesto sociale) al punto tale che è difficile non scorgere una precisa volontà della Casa Bianca di attorniarsi di adepti di questa fede.
Visto che l’autentico nodo del contendere che ha separato Washington dal Vaticano nel corso dei secoli- ossia il timore che l’uno scavalcasse l’altro nel dominio dell'egemonia morale (e di mandato divino) nel pianeta- non è davvero mai stato sciolto, diventa assai intrigante capire i motivi di questa scelta: di certo non il calcolo elettorale visto che i cattolici raramente si sono schierati compattamente per uno schieramento (per quanto bisogna riconoscere che ambedue le convention dei partiti per le elezioni del 2012 furono chiuse dall’intervento dell’arcivescovo di New York Timothy Dolan), forse il desiderio di non inimicarsi un alleato prezioso (anche in vista del suo ruolo diplomatico), forse la preparazione più adeguata dei militanti cattolici, forse la posizione sociale privilegiata che i cattolici hanno mediamente acquisito dal termine della seconda guerra mondiale (all’inizio del Novecento la Santa Sede temeva la presenza di devoti troppo maturi e consapevoli), forse il semplice aumento dei cattolici nel paese (alcuni studiosi arrivano a prevedere una crescita poderosa causata dall’immigrazione sudamericana, per quanto la maggioranza degli immigrati ispanici non si dichiari cattolico) ma forse anche qualcosa di più, che risale a un sentimento più profondo dell’animo americano.



La catastrofe dell’11 settembre e la travolgente crisi del settore creditizio hanno svegliato il popolo statunitense dal sogno di un pianeta ove dominano incontrastati una pace e un ordine assicurati dalla forza politica ed economica degli Usa. L’America nel giro di pochi anni si è scoperta fragile, vulnerabile, agevolmente contrastabile da altre potenze globali e di conseguenza
affamata di solidi punti di riferimento a cui aggrapparsi. La Chiesa in questo senso ha svolto un ruolo letteralmente provvidenziale, avendo dalla sua parte non solo una secolare tradizione, ma anche un’autorevolezza inattaccabile per milioni di fedeli, un saldo radicamento e una compattezza ammirevole (cosa che, ad esempio, gli evangelici non dispongono) che proprio per questo arriva a costituire- specie in periodi di crescenti attacchi ai servizi essenziali- uno dei pochi sistemi di protezione sociale.
Non ci sorprenda, quindi, se dagli inizi degli Settanta ad oggi si è registrata proprio negli Usa una crescita di diaconi permanenti che non conosce eguali (tra il 1995 e il 2005, nonostante tutti gli scandali e le vicissitudini della Santa Sede, il loro numero è raddoppiato) a cui va abbinata la presenza del 12,5% dei sacerdoti presenti nel mondo (a fronte del fatto che negli Usa è presente solo il 7% della popolazione cattolica globale) e un rapporto tra preti e popolazione quadruplo rispetto all’Africa, quasi nove volte superiore a quello asiatico e superiore perfino nel contesto del continente americano.
Non ci si faccia troppo suggestionare, quindi, dai dati pur indicativi sulle crisi delle vocazioni sacerdotali: la fede cattolica in America non vive momenti di crisi, semplicemente la sua base confessionale è divenuta più consapevole e dinamica, al punto che lo stesso Papa Francesco ha dovuto riconoscere che 

«veniamo da una pratica pastorale secolare in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura. […] Ma non siamo più in quell’epoca. È passata. Non siamo nella cristianità, non più. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati» (si veda l’udienza ai partecipanti al Congresso internazionale della pastorale delle grandi città, 27/11/2014).

Da "Limes-rivista italiana di geopolitica", n.4/2015

Forse solo gli Stati Uniti degli ultimi anni paiono andare sorprendentemente in controtendenza, e se un Papa ha varcato per la prima volta la porta del Campidoglio non è da escludere che fra qualche mese un cattolico varcherà le porte della Casa Bianca.

giovedì 24 settembre 2015

Come ti strozzo la partecipazione



Già agli albori degli studi in materia costituzionale si era appurato che 

«la teoria dell’elezione altro non è che la teoria della Costituzione…In uno Stato retto a forma rappresentativa [la legge elettorale, ndr.] ha importanza non minore delle norme fondamentali dello Statuto medesimo» (da G. D. Romagnosi, «La scienza delle Costituzioni», 1848, IV, 1934, pag.90) 

di conseguenza sarebbe illogico oltre che ingiusto condurre un’analisi complessiva sull’attuale riforma della Carta Costituzionale senza osservare la torsione del verdetto democratico messa nero su bianco nel testo dell’Italicum. Di vera e propria torsione si tratta dal momento in cui lo scopo evidente è quello di garantire ad un unico partito la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera a
L'Italicum secondo il "Corriere della Sera" del 12/11/2014
tutto scapito di una volontà dei cittadini resa sempre più ininfluente da dosi massicce di premi di maggioranza, soglie di sbarramento e liste bloccate; giungendo peraltro in tal modo a delle contraddizioni le quali ad un freddo sguardo clinico assumono le sembianze d’inutili congegni dettati solamente dal semplice gusto di comprimere il più possibile la partecipazione pubblica. Pensiamo ad esempio alla compresenza del premio di maggioranza- affibbiato qualunque sia il risultato elettorale- e di soglie di sbarramento per l’accesso in Parlamento: uno strumento, quest’ultimo, totalmente vano anche nella più convinta retorica maggioritaria visto che l’ottenimento di maggioranze stabili (solo sulla carta) è già formalmente garantito dall’applicazione del premio. E difatti nella nazione maggioritaria per eccellenza, il Regno Unito, la Camera dei Comuni vede tra i suoi membri anche parlamentari eletti con poche migliaia di voti senza che nessuno ne accusi le conseguenze destabilizzanti. Parliamo di un Paese, del resto, la cui scelta dell’assetto istituzionale è scaturita dal quadro (finora) irremovibilmente bipartitico del contesto elettorale: detto in soldoni, si è optato per una legge che si confacesse il più possibile al dettame dei cittadini, non si è cercato d’imporre forzosamente un quadro partitico come gli ideatori dell’Italicum confessano candidamente di voler fare (si veda R. D’Alimonte, «Così il sistema di voto porterà al bipartitismo» sul «Sole 24Ore» del 19/04/2015) tramite un testo che ormai viene oramai unanimemente considerato inedito nelle democrazie d’avanguardia (a partire dal nome che gli è stato etichettato, ma si veda anche R. D’Alimonte, «Con il premio alla lista sistema migliore di quello francese» sul «Sole 24Ore» del 31/03/2015 oppure «La lezione inglese» sul «Sole 24Ore» del 09/05/2015) a partire dall’inserimento di un doppio turno di lista che non conosce eguali di alcun tipo e la cui applicazione non è altro che un metodo truffaldino per garantire il premio di maggioranza a formazioni politiche anche dotate d’irrisorio radicamento nell’elettorato- la percentuale di voti risulta infatti distorsiva sia a causa della forzosa presenza nel secondo turno di due sole liste, sia a causa del fondato rischio (visti peraltro i precedenti dei doppi turni amministrativi) di bassa affluenza ai ballottaggi- riuscendo maldestramente nell’intento di circuire la raccomandazione della Consulta (dettata per di più dai più banali rudimenti democratici) secondo cui è inaccettabile una legge elettorale che garantisca molti seggi a seguito di pochi voti.

Il sistema delle soglie di sbarramento dell'Italicum da uno schema estrapolato dal sito della Camera dei Deputati


Per carità, il doppio turno (specie se con premio di maggioranza) in sé è una pratica legittima e perfettamente democratica: peccato solo che questo sistema viene applicato esclusivamente nei casi di cariche monocratiche, con particolare riguardo per i casi di governo del Primo ministro; a suo modo è ciò che avviene anche in Italia nel caso di alcuni sindaci e governatori, con la differenza però che mentre 

«a livello nazionale ci si confronta con una forma di governo parlamentare, a livello locale e regionale la composizione dell’organo consiliare è collegata all’elezione diretta del vertice dell’esecutivo» (da F. Biondi, «Il premio di maggioranza dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014») 

e oltretutto gli organi amministrativi non si trovano al cospetto di responsabilità fondamentali quali il ruolo della magistratura e del Capo dello Stato. Proprio quest’ultimo è l’aspetto più pericoloso del cocktail tra Italicum e depotenziamento del Senato in quanto suscita il fondato rischio di mettere nelle mani del solo Presidente del Consiglio- peraltro non eletto e appoggiato da una maggioranza non corrispondente alla volontà popolare- la scelta del Presidente della Repubblica (a sua volta elettore di un terzo della Consulta), di tre membri della Corte Costituzionale, delle Autorità indipendenti, del Presidente della Camera, di un terzo dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura e (in caso di controllo di un terzo del Senato riformato) nientemeno che della possibilità di riformare la Costituzione a propria indiscussa discrezione. Uno sconcertante «modello italiano di governo» (per usare le parole di R. D’Alimonte, da «Con il premio alla lista governi più coesi» sul «Sole 24Ore» del 28/01/2015) che a detta dei suoi stessi aedi provoca l’introduzione di fatto del premierato fondato sull’investitura plebiscitaria del Primo ministro (da T.E. Frosini, «Rappresentanza+Governabilità=Italicum», audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera sulla legge elettorale, 15/04/2015, in www.confronticostituzionali.eu, 12/05/2015).

Il doppio turno dell'Italicum, dal sito della Camera dei Deputati


Ovviamente, a tutto ciò si aggiunge la celeberrima (ma forse sopravvalutata) ciliegina sulla torta costituita dall’impossibilità da parte del cittadino di scegliere (ma anche di conoscere, vista la possibilità di pluricandidature) i parlamentari, specie per quanto concerne gli elettori delle liste escluse dal premio di maggioranza. Una situazione ove non solo si garantisce al segretario un ulteriore potere incontrollato sulla composizione delle Camere, ma in palese contrasto con il dettame costituzionale che prescriverebbe un voto libero (cosa che non avviene in caso di scarso consenso verso il capolista bloccato) ed eguale (condizione non prevista né tra gli elettori visto che quelli che non esprimono preferenze o optano per il capolista sono più avvantaggiati, né tra i candidati visto che il capolista assume un ruolo privilegiato).

Riassunto dell'Italicum, dal "Corriere della Sera" del 05/05/2015


I sistemi istituzionali possono dare una mano, ma da soli non sono determinanti né se s’intende favorire la partecipazione (ma lo scopo delle riforme in atto è l’esatto opposto), né se si vuole garantire maggiore longevità ai governi. Nell’ottenimento dell’uno e dell’altro il discorso va invece focalizzato sulle strutture di partecipazione e coordinamento delle istanze dei cittadini, a partire dal ruolo e dalla funzione dei partiti politici. Come si spiega, ad esempio, che nazioni come Spagna e Germania riescono ad avere esecutivi stabili pur disponendo di una legge elettorale tipicamente proporzionale mentre le Camere elette con l’abnorme premio del Porcellum si sono distinte per frammentarietà? (si veda «Rappresentare e governare», di O. Massari e G. Pasquino, ed.1994). E come si spiega egualmente che nella Prima Repubblica dominata dal proporzionale sussistevano non più di sette partiti mentre nella Seconda Repubblica (in cui furono incamminati alcuni passi verso il maggioritario) per contare il numero delle formazioni politiche si rischia l’emicrania?
Già in sede costituente questo dibattito era affiorato, peraltro consentendo a personaggi (democristiani e sensibili al tema della governabilità) come Costantino Mortati di esprimersi affermando quanto sia 

«inutile affannarsi a creare congegni tecnici per ottenere maggiore stabilità di governo, se prima non si tengono presenti gli elementi politico-sociali che sono necessari per dare a questa stabilità una effettiva realizzazione». 

Concetto ribadito dal comunista Giorgio Amendola

«Noi non abbiamo bisogno di questi congegni in Italia perché i partiti garantiscono al di sopra di tutto. Se c’è la necessaria volontà politica la maggioranza è forte; senza la necessaria volontà politica la maggioranza è inevitabilmente debole. E la necessaria volontà politica dipende dai partiti. Sono i partiti perciò la garanzia e nessun congegno costituzionale ne può sostituire il ruolo essenziale».

Solo acquisendo questa logica si comprendono quelli che a primo acchito appaiono gli straordinari poteri di cui gode il Primo ministro inglese, in realtà perennemente a rischio di sfiducia da
Il padre costituente Giorgio Amendola
parte del proprio partito
(è la sorte a cui sono andati incontro anche premier proverbialmente decisionisti come Blair e la Thatcher). In Italia siede soprattutto nella deformazione autoritaria e personalistica delle formazioni politiche la ferita più sanguinante della tenuta democratica, un modello che ben lungi dall’essere accantonato inaugurando nuovi spazi che favoriscano la partecipazione a discapito della delega s’intende trasferirlo in toto persino nei più nevralgici organi di garanzia costituzionale dando luogo ad artificiose «maggioranze senza popolo» (da G. Azzariti, «Dopo la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale. “Blowin’ in the wind”», pubblicato su costituzionalismo.it il 10/12/2013).
Nell’attesa di una riforma interna dei partiti- o della nascita di nuovi aggregati- avente come protagonista l’autentico coinvolgimento democratico, sarebbe possibile già da ora attuare qualche dispositivo che, all’apparenza ininfluente, potrebbe confluire verso questa direzione: si potrebbe aprire ai cittadini il tribunale costituzionale (come avviene in Spagna e in Germania; si veda M. Ainis sul «Corriere della Sera» dell’11/03/2015), oppure legare il numero e le competenze del Parlamento all’affluenza al voto (un’ipotesi non così assurda: nell’Austria degli anni Settanta e nella Germania pre-hitleriana si guadagnava un seggio ogni 60mila voti validi, si veda M. Ainis sul «Corriere della Sera» del 18/06/2015), oppure rafforzare la pratica referendaria. Quello degli spazi democratici è il bisogno più impellente per qualsiasi democrazia.

Altro riepilogo dell'Italicum, dal "Corriere della Sera" del 14/09/2015

martedì 22 settembre 2015

Il dovere dell'intransigenza verso i nuovi assetti istituzionali

È comprensibile che la fronda di dissidenza interna al Pd intenzionata a restare ostinatamente dentro il partito non possa scontrarsi frontalmente col proprio segretario su un tema di assoluta delicatezza- peraltro destinato ad una consultazione referendaria- come la riforma radicale degli assetti istituzionali. Salvo colpi di scena l’intesa verrà raggiunta, e la minoranza dem bene che vada riuscirà solo a rendere vagamente più presentabile quello che si va configurando come un obbrobrioso e caotico assalto agli organi preposti al controllo del potere esecutivo. Da quest’ottica si riescono quindi a capire affermazioni come quelle dell’autorevole bersaniano Miguel Gotor secondo cui
Il senatore Miguel Gotor, autorevole
punto di riferimento dei senatori bersaniani
l’accordo si rende indispensabile «per sconfiggere i veri sabotatori della riforma: Calderoli e Forza Italia che chiede la riforma dell’Italicum che è acquisito» (da Dino Martirano sul «Corriere della Sera» del 09/09/2015, pag.12). Di acquisito, in verità, in questa importante partita si spera ci sia ben poco, sia nel merito che nel metodo.
Nel metodo non solo per le inaudite ingerenze del governo (e del precedente inquilino del Quirinale) sulla regolare discussione parlamentare, ma anche per l’attuale conformazione di Camere scaturite da una legge elettorale che la Corte Costituzionale non ha esitato a definire foriera di 

«un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente» nonché lesiva della «libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare». 

Sebbene sia corretto infatti asserire che a livello strettamente giuridico le Camere «sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare» (Sent n.1/2014, punto 7 del Cons. dir.), non si può dimenticare il fatto che in particolari contesti di natura politica, ad esempio nel periodo che intercorre tra lo scioglimento del Parlamento e il suo rinnovo, le Camere vengono depotenziate dei poteri che travalichino l’«ordinaria amministrazione». Un’ammirevole premura che probabilmente avrebbe
La facciata della sede della Corte Costituzionale
indotto qualsiasi Capo dello Stato a interpretare la rivoluzionaria sentenza della Consulta come una delegittimazione talmente grave del Parlamento da meritarne l’immediato scioglimento (si vedano a tal proposito G. Scaccia, «Riflessi ordinamentali dell’annullamento della legge n. 270 del 2005 e riforma della legge elettorale», in forumcostituzionale.it, n. 1/2014; oppure A. Pace, «La legittimità del Parlamento» su «La Repubblica» del 10/12/2013; M. Villone, «Legge elettorale. I paletti della Corte segnano la strada» pubblicato su costituzionalismo.it il 16/12/2013; G. Azzariti, «Dopo la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale. “Blowin’ in the wind”» pubblicato su costituzionalismo.it il 10/12/2013; M. Villone, «Italicum, al danno di oggi si aggiunge quello futuro», da «il manifesto» del 05/05/2015). 

Se per motivi contradditori si è scelto invece di lasciare inalterate le funzioni parlamentari, appare quasi provocatoria la volontà d’imporre a questo stesso Parlamento l’approvazione di una riforma destinata ad alterare 47 articoli (circa un terzo) della Carta fondamentale dello Stato, peraltro in un contesto in cui il governo non esita, per usare le parole del senatore Mario Mauro, a «condire i ricatti con molte offerte» ai singoli esponenti della Camera Alta pur di raggranellare una striminzita maggioranza necessaria per il via libera alla riforma (si veda M. Guerzoni sul «Corriere della Sera» del 10/09/2015, pag.13).
Riforma destinata probabilmente a rimanere negli annali come il perfetto compimento di un processo politico che da anni avvolge il dibattito pubblico (come ammise peraltro uno dei maggiori tutori tecnici del testo: «Il nuovo sistema elettorale [abbinato a quello costituzionale, ndr.] si colloca nell’alveo dei sistemi che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica», R. D’Alimonte, sul «Sole 24Ore» del 21/01/2014; indicativa anche l’esclamazione del senatore Calderoli di fronte alla proposta di legge elettorale: «Questa legge sembra la mia», dal «Corriere della Sera» del 21/01/2014) con un ossessivo mantra che vede negli spazi di partecipazione democratica la causa dell’instabilità e della millantata inconcludenza dei governi italiani rifiutando per motivi elettoralistici e di dottrina economica (le vicende greche dei mesi scorsi hanno dimostrato con rara lucidità l’incompatibilità tra partecipazione popolare e concentrazione della ricchezza) di constatare come sia al contrario la carenza di strutture organizzative- in primis i partiti- idonee alla rappresentanza e al confronto coi cittadini a rendere le rappresentanze parlamentari succubi di pulsioni disgregatrici e facili prede del canto delle sirene lobbistiche e corporative. Il potere esecutivo- trovandosi tra le mani e usufruendone in maniera straordinaria strumenti quali decretazioni d’urgenza, votazioni di fiducia, maxi emendamenti e leggi delega- non va quindi interpretato, al contrario di come si vorrebbe far credere, una carica troppo debole e di conseguenza meritevole di un potere egemonico e antidemocratico su praticamente tutti gli organi di garanzia: è al contrario il mancato raccordo (o un raccordo anomalo, come avveniva nei primi decenni della Repubblica) tra le istanze di cittadini organizzati e le forze politiche di riferimento a rappresentare la causa di un sistema istituzionale considerato quasi unanimemente immaturo.

La crisi dei partiti (qui riferito al Pd romano) in un grafico pubblicato sul "Corriere della Sera" del 20/06/2015


In tale contesto è indubbio che il bicameralismo paritario- struttura de facto assente in tutte le attuali democrazie- alimenti le intollerabili propensioni dell’attuale sistema parlamentare, ed è altrettanto vero che i padri costituenti (specie quelli di formazione comunista, giustamente convinti che tale assetto sia stato redatto dalla Dc per frenare ogni possibilità di governo autenticamente riformista) se ne siano resi conto già a tempo debito. Basti pensare a Massimo Severo Giannini, il quale già nell’aprile del 1946 propose al proprio partito- il Psi- di adottare la linea del monocameralismo giustificandola con l’osservazione che 

«in tutti i casi in cui la seconda camera non è stata rappresentativa di determinati gruppi o interessi politici essa ha fatto fallimento…D’altra parte, la funzione moderatrice che alcuni attribuiscono alla seconda camera, nella maggioranza dei casi, risponde più ad una affermazione che a una realtà; anzi, molto spesso è una deformazione ottica», 

o addirittura a Piero Calamandrei che nella stessa sede dell’Assemblea costituente fu costretto ad ammettere nel marzo 1947 che «di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto della Costituzione non c’è quasi nulla» arrivando fino a figure del calibro di Mortati (democristiano) e Perassi (azionista) ben consapevoli che foraggiare la debolezza degli esecutivi avrebbe comportato pesanti rischi per la tenuta dell’assetto democratico (si veda, pur arrivando a conclusioni discutibili, S. Cassese sul «Corriere della Sera» del 04/07/2015).

Il momento della firma della Costituzione


Nessuno, però, arrivò ad auspicare un governo onnipotente totalmente privo di legittimazione popolare come si va delineando nell’inaccettabile combinato tra nuova legge elettorale (cosiddetto Italicum) e riforma costituzionale seguendo quello che è stato sagacemente riassunto come l’«idolatria della governabilità, della stabilità, della personalizzazione del potere, tutto ad un uomo solo» (da G. Ferrara, «In un Paese civile», in «Nomos, 3/2013»). Nemmeno nelle altre nazioni democratiche, ove infatti non esiste nessun caso in cui viene conferito un premio di maggioranza del 54% dei seggi della Camera- peraltro di un Parlamento reso di fatto monocamerale dall’ininfluenza di un Senato ridotto a bivacco di consiglieri regionali forse nemmeno eletti- ad una singola forza politica priva del sostegno della maggioranza assoluta degli elettori (si veda G. Sartori, «Io idealista? Tu fuori dai modelli dell’Occidente», dal «Sole 24Ore» del 31/01/2014). A livello generale, il concetto stesso di premio di maggioranza viene attualmente adottato solo a Malta, in Argentina, nella Repubblica di San Marino e in Grecia, ma in quest’ultimo caso il
Il meccanismo del premio di maggioranza dell'Italicum spiegato
sul sito della Camera dei Deputati
confronto con l’Italicum risulta fuorviante se si considera che per accedervi è comunque necessario ottenere 50 seggi su 300 (mentre nella legge elettorale approvata quest’anno il premio scatta sempre, si tratti del primo o del secondo turno); così come fuorviante risulta l’unico precedente di legge elettorale legittima approvata in Italia nel corso del periodo democratico; quella celebre «legge truffa» di cui l’ispiratore, Alcide De Gasperi, sentì comunque il dovere di consolare la Camera affermando che «questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia» (e infatti per accedere al premio era necessario il 50%+1 dei voti).
Taluni obietteranno (come molti giornalisti, tra i quali F. Clementi su «l’Unità» del 23/01/2014) che nei casi di Francia e Inghilterra avviene egualmente un’analoga distorsione del voto popolare, dimostrando in tal modo di non conoscere la base maggioritaria (ben diversa da quella proporzionale dell’Italicum) di questi paesi, la quale non solo permette una concreta vicinanza tra l’elettore e il rappresentante del collegio, ma al contempo non garantisce sempre e comunque vincitori certi (il Regno Unito tra il 2011 e il 2015 è stato governato da una coalizione)- il tutto tralasciando la progressiva insofferenza verso questi sistemi che va serpeggiando dopo l’insorgenza dei partiti antisistema.

(continua)

martedì 15 settembre 2015

Esposizione all'ombra



Poco ambite, marginali, costose e inutili: nonostante le Esposizioni Universali da qualche anno a questa parte si caratterizzino principalmente per questo, vi è ancora qualcuno che facendo rimbombare una retorica facilmente smontabile nutre ancora un morboso interesse per la sua realizzazione. Non è bastata, a quanto pare, la catastrofica esperienza della Grecia agli albori del nuovo millennio, quando la ferma volontà di realizzare una sontuosa Olimpiade- evento peraltro molto più determinante rispetto alle Expo- contribuì in misura non trascurabile allo sfacelo dei bilanci pubblici. Così come non è bastata l’esperienza per molti versi simile capitata alle Olimpiadi invernali svolte a Torino nel 2006 (debito pubblico e siti rimasti inutilizzati); anzi, quasi ad aggiungere la beffa al danno gli aedi dell’evento milanese prendono esplicitamente il precedente torinese come esempio da emulare per quanto concerne l’indotto turistico- l’unico iper-enfatizzato introito dell’evento secondo cui un quarto degli italiani si recherà ad Expo- dimenticando incidentalmente che, ben lungi dal rilanciare il settore, gli arrivi e le presenze registrate a Torino nel periodo 2007-2008 (appena dopo l’Olimpiade) furono persino inferiori a quelle del biennio 2004-2005 (periodo antecedente l’evento). Analisi confermata se andiamo a guardare la situazione complessiva della Regione Piemonte: rispetto al 2005 l’andamento del flusso turistico risulta calato nei mesi successivi all’Olimpiade; dato peraltro in controtendenza rispetto all’analisi dell’intero contesto nazionale (si veda R. Perotti, «Perché l’Expo è un grande errore», lavoce.info, maggio 2014).




Né ci si può aspettare grande conforto dal turismo congressuale se constatiamo l’inutilità a cui nel mondo (ma soprattutto negli Stati Uniti) vanno incontro queste enormi strutture a causa dell’avvento del web. Né ci si può scordare la constatazione che gli introiti derivati dall’Expo non è detto siano aggiuntivi ma semplicemente sostitutivi (magari se non ci fosse stato l’Expo alcune famiglie si sarebbero fatte un giro in barca, giusto a titolo d’esempio).
Maurizio Martina, il "Ministro dell'Expo"
Indicativa in tal senso l’inusuale cautela del ministro per le Politiche Agricole (de facto il ministro di Expo) Maurizio Martina il quale ha preferito schivare precise considerazioni sui costi affermando che il calcolo definitivo «si farà alla fine», quando solo allora potremo aver chiara l’entità «economico-finanziaria» scaturita dall’evento. Forse il ministro ha ancora le idee confuse, ma i veri protagonisti dell’Expo un’idea più precisa se la sono fatta, tant’è vero che i bandi per le gare del dopo-Expo sono andati deserti, così come semi-deserte appaiono le molteplici corse speciali che Trenord ha dirottato- sottraendo preziose opportunità per i pendolari- in direzione Rho-Fiera e financo il groviglio di autostrade erette per l’occasione (o con la scusa dell’occasione): sulla BreBeMi e sulla Pedemontana persino benzinai e autogrill ritengono poco redditizio investire.

Eppure anche in Expo l’impoverimento della gran massa dei cittadini per finanziare i dieci miliardi dell’evento- mi riferisco all’indebitamento pubblico, al drenaggio delle politiche urbane, all’aumento del carico fiscale, alla progressiva svendita sia dei servizi essenziali che perfino del patrimonio culturale- è pienamente compensato dall’avanzata dei tentacoli di una speculazione finanziaria immobiliare che nelle economie più sviluppate vede nella realizzazione di grandi
infrastrutture uno dei settori che garantisce maggior sicurezza di profitto, un concetto suggellato a livello europeo- in nome della spietata competizione globale nell’accaparramento dei grandi
capitali- fin dalla redazione del Piano Delors ventidue anni orsono ove i presunti vantaggi dal punto di vista occupazionale sono solo millantati visto che da un lato le piccole opere utili (tutela del patrimonio demaniale, manutenzione della rete idrica, rivitalizzazione delle periferie e via discorrendo) sarebbero indubbiamente più soddisfacenti da questo punto di vista e dall’altro i lavori di bassa manovalanza (gli unici realmente assicurati dalle grandi opere a causa del pesante investimento tecnologico che questi progetti richiedono) sono spesso condizionati da trattamenti lavorativi inaccettabili e ingerenze criminali.


Expo sta lì a dimostrarlo, ancora una volta: rispetto agli inizialmente previsti 70mila posti di lavoro e alle innumerevoli promesse sulla riqualificazione urbana di Milano (navigli navigabili, nuove linee
La mobilitazione contro il lavoro gratuito
dentro l'Expo
metropolitane e gli orti globali, ad esempio) la realtà conduce ad una sequela di periferiche colate di cemento ove le uniche opportunità occupazionali sono garantite da 18.500 lavoratori non retribuiti (cosiddetti «volontari»), 195 stagisti e i vari contrattisti, apprendisti e lavoratori (alcuni pescati dalle liste speciali di mobilità) destinati ad un rapido usa-e-getta in vista della conclusione dell’evento; tutti accomunati dal trattamento sancito da vari accordi fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil fra cui quello del 10 gennaio 2014 destinati fra le altre cose ad annullare la possibilità dei lavoratori di essere rappresentati da organizzazioni sindacali non firmatarie dell’accordo nonché ad affidare le richieste delle maestranze dell’evento ad un unico Osservatorio paritetico («Sulla base dell’intesa raggiunta a Milano si può pensare a un modello nazionale», affermò a tal proposito l’ex-premier Enrico Letta; capito la portata della cosa?).
La logica dell’ingorda speculazione è visibile persino allo sguardo più sfuggente, in questo luna park scaraventato a chilometri dal circuito cittadino: come può un evento imbottito di retorica sulla nutrizione aver sacrificato per questo scopo decine di ettari di terreno fertile ove, qui si rasenta il grottesco, dall’egemonia cementizia talvolta sbuca fuori un’agghindata rotonda del traffico esaltata per la sensibilità ecologica di questa scelta? E a pochi metri dal «Cardo» (36 metri di asfalto in larghezza e 80mila metri quadrati di tensostruttura) ecco apparire nientemeno che una collina artificiale adibita all’osservazione di una- tipicamente milanese- vegetazione mediterranea.

«Addirittura la deviazione e il ridisegno della rete delle canalizzazioni è stata realizzata secondo logiche di cementificazione lontane dalle ricerche ormai consolidate dell’ingegneria naturalistica», afferma sagacemente Guido Montanari, docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino (si veda l’intervento di G. Montanari nel convegno «Expo 2015, il cibo che affama» svolto a Torino il 26/04/2015). 

Il Padiglione Zero presenta l'Expo ai visitatori


La logica, l’unica che possa giustificare questo scempio, risiede in un consueto meccanismo ben rappresentato dall’ennesima cooperativa rossa, la Cmc di Ravenna, la quale dopo aver vinto la gara offrendo un ribasso della base d’asta del 42,8% per lavori preliminari concernenti la pulizia dei terreni del sito ed aver assicurato di completare i lavori entro il 5 novembre 2013, attualmente ha spostato la data di conclusione dei lavori al 28 settembre 2015 (quasi alla chiusura dell’evento) costringendo le casse pubbliche ad un’incessante esborso di soldi, arrivato a 127 milioni a seguito della scusa di 302 varianti ottenute da Expo Spa. per lavori imprevisti (a livello generale «le richieste sono molto, molto più alte dei preventivi» ha dovuto concludere amaramente il magistrato Raffaele Cantone).

Precarietà, cemento e disuguaglianza necessitano però di un accattivante narrazione per essere non solo accettate supinamente ma esaltate attivamente dai cittadini: ecco dunque il contenuto dell’evento, un contesto in cui 

«come furono a Torino le Olimpiadi e oggi i lavori per il Tav, Expo si impone come un modello per
appiattire culturalmente, per creare un abbaglio fatto di schermi luminosi, di tecnologia, di un futuro roseo che nella realtà dei fatti ci viene negato, in questo è un’operazione di marketing molto ben riuscita, si nasconde dietro la retorica della sostenibilità, del diritto al cibo per tutte e tutti, della difesa di un cibo buono e sano, quando invece sponsor e partner commerciali sono oltre 70 multinazionali come Nestlè, Coca Cola, DuPont, Monsanto, McDonalds.
Ci dicono che Expo rappresenti una opportunità, lo è sicuramente per le multinazionali e per quei paesi forti che possono sfruttare l’occasione di un megafono e portare avanti le proprie istanze in nome di una idea di sostenibilità. Ma i padiglioni da chi sono sponsorizzati? Perché i paesi ricchi e potenti hanno a disposizione spazio per portare avanti la loro idea di “food”? Chi invece non ha le disponibilità economiche si deve accontentare di piccoli stand nei padiglioni tematici.
Vengono così riproposte le logiche di potere, le spese per cui Israele sarà ben rappresentato, ben visibile, supportato dalla multinazionale del bio-tech» (dall’intervento di C. Marocco nel convegno «Expo 2015, il cibo che affama» svolto a Torino il 26/04/2015).

Dentro una patina di spettacolare entusiasmo l’acqua diventa un privilegio generosamente concesso dalla San Pellegrino, gli organismi geneticamente modificati l’unica opportunità per un’agricoltura più rispettosa, la qualità del cibo (questo il ruolo di Slow Food e Eataly) disponibile solo per le tasche più capienti, si perde la consapevolezza di essere cittadini per trasformarsi (dietro pagamento del biglietto d’ingresso) in «protagonisti» di Expo, un luogo ove la condivisione lascia il posto nel «supermercato del futuro» made in Coop alla nozione di «consumatore integrato» all’avanguardia tecnologica con tanto di droni che consegnano a domicilio un sacchetto della spesa ricco di  un cibo ridotto ad una qualsiasi merce di scambio frutto di una concentrata e incontrastabile logica industriale, globalizzata, intensiva, monoculturale e tecnologica già da ora ampiamente dominante nel settore agricolo con un occhio di riguardo perennemente rivolto all’esportazione (l’unico modo per guadagnare comprimendo il mercato interno a suon di decurtazioni di salari). Il dramma della denutrizione, del resto, è imputato esclusivamente al consumatore finale.

L'albero della vita simbolo dell'evento


E se uno di questi si mostra alquanto scettico nei confronti di questa narrazione ecco giungere l’«Expo dei popoli», l’opposizione cucita su misura degli interessi dei potentati globali, la cui stessa partecipazione all’evento dimostra la propria riluttanza ad un’autentica opposizione agli assetti neoliberali. Assetti di cui lo storytelling sul nutrimento rappresenta il versante più accattivante per un contesto sociale di cui la progressiva perdita di potere d’acquisto rende comunque la spesa alimentare qualcosa d’irrinunciabile.

«In ultimo», prosegue Cecilia Marocco, «Expo è una vetrina: quando i riflettori internazionali erano ancora spenti a gennaio ha sponsorizzato un convegno omofobo dal titolo “Difendere la famiglia per difendere la comunità”, poi, dato che l’indotto annuo del turismo gay ammonta a 2,7 milioni di euro e non volendo perdere questa opportunità, Expo si tinge arcobaleno per accogliere i turisti
Il logo di "Women for Expo"
omosessuali (rigorosamente bianchi, ricchi e maschi). Si vuole normare anche l’ambito Glbtq, nel tentativo di cancellare le sfumature che compongono la società, e che non troveranno posto in questa vetrina. Anche questa è una prospettiva patriarcale e conservatrice, pertanto non stupisce che esista “Women for Expo”, per mettere in mostra il ruolo della donna all’interno della famiglia: come moglie e madre relegandola ad un ruolo di genitrice possibilmente dedicata ad accudire il focolare domestico. Peccato che il Jobs Act e i provvedimenti sul lavoro che il Governo vara non facciano altro che accelerare la flessibilità lavorativa togliendo ogni garanzia, soprattutto a quelle donne che vorrebbero costruirsi un futuro
». 


Anzi, affermazioni come quelle della testimonial Alessandra Sensini secondo cui «lasciatemelo dire, le donne sono le migliori in assoluto in quanto a testardaggine e spirito di abnegazione» non fanno altro che offrire una legittimazione alla minor tutela dell’occupazione femminile.

E quando verrà calata la saracinesca sull’evento, il consiglio d’amministrazione di Arexpo (la società che si occupa dell’area) si è già premurata di dare il nulla osta per progetti legati al mondo sportivo di cui gira voce su un possibile stadio di calcio per la squadra del Milan. Il modo migliore per iniziare l’ennesimo giro di giostra di cemento, speculazione, corruzione e sfruttamento. Magari nel nome di Berlusconi.

mercoledì 9 settembre 2015

Quale «guerra di religione»? L'Isis è una questione politica (che fa comodo a molti)

Noi occidentali non abbiamo capito nulla del fenomeno Isis: presi come siamo da un’inossidabile smania egocentrica, fatichiamo molto a comprendere che il Dāʽiš (questo il vero acronimo arabo) non è un potente esercito di bigotti finalizzato alla distruzione del mondo giudaico-cristiano, come i sagaci propagandisti in completo nero ci fanno credere. Si tratta più semplicemente di un fenomeno a cavallo tra business criminale e desideri egemonici sul dār al-islām sapientemente manovrati
ove il contributo e il sostegno degli «infedeli» non solo vengono tollerati ma argutamente alimentati. A partire dalle organizzazioni mafiose coinvolte nei vari traffici illeciti- droga, reperti artistici e non ultimo il succulento business dei migranti- visto che anche alle latitudini più imprevedibili quella degli affari è una mentalità ben collaudata. Ma anche potenti istituzioni nazionali a cui la presenza di un Califfato nel decisivo territorio del «Siraq» può portare giovamento, compresi gli «infedeli» per eccellenza: quegli Stati Uniti desiderosi di creare un equilibrio nell’intricato mondo mediorientale in modo da poter concentrare tutte le proprie energie sul ben più decisivo terreno di gioco cinese (tanto più se si considera la sempre meno rilevante questione petrolifera da parte di un paese a cui le estrazioni d‘idrocarburi da scisti consegneranno di qui a pochi anni un importante peso energetico).

Dal momento in cui il sogno dell’egemonia nel mondo islamico dei Fratelli Musulmani (una strana forma di conciliazione tra religione e democrazia) è stato definitivamente archiviato dal colpo di stato consumato in Egitto nell’estate 2013 ad opera soprattutto dei sauditi, il principale obiettivo dell’amministrazione statunitense nell’area sta nel dar vita ad un equilibrio in cui l’eguale peso strategico di Egitto, Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran possa garantire una relativa
Il presidente iraniano Hasan Rohani
tranquillità e di conseguenza un’ingerenza degli Usa nell’area che si limiti a garante di ultima istanza
(una teoria sostenuta peraltro in «World Order», l’ultima opera di H.A. Kissinger, London 2014, Allen Lane, pagg.371-374). Solo tenendo a mente questo obiettivo si riesce a comprendere la reale natura del tanto storico quanto ambito accordo sul nucleare iraniano: da un lato la Repubblica sciita viene ripulita dall’immagine di pericoloso fattore destabilizzante ottenendo quindi lo status di potenza autorevole, e dall’altro l’eliminazione delle sanzioni garantisce all’Iran la concreta possibilità di giocare un ruolo determinante nei mercati internazionali.
In questo contesto lo spaventoso conflitto in Siria svolge un ruolo fondamentale in quanto colpire il regime sciita di Baššār al-Asad significa colpire il suo solido alleato iraniano (anch’esso sciita), il quale tramite la bocca dell’ex-presidente Rafsanjani ha già fatto capire un paio d’anni fa quanto la partita di Damasco sia fondamentale per la Repubblica di Teheran: 

«Dobbiamo possedere la Siria. Se la catena dal Libano [gli Ḥizbullāh fanno parte dell’orbita iraniana, ndr.] all’Iran sarà tagliata, accadranno cose pessime» (da K. Sadjapour e B. Ben Talebou, «Iran in the Middle East: Leveraging Chaos», da «Fride», 27/05/2015).

La caparbia riluttanza delle nazioni del Medio Oriente a concedere una propria fetta di potere in favore dell’Iran sta alla base di praticamente tutte le ultime turbolenze del mondo islamico: la rivolta israeliana contro gli accordi sul nucleare, l’attacco d’Israele contro il filo-iraniano (ma di fede sunnita) Ḥamās proprio in coincidenza coi più importanti colloqui tra Usa e Iran, l’alleanza tra al-Qāʽida e il Dāʽiš, la sintonia in funzione anti-iraniana tra Israele e Arabia Saudita (mezzi dell’esercito israeliano sono persino arrivati a supportare attivamente le operazioni saudite in Yemen- si veda M. Thunderbolt, «Israel Joins Saudi Coalition against Yemen…Uninvited», da «The Daily Israel» del 12/04/2015), persino il disgelo malvisto da Gerusalemme tra sostenitori e contrari della Fratellanza Musulmana è dovuto al convincimento di giocare il tutto e per tutto pur di evitare una rivitalizzazione di Teheran che insidi la propria egemonia sull’area

Da "Limes-rivista italiana di geopolitica", n.03/2015


Ma è la Siria il territorio dove lo scontro di potere anti-iraniano traspare con maggiore chiarezza, un campo di battaglia in cui il sostegno larvato o palese all’opposizione anti-Asad oramai rappresentata largamente dal Dāʽiš viene foraggiata da tutti gli attori mediorientali anti-Teheran,
unendo peraltro vari piccioni con una sola fava: l’Arabia può fare in modo che i soggetti più riottosi trovino la loro valvola di sfogo nel Califfato piuttosto che insidiare l’assetto di potere della dinastia Saʽūd, mentre Israele può non solo realizzare il sogno di Ben Gurion di trovarsi come vicini di casa nazioni deboli ma anche incrementare nell’opinione pubblica le pulsioni islamofobe, quindi anti-palestinesi (è un caso, del resto, che nella prolifica pubblicistica del Dāʽiš non comparino mai attacchi diretti a Israele?). In fin dei conti, di «crescenti interazioni» tra Israele e i gruppi jihadisti siriani era arrivato a parlare perfino il «Telegraph», mentre nel dicembre 2014 un rapporto Undof aveva stimato che nella primavera del 2014 si erano svolti 59 contatti diretti tra soldati di Gerusalemme e gruppi armati del Golan siriano ove il mancato intervento di fronte all’avanzata di al-Nuṣra (affiliato di al-Qāʽida) sui confini israeliani ne rappresenta la prova più schiacciante (il comandante israeliano Aviv Oreg era arrivato a dichiarare al «Sunday Times» che «al-Nuṣra non è affatto l’Is», affermazione indicativa anche se non necessariamente sincera). Risulta quasi sfacciata la convenienza d’Israele di fronte all’avanzata del jihadismo se prestiamo attenzione a quanto afferma Naftali Bennett, leader dell’estrema destra in Israele: 

«L’ascesa dello Stato Islamico e di altri gruppi estremisti in Iraq, Siria e Libano ha reso più evidenti i rischi. Israele non si può permettere scommesse riguardo alla propria sicurezza. Non ci sono seconde possibilità nell’instabile Medio Oriente. Per questo, Israele non si può ritirare ancora da altri territori e non può permettere la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania».

Stante questa situazione, l’interesse degli Stati Uniti è da un lato quello di evitare un conflitto occidentale contro Asad che rischierebbe di compromettere drasticamente i rapporti con l’Iran
(si spiega anche così il mancato intervento degli Usa nel 2013 di fronte al sospetto d’impiego di armi chimiche da parte del regime siriano), ma al contempo si cerca d’impedire che una vittoria di Asad squilibri lo scenario mediorientale a favore di Teheran. Insomma, una Siria con Asad sconfitto rafforzerebbe troppo la coalizione anti-iraniana mentre una Siria con Asad vincitore rafforzerebbe troppo l’Iran.

L’equilibrio del Medio Oriente, tirando le somme, passa anche per una destabilizzazione insolubile di Damasco, e per mantenere la Siria nel caos il Dāʽiš rappresenta un attore indispensabile, la cui sola presenza peraltro impedisce un completo tracollo del regime siriano (oltre, perché no, a garantire nuova linfa vitale ad una forza armata curda sfruttabile in vista di un rafforzamento turco). Anche una nutrita presenza del Dāʽiš in Libia potrebbe tornare utile per smorzare le mire egemoniche di un Egitto che starebbe puntando gli occhi persino su paesi come Marocco e Tunisia.
Alla luce di tutto ciò si riesce a spiegare il fatto che già nel 2012 la Defense Intelligence Agency (Dia) scriveva in un documento quanto fosse importante l’insorgenza di un fenomeno simile (si veda «2012 Defense Intelligence Agency document: West will facilitate rise of Islamic State “in order to isolate the Syrian regime”», DIA Report, 14-L-0552/DIA/287, 12/08/2012; pubblicato online sul sito Levant Report); ma con questo ragionamento si spiegano altresì altri comportamenti sospetti: la pigrizia nella lotta contro il Dāʽiš (si veda G. Friedman, «The Virtue of Subtlety: A U.S. Strategy Against the Islamic State», Stratfor, 09/09/2014), certe interessanti dichiarazioni del generale Petraeus (da L. Sly, «Petraeus: The Islamic State Isn’t Our Biggest Problem in Iraq», «The Washington Post», 20/03/2015), taluni singolari errori in cui le armi che dovevano essere consegnate ai peshmerga curdi sono finite nelle mani del Dāʽiš e la seguente dichiarazione di Muhamad Sadiq Kushki, docente all’Università di Teheran intervistato dall’agenzia «Irna» sulle vicende irachene (per molti aspetti simili a quelle siriane): 

«In generale l’Is agisce negli interessi di Stati Uniti e Israele. Washington ha perso influenza nello scacchiere iracheno e non vuole che l’Iraq svolga un ruolo regionale a favore di Teheran, dunque preferisce che sia coinvolto in diatribe infinite. Israele vedeva nell’avanzata dell’Is la possibilità di indebolire il governo sciita di Baghdad. Ma il problema è che l’avanzata dell’Is e la passività americana hanno costretto gli iracheni a rivolgersi ancor di più all’Iran. L’America se n’è accorta ed è corsa ai ripari, tornando a giocare un ruolo importante in Iraq».

Come se non bastasse, stabilizzare la presenza di un Dāʽiš telecomandato da Washington (operazione peraltro non da escludere stia avvenendo già adesso vista quella che pare un’eliminazione selettiva di determinati leader del movimento, come il responsabile delle risorse energetiche Abū Sayyāf) potrebbe sul lungo periodo favorire il passaggio di gasdotti finalizzati a trasportare il metano iraniano in Europa.

Per una strana congiunzione del destino, l’apparato politico/mediatico europeo, statunitense,
arabo e jihadista pare cantare all’unisono la ritrita immagine di uno scontro religioso in cui la posta in gioco sono da una parte la difesa della cristianità (questo è ciò che il Dāʽiš, abbindolando certi media islamofobi europei, vuole far credere) e dall’altro la difesa della fede sunnita di fronte alla travolgente avanzata del pericoloso sciismo iraniano. A quest’ultimo proposito Hamid Dabashi, docente di studi iraniani alla Columbia University, ha scritto che 

«i regimi al potere in Iran e nei paesi arabi hanno un obiettivo comune: far deragliare la postura rivoluzionaria delle primavere arabe. La contrapposizione tra nazionalismo arabo e persiano e tra sciiti e sunniti è uno stratagemma, un sotterfugio, una viscida tattica diversiva per salvare questi regimi dal loro nemico comune: le aspirazioni democratiche dei loro popoli. Consentendo ai regimi arabi al potere di raggiungere questo obiettivo, l’Iran non è loro nemico, ma il loro più sincero e ardente amico- di fatto il loro tipo ideale, la loro ispirazione» (da H. Dabashi, «Iran: Friend or Foe of Arab Regimes?», da «Aljazeera» del 31/03/2015).

Un monito che vale nel mondo arabo, ma con qualche piccola correzione applicabile tranquillamente anche al nostro continente.