giovedì 30 aprile 2015

Italia anno zero



L’antipolitica va marciando spavaldamente in trionfo su un Paese distrutto a cui è bastata solo una spinta per ridurlo in un grumo informe di macerie. 
Polverizzato il Parlamento, espressione della volontà popolare, prepotentemente occupato dalle sagaci truppe di un potere esecutivo che ha solo di che guadagnarci dallo spettacolo di una ciurma di parlamentari troppo pigri, o troppo ingordi, per opporsi all’invasione con ferma recalcitranza.
Nebulizzati i partiti politici, e con essi la partecipazione della cittadinanza alla vita istituzionale, in una sorta di eutanasia fondata sulla scintillante illusione che la rappresentanza possa fornire una delega totalmente in bianco alla rappresentazione (più tragica che comica) condotta da un capo-popolo repellente ad ogni spessore morale ed intellettuale.
Carbonizzata la condivisione pubblica, immolata nella funzione di un rito religioso monoteista, ove il Mercato (ufficiosamente tradotto nelle grandi imprese finanziarie) diventa oggetto d’irremovibile venerazione; un dio insaziabile a cui il dogma neoliberale impone di sacrificare tutto, riducendo ogni relazione ed ogni aspetto della vita umana (dal lavoro alla bellezza artistica, dalla biosfera all’istruzione) ad un effimero scambio monetario.
A questo fetido vortice antipolitico abbiamo affidato la distruzione di tutto ciò che fosse attinente ad una logica di valori, ad una tradizione storica o, più semplicemente, ad una deliberazione che prendesse spunto dai bisogni dell’uomo.
Da un lato la «competitività», la «meritocrazia», l’«equilibrio del bilancio pubblico» e «la crescita del Pil» hanno fornito la seducente (ma truffaldina) giustificazione ideologica, dall’altro la leadership populista ha fornito il consenso dell’elettorato ed ecco che ha potuto concretizzarsi senza ostacolo alcuno un’autorità assoluta monopolizzata da quell’eterogeneo circuito di abnormi società finanziarie e da grandi banche commerciali preposte ormai non solo al classico deposito e prestito, ma anche all’emissione di titoli, alla gestione del patrimonio, alle assicurazioni, ai piani di fusione e acquisizioni di altre società (talvolta industriali), ai piani pensionistici e via discorrendo il cui unico obbiettivo è la crescente remunerazione degli azionisti.
La democrazia rimane per lo più un hobby che inizia e finisce nell’illusione che porre saltuariamente una croce sul simbolo più gradito all’elettore possa scaturire in un’attività di governo veramente alternativa rispetto a quella in auge («le misure di aggiustamento finanziario», ha assicurato Draghi un paio d’anni fa, procedono in ogni caso «col pilota automatico»). Al fine di chiarire ancor di più l’ineluttabilità delle «riforme» provvedono per ora i trattati, i vincoli, gli articoli e le cavillosità redatte dall’Unione Europea, coadiuvati talvolta dai brutali scossoni degli interessi sul debito pubblico che facendo balenare il tangibile rischio del fallimento spronano ancor di più verso l’esproprio della partecipazione popolare.
Ma ciò che sta avvenendo in Italia in questi giorni va oltre, arrivando alla forzosa imposizione di un pesante stravolgimento degli assetti istituzionali (come in effetti richiesto espressamente dalla JP Morgan, si legga «The Euro Area Adjustment: about Halfway there», Europe Economic Research, 28 maggio 2013), compiuto a suon di prepotenze, minacce ed epurazioni. Il tutto in nome di un ricorso semantico alla «governabilità» che cela dietro il suo ridicolo paravento l’esigenza di ridurre gli spazi democratici mediante una serie di congetture che vedono l’apoteosi nella perpetuazione del «premio di maggioranza», marchingegno elettorale finalizzato fin dal nome all’alterazione del, già di per sé soltanto formale, verdetto elettorale (il cui riferimento alla «maggioranza», fra l’altro, suona quasi beffardo). Insomma, il già flebile alito della democrazia sugli organi decisionali si cerca con ogni mezzo a disposizione di soffocarlo al fine di rendere pienamente divincolata e agibile la messa in opera della totale concentrazione della ricchezza nelle poche mani degli oligarchi globali.
In questo paesaggio di macerie, sotto il peso dei cingolati è finita anche l’autentica opposizione a questo sistema, un’opposizione bizzarramente incapace di coagularsi e di tradursi in una concreta unità programmatica. Ma forse, se questa sfacciata eclissi di ogni rappresentanza popolare può avere un pregio, è proprio quello di rendere non più rinviabile la scelta del campo su cui compiere la propria battaglia.
Più il disegno neoliberale assume contorni precisi, più la cittadinanza (anche quella più apatica) sarà costretta ad assumere una posizione, senza possibilità alcuna di scappatoie o tentennamenti.
Un processo non inedito nella storia, che le celebrazioni del 25 aprile contribuiscono a riproporre nella memoria collettiva e ben riassunto dalla conclusione, solo a prima vista paradossale, di Jean-Paul Sartre: «Mai siamo stati tanto liberi come sotto l’occupazione tedesca» («La Repubblica del silenzio», in «La Resistenza nella letteratura francese», a cura di W. Mauro, pag.247).
«Non si poteva sottrarre a questa comune atmosfera il timore, che tutti in qualche modo dovevamo essere complici o perseguitati» scrive, sempre ricordando i giorni della scelta resistenziale, il partigiano Roberto Battaglia (da R. Battaglia, «Un Uomo», pagg.48-49), lo stesso che qualche pagina prima (pag.20) aveva anche espresso la sensazione di essersi sentito per la prima volta «con le spalle al muro», rendendo palpabile pur a tanti anni di distanza la gravosità di una scelta così determinante. Una scelta che, una volta compiuta pur sapendo dei pericolosi rischi a cui si andava incontro, per il suo valore sia sociale sia di formazione personale procurava un’inaspettata «gioia sfrenata» (da R. Battaglia, «Un Uomo», pag.50), una sensazione singolarmente diffusa lungo i molti racconti dell’esperienza resistenziale: Ada Gobetti nel «Diario Partigiano» (pag.258 e pag.57) parla di «un’infanzia nuova, libera e avventurosa» (di «giorni beati» e «nuova infanzia» aveva parlato anche Battaglia) evocando «attimi di serenità più perfetta- appagamento, completezza armonia» e lasciandosi pervadere talvolta da uno «zampillo di gioia improvviso». Antonio Bellina, pur costretto successivamente ad una deportazione in lager, ricordò: «Si andava su in montagna così…sembrava una cosa così allegra, per dire» (da «La vita offesa», a cura di Bravo e Jalla, pag.84). Un altro partigiano, tal De Gaudio, rimembrò «momenti felici- e furono i più belli della mia vita» (relazione sui fatti attorno alla Liberazione di Firenze, Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Anpi Firenze). Un altro resistente, nome di battaglia «Stella», ancora decenni dopo ammetteva di sentire «la nostalgia di quei momenti quasi spensierati» (relazione finale del commissario politico della divisione Garibaldi Ponente, Isrt, Cvl, «Comando militare toscano»). Di analogo tenore le esperienze femminili: «Per me è stato il periodo più bello della vita…Si rischiava la morte, però talmente c’era la gioia di vivere! Delle volte io leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perché sapevamo che facevamo una cosa molto importante» (da «La Resistenza taciuta», a cura di Bruzzone e Farina, pagg.44, 81-82, 85).
Cosa dobbiamo ancora attendere, noi italiani di oggi, per riscoprire questa piacevole gioia di condivisione e battaglia sociale?

sabato 18 aprile 2015

Hanno scippato il riformismo



Dichiararsi riformisti significa a rigor di logica chiedere degli interventi strutturali in grado di sconvolgere gli assetti costituiti e di rendere fruibile un autentico cambio di rotta rispetto alle direzioni intraprese sinora dalle classi dirigenti. Chi, in Italia, non se la sentirebbe di condividere un approccio simile? Quale persona ritiene che, stanti così le cose, tutto sia perfettamente in regola? Tutti invocano a gran voce il cambiamento, e «riforme» è la formula magica che da praticamente quarant’anni traduce nel linguaggio amministrativo questa spinta unanime.
Matteo Renzi è probabilmente il personaggio politico che più di tutti ha fatto dell’esigenza delle «riforme», in questo fortemente incoraggiato dall’esigenza di «riforme strutturali» richiesta ad ogni piè sospinto dalle istituzioni economiche sovranazionali, la propria cifra propagandistica e l’inappellabile giustificazione verso ogni scelta governativa. Le riforme sono divenute in questi ultimi anni un’indiscutibile mantra, che va oltre ogni scelta politica ed ogni legittimazione di consenso fino ad arrivare al punto che nell’estate scorsa il numero uno della Bce Mario Draghi era arrivato a proporre una momentanea cessione di sovranità popolare apposta per portare a termine questo processo legislativo. Perché non ci sono alibi che tengano, le riforme vanno fatte. Il che è vero, ma il fatto stesso che l’invocazione delle riforme veda d’accordo ogni categoria sociale, dal finanziere al pensionato, dal gelataio al grande imprenditore, significa che in realtà la parola «riforme» è arrivata a significare un po’ di tutto, come una massa liquida che finisce per adattarsi ad ogni contenitore in cui viene posta. Insomma, un vocabolo dotato di una fumogena inconsistenza buona per tutte le stagioni e, di conseguenza, perfettamente consono alla vacua e accomodante comunicazione politica del renzismo.
Galleggiando in balia delle onde e sospinta dai flutti delle più disparate istanze sociali, la battaglia del riformismo ha finito però per assumere sempre di più un significato preciso, totalmente snaturato rispetto alla sua accezione originaria: l’esigenza delle riforme, infatti, si è trasformata nella bandiera della più retriva e caparbia perpetuazione delle politiche globali perseguite con costanza e coscienza da fin troppi decenni a questa parte. Una parola scippata al suo utopistico significato di cambiamento e redistribuzione per divenire al contrario il simbolo dell’iniquità rincorsa semplicemente con mezzi più rapidi. Chi, specie negli organi d’informazione, con maggior convinzione insiste sulle «riforme» e sul «cambiamento» non ha in testa un rinnegamento delle scelte governative fatte finora, al contrario le valorizza lamentandosi semplicemente che la dose di medicinale non è stata abbastanza corposa a causa di quei maledetti orpelli, di quegli odiosi «lacci e lacciuoli» (un simpatico vezzeggiativo rivolto ai corpi intermedi, specie il Parlamento e i sindacati i quali, pur non esenti da responsabilità, vengono additati dai riformisti come la causa di tutti i guai del mondo) che secondo tale retorica impediscono, e magari lo facessero con effettiva efficacia!, un reale rinnovamento del Paese.
Il sentiero luminoso indicato dai sedicenti riformisti si concretizza in nient’altro che nella concentrazione della ricchezza, frutto e obbiettivo massimo di un’economia fondata sulle più scellerate e contorte operazioni finanziarie: nella bramosia di ottenere rendimenti annui non inferiori al 20% (alcuni fondi specializzati nella gestione dei patrimoni privati promettono rendimenti minimi addirittura del 30%) a fronte di una crescita mondiale annua che non supera mai il 5%, i grandi operatori finanziari possono solo condurre due operazioni: «1) Una redistribuzione a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale; 2) La crescita del capitale in forza di un rendimento più elevato è soltanto un’espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una inflazione dei titoli finanziari, a una bolla» (da K.-H. Brodbeck, «Die Globale Herrschaft der Finanzmärkte», pag.219). È soprattutto il raggiungimento del primo aspetto quello che si sono prefissate le istituzioni pubbliche, tutte sedicenti riformiste, negli ultimi decenni. Sotto l’ipnosi abilmente manipolata delle indifferibili esigenze riformiste, si è provveduto di conseguenza ad una sistematica spoliazione dei beni pubblici, riducendo lo Stato a nulla più di un «regolatore» inginocchiato dinnanzi ai desiderata della grande finanza. E dato che le riforme sono oggettive e prescindono da ogni considerazione politica, non ci si sorprenda se ad inaugurare la stagione riformista in Italia sia stato un governo tecnico, quello Amato-Ciampi, e sia proseguita senza intoppi lungo tutti gli esecutivi successivi, sia quelli di destra che quelli di sinistra, divisi nel soddisfacimento delle richieste corporative dei propri gruppi di riferimento ma assolutamente complementari nel disegno anti-egualitario tracciato dai sempre più ingombranti padroni della finanza globale. L’esigenza riformista di un’istituzione scolastica finalizzata esclusivamente alla formazione di competenze specialistiche in un’ottica meramente aziendale partì col pacchetto Berlinguer del periodo dell’Ulivo per venir poi seguita dai ministri berlusconiani Moratti e Gelmini. L’esigenza riformista di un mercato del lavoro il più possibile sregolato viene propugnato da seguaci di Marco Biagi che pullulano in ogni schieramento politico. L’esigenza riformista di una legge elettorale illiberale portò ad un Porcellum redatto dal centrodestra sul modello del sistema elettorale regionale della Toscana monopolizzata dal centrosinistra. L’esigenza riformista della proprietà intellettuale, dettata dagli accordi Trips, venne calorosamente accolta da tutto l’arco parlamentare. L’esigenza riformista delle privatizzazioni è proseguita senza tentennamenti in tutto l’arco dell’ultimo ventennio. L’esigenza riformista di smantellare la garanzia pubblica di una pensione adeguata venne ideata all’inizio degli anni Novanta dagli ambienti contigui al centrosinistra per venir poi pedissequamente completata dai successivi governi. E si potrebbe continuare a lungo, attraverso anche i più diversi versanti come la gestione inumana degli immigrati (iniziata con la legge Turco-Napolitano del centrosinistra e proseguita con la legge Bossi-Fini del centrodestra) o l’intralcio verso la lotta alla corruzione e alla criminalità.
In fin dei conti, si può dire che i vari governi tecnici, di larghe intese e di strette intese (che culmineranno nel «partito della Nazione» sognato da Renzi?) susseguitisi dal 2011 hanno quantomeno posto alla luce del sole la quasi totale convergenza di vedute tra i due principali schieramenti politici al potere in Italia dagli anni Novanta. Una convergenza attuata in nome di riforme il cui stampo neoliberale non viene nemmeno più messo in discussione: anche attualmente il più ascoltato leader della minoranza dem, Pierluigi Bersani, nel rispondere all’accusa renziana di pigrizia riformista replica snocciolando l’elenco di liberalizzazioni il cui chiaro scopo era quello di sottrarre al controllo giuridico pubblico un ricco arcipelago di professioni.
Anche a livello istituzionale il riformismo, checché ne blateri la retorica renzista, gode di una sua storia, fra l’altro nemmeno troppo disonorevole se paragonata agli sfaceli del riformismo economico. A dispetto della logica delle «riforme mai fatte», basterebbe rammentare che nel 1988 vennero emanate prima una legge sulla Presidenza del Consiglio e poi una norma che de facto aboliva il voto segreto, nel 1990 ebbe luogo una revisione dei poteri locali, nel 1991 si svolse il referendum che sancì la fine della preferenza plurima, nel 1993 un altro verdetto popolare lasciò il sistema proporzionale alle spalle e dichiarò illegittimo il finanziamento pubblico ai partiti, sempre nel 1993 venne emanata la legge elettorale marcatamente maggioritaria per gli organi di governo amministrativo, nel 2001 arrivò la riforma costituzionale del Titolo V finalizzata all’inseguimento del federalismo, nel 2005 fu la volta dell’approvazione del Porcellum corredato da una corposa riforma della Carta rigettata senza tentennamenti dal referendum confermativo dell’anno successivo. Sorprende come lo stesso Renzi paia dimenticare inoltre uno strumento a suo modo rivoluzionario nella dialettica politica a cui il giovane premier deve gran parte delle sue fortune: l’adozione delle elezioni primarie nel centrosinistra, anch’esso fondamentale passo in avanti nell’«aggiornamento» della pratica politica.
Fuor di dubbio che, sia a livello economico che a livello istituzionale, di un’autentica spinta riformista c’è un bisogno sempre più impellente. Una spinta in grado di rigettare le ricette imposte con cieca (ma interessata) determinatezza negli ultimi decenni al fine di perseguire l’obbiettivo di un Paese più giusto, più democratico e più equo. Nulla a che vedere, insomma, col riformismo cialtrone e raffazzonato di un esecutivo il cui ossessivo inseguimento del consenso impedisce un’analisi acuta e una linea programmatica autenticamente dirompente. 

mercoledì 15 aprile 2015

Salvini, Tosi e l'oro di Mosca



Sembravano tramontate da almeno un paio di decenni le voci su generose elargizioni di denaro in partenza dal Cremlino e dirette a qualche forza politica italiana. Ha fatto ora a crollare il Muro di Berlino, a salire sulla ribalta internazionale la figura di Putin, a comparire un’Ucraina in guerra ed ecco ricapitati gli stessi traffici, a metà tra la geopolitica e l’esigenza di un po’ d’ossigeno per le casse dei partiti, con la sostanziale differenza del colore esposto sulle bandiere dei destinatari: dal rosso vermiglio del compagno Secchia al nero goffamente celato di madame Le Pen. Fino al verde, quello dei padan-nazionalisti (grottesco paradosso) della Lega Nord che a malincuore si addice pure alla situazione patrimoniale dei suoi bilanci, più al verde che mai. Un verde tendente, quale blasfemia!, ad un rosso sempre più marcato se si va a considerare che al momento dell’ascesa di Matteo Salvini alla segreteria il saldo era di meno 14,5 milioni di euro, risultato fra gli ultimi eventi (meglio stendere un velo pietoso su diamanti, lingotti, lauree e forzieri vari) dell’arrembante campagna elettorale di Bobo Maroni per la presidenza della Regione Lombardia costata, almeno secondo quanto riportato dal «Fatto Quotidiano», la bellezza di sei milioni.
L’abolizione di ogni finanziamento pubblico ai partiti sarà pur raffazzonata e ricca di molte controverse opacità, ma rappresenta una grana non indifferente per le formazioni politiche, peraltro assai traumatizzante se si ricorda l’aspetto di paradisiaca cascata che il «rimborso elettorale» alle formazioni politiche ha assunto fino a qualche mese fa. Complice un referendum, dai tratti peraltro fortemente demagogici, l’unico modo che le formazioni politiche hanno per disporre di un budget che sopperisca quantomeno alle più basilari necessità di coordinamento è quello di girare umilmente con la tazza della questua nella speranza che qualche facoltosa istituzione si degni di aprire il portafoglio. Attività tortuosa e inevitabilmente foriera di pesanti mutazioni genetiche: come se già la situazione attuale non fosse abbastanza scandalosa, ci toccherà assistere al degradante spettacolo di forze politiche sempre più modellate ad immagine e somiglianza dell’ente finanziatore, unico depositario della possibilità di decretare la stessa esistenza della formazione in questione. L’attività di finanziamento assumerà di conseguenza una rilevanza sempre più ingombrante all’interno della vita dei partiti, andando anche a decidere le sorti dei suoi programmi e dei suoi vertici. In realtà non ha senso esprimere queste perplessità guardando al futuro, visto che il presente della Lega Nord offre di per sé un caso di scuola per quanto riguarda la prepotenza della disponibilità finanziaria su ogni altra considerazione politica.
Flavio Tosi, infatti, sindaco di Verona e da un po’ di tempo volto istituzionale di una Lega ipoteticamente «di governo» (contro la Lega «di lotta» di Salvini) si è trovato recentemente fuori dal partito. A Tosi non garbava la linea estremista del segretario, è vero. Tosi non gradiva che tutte le attività del partito venissero fatte piovere unilateralmente dalla segreteria milanese, è vero. Ma l’aspetto più determinante della vicenda è stato tenuto accuratamente nascosto, almeno fino a quando i giornalisti Paolo Madron e Luigi Bisignani in un volume ancora fresco di stampa («I potenti al tempo di Renzi», Chiarelettere editore) non hanno strappato il sipario ampliando lo sguardo e concentrandosi sul vero campo di battaglia, che non è la casa di Giulietta, che non è la politica nazionale, ma bensì la ben più vasta tensione strategica tra Europa e Russia, dove quest’ultima pare disposta a giocare ogni carta pur di veder indebolite le istituzioni comunitarie. L’asso nella manica è il lauto finanziamento delle forze politiche anti-europeiste con più possibilità di far tremare i palazzi del potere. Tra queste la Lega nostrana, specie dopo la svolta profondamente radicale imposta da Salvini, il quale però si è ritrovato nella scomoda situazione di voler accaparrarsi una posizione privilegiata nel rapporto con Mosca senza però l’appoggio di un pezzo da novanta come Antonio Fallico, decisamente più legato a Flavio Tosi.
Fallico è uno di quei personaggi tanto sconosciuti quanto indispensabili, specie in periodi ove la politica si è dimostrata irreparabilmente inetta e incompetente. Fallico ci ha passato praticamente una vita in Russia, visto che da circa quarant’anni ricopre l’incarico di plenipotenziario di Banca Intesa in quel paese. Una specie di pioniere, arrivato fra i primi nel paese sovietico con il preciso proposito di creare una rete di credito, all’epoca sotto le dipendenze della Banca cattolica del Veneto, poi risucchiato nel Banco Ambrosiano e poi in Banca Intesa, finendo per ricoprire l’incarico di presidente della Zao Bank, nonché di console onorario di Russia (onorificenza ottenuta a seguito della buona riuscita degli affari italo-russi su Gazprom, di cui Fallico era immancabilmente il rappresentante in Italia), nonché ex-coordinatore del Comitato italo-russo per il disarmo dei sottomarini, nonché docente all’Università di Verona. Carriera invidiabile, al punto tale che oggigiorno praticamente ogni uomo politico intento ad ottenere qualche contatto con Mosca (anche strategico, anche industriale, anche politico e finanche religioso dato che in passato ha persino mediato l’incontro tra il patriarcato ortodosso e l’ordine francescano) deve prima o poi fare i conti con lui, l’uomo-camaleonte a cui la fede comunista (ha militato per lungo tempo nel Pci e ancora un paio d’anni fa, intervistato da «Sette-Corriere della Sera», non esitava a dichiararsi «comunista convinto») non impedisce una solida amicizia col conterraneo Marcello Dell’Utri. Amicizia nata sui banchi di scuola (ambedue sono siciliani), ma coadiuvata probabilmente dai favori che Fallico elargì nei confronti dell’imprenditore Silvio Berlusconi, quando mosse tutti i canali a sua disposizione affinché Publitalia, siamo verso la fine degli anni Ottanta, disponesse della concessionaria esclusiva per la pubblicità di tutte le imprese europee sugli schermi televisivi statali dell’intera Unione Sovietica.
Alla luce di questo curriculum, si può ben capire il dramma che Salvini prova ogniqualvolta deve constatare che Fallico sta nell’orbita del suo (ex) principale avversario nel partito. Il segretario ha compreso quanto sia importante portare Fallico sotto le sue insegne, è ben a conoscenza dei tentativi di questi di accreditare agli occhi dei vertici russi Flavio Tosi come unico interlocutore leghista col Cremlino, probabilmente gli è anche giunta voce del fatto che Fallico non esita a spargere zizzania contro Salvini ed è probabilmente grazie alle influenze del banchiere plenipotenziario se continua a venir rimandato un bramato prestito da parte di una banca russa nei confronti del partito.
Queste sono le premesse della guerra tra Salvini e Tosi. Non è da poco tempo che il segretario, non riuscendo (almeno per ora) ad accaparrarsi Fallico, tenta in ogni modo di arginare lo strapotere di quest’ultimo erigendo un alternativo gruppo di pressione nei confronti della Russia, alla cui testa è stato collocato Gianluca «Gianlu» Savoini, partito con la lancia in resta nel corso del 2014 con la promozione di un appello a favore di Putin. Ma procediamo con calma. Savoini non ha nulla in comune con Fallico, non ne possiede gli agganci, non ne possiede l’esperienza e non ne condivide per nulla le fedeltà ideologiche: se Fallico è comunista, Savoini espone orgogliosamente sulla sua scrivania un busto di Benito Mussolini. Appassionato di storia del nazismo, giunge per la prima volta alle cronache quando viene nominato capo ufficio stampa della Regione Lombardia guidata da Maroni. La carriera sembrava definitivamente compromessa quando il governatore decise di sostituirlo con la più fidata, e più avvenente, assistente Isabella Votino relegando il povero Savoini dentro una società vicina alla Regione, Europolis. Fino a quando, appunto, Salvini non gli conferisce il delicato incarico di creare un cordone ombelicale tra Mosca e via Bellerio.
Tenere testa a Fallico è impresa assai ardua, di conseguenza Savoini si fa sostenere da un lato da una ciurma eterogenea di artigiani e piccoli commercianti succubi della guerra di sanzioni tra Occidente e Russia (riunitisi a Milano sotto le bandiere della neo-costituita associazione Lombardia Russia) e dall’altro dall’eurodeputato veronese Lorenzo Fontana, figura di sempre maggior rilievo nella Lega di Salvini (gli è sempre a fianco durante i soggiorni all’estero), accanito appassionato dell’Hellas Verona, della Nutella e di Vittorio Feltri, responsabile del primo incontro tra il segretario (ancor prima che divenisse tale) e Marine Le Pen ma particolarmente apprezzato soprattutto per il pronto voltafaccia riservato a Flavio Tosi, a cui teoricamente era debitore in virtù di una mansione garantitagli alla Fiera di Verona.
Quest’armata Brancaleone, con pochi mezzi ma un obbiettivo consistente, ha se non altro concepito il più formidabile tra gli stratagemmi in grado di attirare l’attenzione del manipolo di oligarchi russi: una donna, bionda per giunta. Stiamo parlando di Irina Osipova, laureata in Scienze politiche a Roma, ben inserita nell’ambiente nell’ambasciata russa in Italia e guida del Rim, movimento di giovani italo russi, il suo nome sui media è legato per lo più alle dichiarazioni di estasiato fervore putiniano che rilascia ad ogni giornalista che le capita nei paraggi. Tanto più con l’incarico delicatissimo affidatole dalla Lega, la sua vita ormai si svolge per metà in Italia e per metà nei più influenti circoli della capitale russa (arriva addirittura ad accompagnare gli esponenti della Lega durante i loro viaggi in Russia e in Crimea).
Salvini-Savoini contro Tosi-Fallico. Lo scontro è in pieno svolgimento e potrebbe dar luogo ad insospettabili sbocchi. La posta in palio è bella grossa: innanzitutto l’oro del Cremlino, succulento boccone, ma anche la conseguente intestazione della battaglia politica filorussa nel Belpaese.

venerdì 10 aprile 2015

Voce del verbo reprimere



Da qualche giorno abbiamo scoperto di vivere in un Paese non solo di santi, poeti o navigatori. Tra i vari attributi che contribuiscono all’unicità della nostra essenza nazionale c’è anche quella di torturatori. Impuniti, per giunta.
La constatazione che non ci troviamo al cospetto di una dote innata o del frutto di una casuale coincidenza di eventi non dev’essere motivo di sollievo, dal momento che a renderci torturatori è stata una precisa scelta politica, o meglio, come fin troppe volte abbiamo assistito a livello globale nell’ultimo quarantennio, una non-scelta politica. In piena consapevolezza e ponderazione, infatti, le classi politiche hanno scelto di non affrontare in prima persona i conflitti sociali che naturalmente (e fortunatamente, oserei dire) emergono di quando in quando in ogni società democratica, cercando al contrario di sopprimerli in ogni modo o tramite precisi dispositivi di legge, oppure attraverso una semplice delega in bianco ai propri apparati di sicurezza, in certe circostanze lasciati completamente soli ad affrontare situazioni di profonda connotazione politica. Soli, e di conseguenza con la possibilità di non dover rendere conto a nessuno delle proprie azioni. Una situazione comprensibilmente dotata di enormi potenzialità esplosive, al punto tale che in taluni casi sono stati gli stessi organi militari a far notare la pericolosità di una delega simile: un esempio su tutti la lettera spedita al Capo di Stato maggiore della difesa e al Comandante della Brigata alpina taurinense il 26 luglio 2011 da parte di un gruppo di ufficiali, sottufficiali e alpini in congedo domiciliati nella Val Susa. Di fronte al dispiego massiccio di forze militari, parliamo di centocinquanta alpini, spediti nella valle col fine di rendere possibile con ogni mezzo la realizzazione dei lavori per la contestatissima linea ferroviaria, sono stati questi cittadini a segnalare dapprima l’allarmante fatto che «la popolazione locale ha percepito da subito la presenza delle Truppe Alpine a difesa di un’opera che vede la contrarietà della stragrande maggioranza dei valligiani come una vera e propria occupazione militare della propria terra», per poi sottolineare come sia da considerarsi «inconcepibile che l’Esercito venga utilizzato per regolare questioni che la politica ha originato e poi, per via della sua incapacità, non riesce più a controllare». Il nocciolo della questione è tutto qui: una politica che rifugge al proprio ruolo di mediazione e confronto con le istanze dei cittadini preferendo una comoda sudditanza verso gli interessi di quei pochissimi in cui si trova concentrata una fetta scandalosamente consistente di ricchezza globale e lasciando che ogni sussulto, che ogni anelito di reazione popolare venga semplicemente soffocato con ogni mezzo a disposizione, spesso lasciando che il lavoro sporco venga compiuto da forze dell’ordine e organi militari. In questo contesto si riesce a spiegare l’orrendo pestaggio, una stima assai riduttiva parla di 560 ricoverati, compiuto dalle forze dell’ordine nel luglio 2001 all’interno sia delle strutture scolastiche Diaz e Pertini (adibite momentaneamente a dormitori per manifestanti) sia della caserma di Bolzaneto. Le vittime sono loro, i manifestanti, meritevoli di contusioni, ferite e fratture per il solo fatto di opporsi alle politiche globali condotte dai membri del G8 in riunione a Genova (il conduttore Emilio Fede, dai microfoni del Tg4 di quei giorni lo diceva senza mezzi termini: «Quelli che stanno protestando sono drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e tenuti in galera a vita»).
Un evento, quello di Genova, da un lato frutto di un terreno che si andava dissodando e preparando con cura da almeno una decina d’anni («in tutte le democrazie, gli anni Novanta hanno visto la creazione, e l’uso nel corso di proteste politiche e sociali, di squadre speciali dotate di nuove armi, costituite per il controllo di altri problemi di ordine pubblico o anche di criminalità organizzata», D. della Porta e H. Reiter su «Questione Giustizia», n.4/2006, pag.717) ma dall’altro embrione di un modo sempre più spietato di affrontare le proteste sociali, amplificatosi notevolmente con il protrarsi della crisi economica. Dalla Val Susa, emblema obbligatorio in tema di tensioni sociali, dove con particolare accanimento il Pd, per bocca del parlamentare Stefano Esposito, già all’inizio del 2011 invocava a gran voce che il punto dello scavo del tunnel geognostico della Tav presso la Maddalena di Chiomonte venisse definito «sito d’interesse strategico o militare» con tanto di presidio dell’Esercito in assetto di guerra (seguito dal presidente di Regione, il leghista Cota, che nel marzo 2012 asserì che «se le cose non si sistemano serve l’Esercito»), alla Campania violentata dal nauseabondo traffico di rifiuti. Dinnanzi alle veementi proteste seguite alla decisione di risolvere l’atroce problema aprendo nuovi inceneritori e nuove discariche, il governo Berlusconi diede il via ad una raffica di disposizioni legislative, contenute nel decreto legge 23 maggio 2008 n.90, finalizzate appositamente a sedare l’indignazione (i commi 4 e 5 dell’art.2 del testo recitano, con preoccupante vaghezza di contenuti: «I siti, le sedi degli uffici [!] e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale…fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale»).
Con l’acuirsi della crisi e i gravi scontri avvenuti a Roma nell’ottobre 2011, si assiste ad un nuovo rigurgito di proposte liberticide (caso esemplare il ministro degli Interni Maroni il quale, appoggiato dal suo partito, propone da un lato di concedere il permesso di manifestare solo a fronte del pagamento di una quota, e dall’altro di estendere il DASPO anche alle manifestazioni politiche), che trova sconcertante concretezza nell’ordinanza del sindaco di Roma Alemanno di vietare i cortei nella città per un intero mese e di subordinare le manifestazioni alle esigenze del traffico. Tempo pochi giorni e il 20 ottobre un’ordinanza prefettizia, in vista di una nuova manifestazione No Tav, non solo vieta per due giorni la «circolazione di persone e mezzi» in buona parte del territorio dei Comuni valsusini di Chiomonte e Giaglione, ma impedisce «l’accesso a chiunque a tutti i sentieri ed alle aree prative e silvestri» dei suddetti Comuni (ordinanza preceduta, per la verità, da una ricca sequela di ordinanze prefettizie che già dall’estate 2011 impedivano «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico, l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere», disposizioni prolungate per lungo periodo). A chiarire ancora meglio il concetto, il primo gennaio 2012 entra in vigore una nuova legge che estende i divieti già predisposti per le discariche campane anche al cantiere Tav della Maddalena di Chiomonte. Dulcis in fundo, il 3 aprile 2012 l’Ansa dirama un comunicato in cui si comunica l’avvio dell’esame «in commissione Giustizia della Camera di un testo che prevede l’arresto da uno a cinque anni per chiunque “impedisca od ostacoli la libera circolazione di persone e merci, occupando strade ferrate, ordinarie o autostrade, con qualsiasi mezzo, impedendo la libera circolazione dei mezzi di trasporto”. Il testo, relatore Manlio Contento (Pdl), primo firmatario Giancarlo Lehner (Pdl), prevede la stessa pena anche per i blocchi a scuole e università».
A quest’opera di smantellamento dei diritti alla protesta concorre lo Stato in ogni sua emanazione: non solo il governo e il Parlamento tramite l’approvazione di nuovi dispositivi di legge, ma anche la magistratura. A discapito del buon senso e addirittura di precise normative (ad esempio il decreto luogotenenziale 14 settembre 1944, n.288, prevede la non punibilità per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale in presenza di «reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale che abbia agito eccedendo i limiti delle sue attribuzioni»), l’apparato giudiziario ha provveduto ad una sistematica demonizzazione nei confronti della stessa espressione politica. Anche in tal senso, il caso della Val Susa fornisce un ottimo esempio: gli arresti indiscriminati del gennaio 2012, in cui vennero mescolate senza discernimento persone accusate di «avere afferrato per un braccio un operatore di polizia» e persone colpevoli di «avere lanciato contro gli operatori di polizia pietre, estintori, oggetti contundenti, etc.» testimoniano che a finire sotto accusa non è (come sarebbe corretto) il singolo cittadino responsabile di vandalismi e violenze, ma la partecipazione stessa alla manifestazione. Lo dice chiaramente il magistrato quando spavaldamente afferma che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano». Difficile non notare una singolare ferocia nell’applicare questi teoremi. Una ferocia che contraddistingue ad esempio anche le ordinanze del tribunale del riesame (in cui viene definito il trattamento cautelare applicato ad alcuni indagati come «il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» e dove il solo utilizzo di farmaci per proteggersi dagli attacchi della polizia viene considerato «elemento fortemente indiziante la preordinazione e il perseguimento di un unico, comune, obiettivo violento»), oppure le condanne che il Gup di Roma ha inflitto a tre ragazzi coinvolti nella manifestazione dell’ottobre 2011 (la più lieve corrisponde a quattro anni di carcere, l’equivalente dei casi di stupro e rapina), oppure il sempre più consueto utilizzo di fattispecie penali quali la «devastazione e saccheggio» (che condanna almeno a otto anni di carcere) in luogo di altri reati più appropriati come il «danneggiamento aggravato» (la cui condanna non supera i tre anni).
Non è difficile concludere come sia questa costante dichiarazione di guerra da parte degli organi statali ad inasprire ancor di più le frange più fanatiche dei movimenti di protesta, le quali, al contrario, da questa situazione hanno solo di che guadagnare dato che (come sottolineato da M. Bascetta sul «manifesto» proprio in riferimento ai fatti di Genova) «confondere nella categoria generale della violenza una vetrina sfasciata con un omicidio, un bastone con un’arma da fuoco, un temperino con una scimitarra, o anche un agente di polizia con un aguzzino della Gestapo, finirà inevitabilmente col favorire la serie delle scelte più estreme ed efferate».
La conclusione più appropriata di questo intervento (a cui gli scritti del magistrato Livio Pepino hanno offerto un insostituibile ausilio) la offre forse il passaggio di un libro di J.M. Coetzee, «Aspettando i barbari»: «Sono loro il nemico che devo temere? È questo che mi sta dicendo? Lei è il nemico, colonnello. Lei ha cominciato la guerra, lei ha dato loro tutti i martiri di cui avevano bisogno».

mercoledì 1 aprile 2015

Un pasticcio chiamato Italicum



La carica, ancora una volta, è stata suonata: le trombe renziste squillano con pomposo fragore per protestare che la corsa forsennata della legge elettorale sta perdendo ritmo. Occorre accelerare, senza concedere inutili momenti di condivisione e riflessione né al partito (o a ciò che ne resta), né al frastornato Paese, che rispetto alla segreteria di tal partito si è ritrovata in una condizione di spropositata dipendenza.
L’instancabile auriga, a suon di nerbate ai «cavalli» che siedono in Parlamento (e con particolare predilezione per i «cavalli» del Pd), ha tutta l’intenzione di continuare la sua corsa all’impazzata senza disturbi e possibilmente senza lamentele da parte di chi su quel cocchio ci sta seduto, ossia i cittadini italiani. La «governabilità», da nobile principio sicuramente meritevole di riflessioni, si è trasformata irrimediabilmente in una parola d’ordine finalizzata esclusivamente a togliere ogni orpello all’auriga, specie se le rimostranze provengono dalla cittadinanza. Che l’ordinamento giuridico e la Costituzione necessitassero di un ridisegno organico in grado di renderli più consoni ad una decisionalità conforme ai desiderata dei cittadini è un’operazione non più rinviabile, ma non si può non rimanere quantomeno perplessi osservando come questa primaria esigenza si vada configurando in un guazzabuglio eterogeneo, composto da spizzichi confusionari e indubbiamente dominato da una superficialità con rari eguali. La paura di una «svolta autoritaria» probabilmente sopporta un’eccessiva enfasi, ma non ci si sorprenda troppo se un caos di poteri sia quanto di meno ci si possa aspettare dal momento della piena operatività di queste riforme: lasciando intatto l’oblio sulla regolamentazione dei partiti politici, con un Senato de facto esautorato da una forte limitazione dei poteri e dalla presenza di un’indigesta macedonia di consiglieri regionali, sindaci e nominati dal Capo dello Stato e, vero punto dolente, da una legge elettorale che affida la Camera dei deputati al quasi monopolio di una pattuglia di luogotenenti asserviti ai volubili desideri del leader della forza politica con maggiori voti (ma nemmeno troppi) e senza andare minimamente a toccare i poteri o, perché no, la stessa legittimità popolare dei contrappesi dell’esecutivo (dal Presidente della Repubblica ad una Corte Costituzionale i cui componenti verranno scelti, con criteri facilmente intuibili, dall’unico partito di maggioranza) la delusione e il senso di frustrazione è il meno che ci si possa aspettare da chiunque affronti l’argomento con una qualche cognizione di causa.
Lo scopo sfacciato della legge elettorale cosiddetta Italicum, nome ben azzeccato considerata l’unicità di una proposta di tal risma nel panorama internazionale delle democrazie parlamentari, è quello di garantire un’assoluta governabilità a tutto scapito della volontà popolare la quale, in un periodo di cocente disaffezione verso la politica, andrebbe al contrario ampiamente potenziata legalizzando con precisi vincoli la positiva ventata di freschezza portata dall’adozione delle primarie e garantendole almeno un briciolo di scelta dei parlamentari con l’introduzione di collegi uninominali o, al limite, con l’introduzione della preferenza unica. Con un unicum i cui unici precedenti, sia storici che mondiali, sono la legge Acerbo (redatta dal regime fascista) e la legge Calderoli (ferocemente mutilata dalla Corte Costituzionale), ci troviamo al cospetto di una legge proporzionale drogata da un premio di maggioranza alla forza politica che abbia raggiunto almeno il 40% delle preferenze valide. Al confronto, la celebre quanto contestatissima dalle sinistre «legge truffa» di degasperiana memoria era un capolavoro di democrazia, dato che garantiva comunque la presenza di maggioranze multipartitiche spalmando il premio di maggioranza a tutte le formazioni che facevano parte della coalizione vincente (nemmeno la Dc nei suoi maggiori picchi elettorali si sognò mai di avvalersi di una maggioranza parlamentare composta da un unico partito, e del resto non è un caso se anche nel panorama delle democrazie mondiali attualmente solo la Spagna si avvale di un’unica formazione a sostegno dell’esecutivo). In caso di mancato raggiungimento del quorum, si procede con il ballottaggio: una delle sporadiche note positive di un testo, sebbene è opportuno segnalare che se fosse garantita almeno la possibilità di apparentamenti a cavallo tra il primo e il secondo turno con suddivisione del premio a tutte le liste fautrici dell’apparentamento la situazione sarebbe notevolmente più accettabile.
In barba a quanto approvato senza tentennamenti dall’Assemblea Nazionale del Pd, il doppio turno di collegio (validissimo sistema autenticamente maggioritario) ha finito così per lasciare il posto, per lungo periodo sotto il pretesto di un’intangibile patto con Berlusconi che nascondeva in realtà un’intima convinzione da parte di Renzi, ad un pasticciatissimo doppio turno di lista (originariamente di coalizione, ma il concetto non cambia).
L’introduzione di collegi uninominali, auspicata inizialmente dallo stesso Renzi in un’intervista al «Messaggero» del 25/04/2012, avrebbe non solo reso ancor più appropriata la pratica del doppio turno (che non a caso viene quasi sempre adoperata quando si tratta di eleggere personalità singole, emblematico in tal senso il caso dei sindaci) ma avrebbe garantito un’effettiva vicinanza del candidato parlamentare agli elettori del proprio collegio, favorendo in occasione della campagna elettorale un salutare confronto con i cittadini, facendo almeno comunicare paure ed esigenze che un capolista bloccato, come prevede l’Italicum, non ha nemmeno volendo alcuna possibilità, causa ignoranza, di far valere a livello parlamentare. Il rischio concreto è quello di ritrovarci con una ciurma di deputati la cui unica preoccupazione sia quella di mantenere il seggio più a lungo possibile, seguendo in tal modo pedissequamente i diktat, e le bizze, del segretario del partito a cui va a spettare la totale discrezione in materia di ricandidature sotto forma il più delle volte, lo si può scommettere, di nomina a capolista paracadutato in qualche collegio di cui il candidato non conosce nemmeno la collocazione geografica (per essere ancora più sicuri della candidatura, è prevista nientemeno che la squallida possibilità da parte di una singola persona di venir candidata in addirittura dieci collegi contemporaneamente).
Vero, per gli altri quattro-cinque parlamentari del collegio i cittadini elettori godono della possibilità di esprimere una preferenza o al massimo due, a patto, in quest’ultimo caso, che i candidati prescelti abbiano sesso differente (il che può dar luogo a «cordate» fra coppie di candidature, come puntualmente verificatosi nelle «parlamentarie» del Pd svoltesi nel 2012); ma non si può tacere del fatto che tale possibilità varrà esclusivamente per i partiti in grado di portare alla Camera più di 120 parlamentari, con la conseguenza che è altamente probabile lo scenario costituito dal fatto che soltanto un quinto dei deputati verrà eletto dai cittadini.
A discapito di quanto fin troppo spesso si è nascosto, un obbrobrio simile non ha mancato di sollevare le preoccupazioni del Presidente della Repubblica Napolitano il quale, nel luglio scorso, utilizzando il consueto linguaggio prudenziale che lo contraddistingue non ha mancato comunque di suggerire che il testo dell’Italicum venga «ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità che possono indurre a concordare significative modifiche». Un fondato auspicio destinato, ahimè, a rimanere sulla carta in nome di pretestuosi ricorsi alla «governabilità» (ottenibile anche senza compromettere la democrazia: migliorando la gestione interna alle maggioranze, oppure importando ad esempio l’ottima pratica di matrice tedesca della «sfiducia costruttiva» tale per cui il governo può venir fatto cadere soltanto se esiste una maggioranza parlamentare alternativa) o all’esigenza del «bipolarismo» (ottenibile ancor meglio tramite il ricorso obbligato al ballottaggio).
Cucire una legge elettorale conforme ai contingenti desideri del Pd (non a caso definito «partito della Nazione»), al fine di garantire a quest’ultimo un’indiscutibile maggioranza, di ridurre l’opposizione ad un pulviscolo inconsistente di formazioni secondarie e, soprattutto, di forgiare un sistema istituzionale imperniato totalmente sul premier può essere soltanto deleterio per la già vacillante qualità democratica del nostro sciagurato Paese. Molto più coerente e molto più ponderato, a questo punto, sarebbe garantire al Capo dello Stato una legittimità democratica tramite l’instaurarsi di un sistema semipresidenziale di stampo francese. Democrazia e governabilità verrebbero conciliate senza scossoni e senza il prevalere della seconda sulla prima.