sabato 25 ottobre 2014

Il dilemma delle Grandi Opere



L’Italia è un Paese dalla memoria corta, questo lo sappiamo, ma sulle grandi opere questa memoria diviene una vera e propria amnesia patologica in cui pare giocare la legge dell’inversa proporzionalità: più l’opera è maestosa, più la memoria (e l’attenzione) delle classi dirigenti si fa sbiadita. Basterebbe appena un briciolo di rimembranza per farsi tornare alla mente le mirabolanti dichiarazioni dei vari governi sul tema delle grosse infrastrutture: dalle solenni promesse del trio Piccoli-Rumor-Bisaglia (ora tutti defunti) sulla Valdastico Nord agli annunci del primo governo Prodi sulla Variante di valico dell’Autosole, dalla mappa spiattellata dal premier Berlusconi nello studio di Bruno Vespa scarabocchiata con tutte le infrastrutture alla sovrumana promessa da parte del ministro Passera di mettere in circolo 100 miliardi solo per le opere pubbliche. Neppure il pur modesto governo Letta è rimasto immune dal morbo delle promesse sulle grandi opere. Il risultato di questa grande arte oratoria all’atto pratico si è tradotto nel nulla più assoluto.
Poteva rimanere esente il governo Renzi da questa ormai storica tradizione italica? Certo che no. E infatti dapprima vennero promessi 43 miliardi per le grandi opere, andati poi prosciugandosi fino a diventare 3,89, i quali effettivamente, tramite il decreto «Sblocca-Italia», saranno da spartirsi tra vari cantieri, a partire dall’Alta Velocità per le tratte Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania (da cantierare entro il novembre 2015) fino a vari altri lavori di minor portata, molti dei quali addormentati da anni.
In Italia sono 395 i cantieri mai completati, di cui 150 nella sola Sicilia. Realtà dove spesso e volentieri l’unico obiettivo perseguito è inghiottire fiumi di denaro senza muovere un sasso, dove la carta vincente è quella di impelagarsi tra ricorsi al Tar, ricorsi al Consiglio di Stato, arbitrati vari ed eventuali, dove ogni passo è soggetto al veto degli organi più disparati, dove la complicazione normativa (il codice degli appalti entrato in vigore nel 2006 contiene 257 articoli, a cui si aggiungono 38 allegati) viene rosicchiata fino al midollo e sviscerata in ogni suo aspetto pur di ottenere qualche gruzzolo in più e qualche scadenza di meno, dove per far funzionare le cose in maniera spedita l’unico modo è pagare mazzette (per approfondire). Si pensi soltanto che nel nostro Paese sono in vigore 33mila stazioni appaltanti e si pensi anche che, nell’immane groviglio di competenze, funzioni e istituzioni, ci sono mediamente, per ogni opera, 38 enti con potere di veto. Si pensi inoltre che l’albo dei costruttori è stato sostituito da un sistema privato (le Soa) tale per cui la partecipazione alle gare pubbliche è soggetta a dei privati. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che questo sistema si distingue quasi sempre per eventi singolari tra i quali il fatto che l’ex-senatore di Forza Italia Luigi Grillo, finito nella bufera giudiziaria dell’Expo, fosse nientemeno che azionista di una Soa (Azzurra 2000, dove tra gli azionisti compariva anche il figlio di Cesare Previti).
Non deve sorprendere, quindi, il risultato di un recente studio di Intesa Sanpaolo secondo cui il costo medio di un chilometro d’Alta Velocità nel nostro Paese costa tre volte tanto rispetto a Francia, Spagna e Giappone, oppure il fatto che il costo delle infrastrutture ferroviarie sia di 32 milioni al chilometro in Italia contro i 9 milioni della Spagna e i 10 milioni della Francia. Uno studio della Commissione Europea (relativo ai maggiori progetti finanziati col Fondo europeo di sviluppo regionale) ha sottolineato come «tra il 2000 e il 2006, in Italia i ritardi di esecuzione siano stati pari in media all’88% dei tempi inizialmente stimati, contro una media europea del 26%, e gli aggravi di costo siano stati pari al 38%, contro una media europea del 21%».
Basta guardare al celebre caso della Salerno-Reggio Calabria per rendersi conto della situazione: mentre l’Autostrada del Sole venne completata spendendo (facendo una traslazione con la valuta odierna) il corrispettivo di 4 milioni al chilometro, la famigerata Salerno-Reggio Calabria ne ha richiesti per la sola fase iniziale (quella completata sinora) 5,5.
La questione non si conclude qui. Nei casi in cui si conclude l’opera, ed è questo l’aspetto su cui porre la maggiore attenzione, ci si pone inoltre la domanda beffarda se effettivamente il gioco sia valso la candela. Non è facile, infatti, stimare se l’Italia soffra di carenze infrastrutturali e se, forse, non sia meglio impiegare i fondi pubblici per altre finalità.
Scorrendo i dati, scopriamo che nel 2012 il Belpaese disponeva di soli 876 chilometri di linee veloci contro i 2.125 della Francia e i 3.230 della Spagna. «Gli investimenti in infrastrutture sono uno dei driver fondamentali per la ripresa della crescita e della competitività del Paese» asserivano Edoardo Reviglio e Franco Bassanini sul «Sole 24Ore» del 21 aprile 2012. A primo acchito, quindi, ci potremmo convincere che continuare a investire (anche se rischiando) in questo settore sia uno dei passaggi necessari per far ridestare gli investimenti nel nostro Paese.
Un’opinione discordante arriva da Demetrio Alampi e Giovanna Messina i quali, all’interno dello studio «Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione» («Banca d’Italia Eurosistema», Roma, aprile 2011), rilevano: «La quantità di strade e di ferrovie o le risorse pubbliche investite in un certo arco di tempo rappresentano sicuramente informazioni importanti, ma da sole non sono sufficienti a fornire una rappresentazione realistica di come i trasporti funzionino effettivamente a servizio di un’economia locale». I due studiosi decidono quindi di redigere uno studio applicando non una valutazione quantitativa, ossia quante siano le infrastrutture presenti in Italia, bensì qualitativa, ossia stimando quanto effettivamente siano utili queste opere. Ebbene, il risultato è sorprendente: «I risultati ottenuti applicando questo indicatore mostrano che l’Italia dispone di collegamenti stradali e ferroviari superiori alla media dei 27 Paesi dell’Ue, benché con molte eterogeneità a livello territoriale. Dal punto di vista della connettività con il resto dell’area europea, ad esempio, il sistema italiano di trasporti risulta essere piuttosto efficace nel caso delle strade: in quanto a velocità dei collegamenti l’Italia è al secondo posto nella graduatoria per nazioni (dopo il Lussemburgo). Anche nel caso dei trasporti ferroviari l’Italia continua a mantenere una posizione di vantaggio rispetto alla media europea, anche se ai vertici della graduatoria oggi ci sono Francia, Belgio e Germania, Paesi in cui sono più estese le linee ad Alta Velocità. In Italia inoltre la dotazione di trasporti ferroviari è la più disomogenea fra regione e regione». Una disomogeneità descritta concretamente dal deputato Pd Franco Laratta nel gennaio 2012 nel corso di un’interrogazione parlamentare: le linee a binario doppio nel Mezzogiorno sono il 23% contro il 50% del Settentrione, le linee elettrificate sono il 28% al Sud contro il 49% del Nord e, quel che è peggio, l’andazzo delle cose non fa altro che presagire una disparità ancora maggiore nel corso dei prossimi anni: «I 560 chilometri di Alta Velocità italiana sono stati quasi tutti costruiti al Centro-Nord, costando circa 100 miliardi. Di contro, vengono progressivamente eliminate o versano in stato di totale abbandono le tratte a lunga percorrenza e quelle regionali, specie al Sud». Secondo «ferrovieincalabria.com», una ventina d’anni fa la tratta Bari-Reggio Calabria veniva munita nei giorni lavorativi da 7 treni all’andata e da 7 treni al ritorno. Oggi queste tratte si sono ridotte a tre, sulla cui efficienza è lecito nutrire dubbi: il primo treno impiega 8 ore e 25 minuti, il secondo 9 ore e 35 minuti e il terzo, quello notturno (ma senza cuccetta), «solo» 7 ore. E non sono nemmeno i casi più disperati: secondo la classifica di «Pendolaria» la medaglia d’oro se la aggiudica il percorso Potenza-Matera: per percorrere 102 chilometri bisogna effettuare due cambi e, se tutto va bene, il tempo impiegato è di quasi 7 ore. Una media di velocità di 14,5 chilometri orari.
La colpa, però, non è dovuta al solito ritornello del «mancano i fondi», «lo Stato è indebitato», «non ce lo possiamo permettere» eccetera eccetera. L’attuale numero uno della Bce, nonché ex-governatore di Bankitalia, Mario Draghi, ha affermato nel corso del 2012: «Le risorse finanziarie destinate agli investimenti pubblici nel nostro Paese negli ultimi tre decenni sono in linea con quelle degli altri principali Paesi europei, superiori alla media di Francia, Germania e Regno Unito, anche se più recentemente l’incidenza della spesa per investimenti delle amministrazioni pubbliche sul Pil si sta riducendo (era pari al 2,5% nel 2009, è scesa al 2,0% nel 2011 e un calo ulteriore è atteso per il 2012)». I soldi quindi non solo ci sono, ma vengono anche adoperati in una misura grosso modo equivalente rispetto a quella dei nostri partners europei. Molto semplicemente i soldi adoperati in infrastrutture vengono spartiti male, privilegiando fin troppo spesso (quando i soldi arrivano veramente a destinazione) strutture sulla cui utilità è lecito nutrire dei dubbi e lasciando nell’incuria più totale le aree dove, invece, la carenza infrastrutturale rappresenta un’onta per tutti i cittadini.
Iniettare danaro fresco senza una reale stima dei benefici dell’opera e senza un’autentica revisione delle regole rischia di rappresentare l’ennesima manna dal cielo per tutti coloro che campano perseguendo inconfessabili interessi.

venerdì 17 ottobre 2014

Vietato abbassare la guardia



Passerà l’angosciante perturbazione, i volontari torneranno alla vita di sempre, l’acqua putrida che ha invaso le strade si prosciugherà, le lacrime degli alluvionati evaporeranno, l’inchiostro dei quotidiani verrà adoperato per altre vicende, le gole disturbate dai discorsoni (e dagli sbraiti) di politici ed «esperti» di ogni risma si ammansiranno, i negozi deturpati verranno ripuliti, le scuole riapriranno e tutti torneranno alla loro vita, alla vita di sempre, alla vita di tutti i giorni. Le alluvioni rimarranno un incubo effimero e passeggero, relegato ad un passato che è meglio dimenticare. L’Italia continuerà ad assassinare se stessa, come se nulla fosse accaduto. Il suo terreno verrà visto solo come un’ottima piattaforma ove speculare e cementificare: il divoramento del terreno fertile e l’invasione barbarica del cemento proseguiranno spavaldi e arzilli, senza che nessuno si appresti ad ascoltare gli studiosi che da anni ci avvertono che il consumo del suolo nel nostro Paese, nonostante l’elevata presenza di montagne, si colloca al doppio della media europea. La Germania, pur disponendo di una popolazione nettamente maggiore della nostra e di un’economia industriale all’avanguardia, ha consumato il proprio territorio per una percentuale che non va oltre il 6,8%; la media europea non supera il 4,3% mentre noi, per l’appunto, ci collochiamo notevolmente più in alto di tutti andando oltre l’8%. E mentre, secondo Legambiente, la frenetica speculazione edilizia ci ha fatti arrivare al punto che nella sola città di Roma ci siano qualcosa come 250mila case vuote, l’agricoltura è costretta a ritagliarsi un ruolo sempre più marginale tanto da non riuscire a sopperire nemmeno al 75% del fabbisogno nazionale. Non potrebbe essere altrimenti, se si considera che in quarant’anni sono stati inghiottiti cinque milioni di ettari, qualcosa come Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme. Ogni giorno cento ettari di terreno fertile si trasformano in cemento. La Liguria, in particolar modo, è non a caso una delle regioni che ha subito la maggiore speculazione: secondo il dossier «Cemento Spa» del 2012 redatto da Legambiente, è il territorio con maggiori infrazioni accertate nel ciclo del cemento (da solo rappresenta il 25,2% delle infrazioni di tutto il nord-Italia), e allo stesso tempo (una semplice coincidenza?) è uno dei territori del settentrione con maggiori infiltrazioni mafiose (dei tre comuni del nord sciolti per mafia due sono liguri).
Eppure addebitare i disastri ambientali alla sola cementificazione sarebbe eufemistico: è il discorso più generale dell’incuria dell’uomo verso il territorio a dare la maggiore spinta al proseguire ininterrotto di disastri, un’incuria che passa anche per sottigliezze, che forse sottigliezze non sono, quali l’abbandono delle montagne e delle campagne appenniniche in particolar modo. A titolo di esempio, uno studio del Dps (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) ha certificato che dal 1971 a oggi le zone superiori ai 600 metri d’altezza hanno perso in Emilia-Romagna il 52% della popolazione, in Veneto il 33,3% e in Molise il 46,9%. Un esodo. Tanto per rimanere nei territori più recentemente colpiti, il territorio della Liguria è composto per il 70% da boschi di latifoglie (specie castagni antichi) che fino a cinquant’anni fa venivano accuditi e sfruttati economicamente dalle popolazioni locali: si passavano settimane a raccogliere le castagne, poi si accumulavano i ricci e le foglie e gli si dava fuoco. Il bosco rimaneva pulito. Ora che i liguri hanno pian piano abbandonato quest’attività, il bosco è rimasto incustodito, le foglie si sono stratificate per anni le une sulle altre e così, quando arriva la pioggia, il terreno del bosco non riesce più ad assorbire l’acqua, la quale scorre indisturbata, passa sopra il tappeto di foglie per scendere a valle, imbottire i torrenti e provocare i disastri.
Più di un anno fa la Commissione ambiente della Camera aveva approvato all’unanimità una risoluzione che a leggerla fa venire i brividi: «Le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’81,9% dei comuni (6.633); in esse vivono 5,8 milioni di persone (9,6% della popolazione nazionale), per un totale di 2,4 milioni di famiglie; in tali aree si trovano oltre 1,2 milioni di edifici e più di due terzi delle zone esposte a rischio interessa centri urbani, infrastrutture e aree produttive…La pericolosità degli eventi naturali è senza dubbio amplificata dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano: oltre il 60% degli edifici- circa 7 milioni- è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica per le costruzioni e, di questi, oltre 2,5 milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione e, quindi, più esposti ai rischi idrogeologici». Inoltre: «Il progetto Iffi (Inventario dei fenomeni franosi in Italia), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province autonome, ha censito ad oggi oltre 486mila fenomeni franosi, il 68% delle frane europee si verifica in Italia…La gravità del problema appare altresì evidente, se si pensa che, a partire dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di dissesto idrogeologico gravi in Italia sono stati oltre 4.000 e hanno provocato ingenti danni a persone, case e infrastrutture, ma,  soprattutto, hanno provocato 12.600 morti, mentre il numero dei dispersi e degli sfollati supera i 700mila…Gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni, prima degli anni ’90, a 4-5 l’anno».
In nome della speculazione e in nome degli interessi più disparati sono stati abbandonati alla peggiore incuria anche molti degli incantevoli luoghi d’interesse storico e culturale, i quali finiscono anch’essi per non resistere di fronte alle prime piogge torrenziali. Nel silenzio generale, uno studio di Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele Spizzichino e Alessandro Trigila dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha rivelato che, secondo un primo censimento, nel nostro Paese ci sono 5.511 beni culturali a rischio frana e 11.155 beni a rischio idraulico. Una realtà che trova, ahimé, cospicue conferme: da alcuni mesi a questa parte si vanno disfacendo i bassorilievi della Galleria Umberto I di Napoli, gli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, le mura medievali di Volterra (Pisa), le mura dell’antico stadio romano di Pozzuoli, il castello medievale di Stigliano (Matera), le mura di San Vito Chetino (Chieti), la rocca abbaziale di Subiaco, il castello normanno di Maddaloni, la rocca di Sutera, la «solita» Pompei (secondo il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale Antonio Irlando «per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove di cui non si ha notizia»), le Gualchiere di Remole, il castello di Frinco (Asti), le mura aureliane di Roma, la cinta muraria seicentesca di Palmanova (Udine) e moltissime altre perle della nostra penisola. Il sindaco di Palmanova, Francesco Martines, spiega chiaro e tondo come questi crolli siano dovuti innanzitutto al menefreghismo generale: «Non è un caso se lo smottamento [di un tratto della fortificazione seicentesca di Palmanova, ndr.] ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante. Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto…»
Eppure noi cittadini a tutto questo non prestiamo ascolto, alle grida di dolore che il nostro delicato e sublime territorio ci rivolge preferiamo tapparci le orecchie e proseguire le nostre attività quotidiane. Le istituzioni, magari ben indottrinate dalle lobby e dagli interessi privati più esecrabili, si adeguano a questo andazzo senza che nessuno si mobiliti o s’indigni: ad esempio, il Fondo Rischio Idrogeologico è passato nel periodo 2008-2013 da 551 milioni a 84 milioni. La legge di Stabilità 2014 redatta dal governo Letta lo aveva decurtato portandolo addirittura a 20 milioni (il 96% in meno rispetto al 2008), e solo la commozione popolare seguita ai disastri della Sardegna farà innalzare la quota a 30 milioni, un sedicesimo rispetto a quanto richiesto dalla risoluzione della Commissione ambiente. E pazienza se poi il conto viene presentato con tutti gli interessi del caso: sia in termini economici (secondo l’Ance, l’Associazione dei costruttori, «il costo complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro»), sia, come abbiamo visto, in termini di vite umane, di degrado ambientale e di distruzione del patrimonio artistico. Cerchiamo di ricordarlo sempre, non soltanto quando il fango sommerge le nostre case.

giovedì 9 ottobre 2014

In che Rete siamo



L’Italia è da sempre il Paese dei navigatori. «Nonostante tutto», verrebbe da aggiungere, considerata la situazione disastrosa in cui versa la Rete in tutta la penisola.
Il web negli ultimi anni è diventato un protagonista assoluto della vita mondiale: non solo per lo svago che offrono giochi e social network, ma anche nell’ambito della comunicazione, del commercio, della competitività aziendale, del rapporto con la pubblica amministrazione, arrivando nel giro di pochi mesi a diventare uno strumento indispensabile per svolgere praticamente ogni mansione lavorativa. Una tendenza, questa, che va aumentando in maniera vertiginosa di giorno in giorno. Volete qualche esempio? Secondo un’analisi di MM-One Group su dati Eurostat, il fatturato delle imprese europee ricavato dal web nel 2013 è stato circa del 14%, una media che nasconde il 18% di Slovacchia e Gran Bretagna, il 16% di Ungheria e Finlandia, il 26% della Repubblica Ceca, il 31% dell’Irlanda (praticamente un terzo del fatturato totale delle aziende) e il misero 7% del nostro Paese. La metà della media europea. Settori come il turismo oramai campano in misura determinante grazie alla Rete: almeno il 25% dei quattrini che circolano intorno al comparto vacanziero proviene dal web, con picchi del 39% dell’Inghilterra. L’Italia, il «paese che dovrebbe vivere solo di turismo», sta fermo al 17% (secondo l’Istat, nel 2012 solo il 27.5% di aziende legate al settore dispone di un sito web).
Inoltre, stando a una ricerca MM-One Group, se in Danimarca l’utilizzo della Rete nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione è a quota 100, il nostro Paese è a quota 9. Andando nel dettaglio, scopriamo che mediamente in Europa il 41% dei cittadini ha sbrigato online almeno una parte delle pratiche con gli uffici pubblici: mentre in Danimarca si raggiunge l’85%, in Olanda il 79%, in Finlandia il 69% e in Svezia il 78%, in Italia siamo fermi al 21%. Un municipio su quattro non è nemmeno attrezzato per far scaricare dal web i moduli delle pratiche burocratiche. In Sicilia solo il 56% dei comuni è attrezzato, in Molise il 48% e in Basilicata il 54%. Comunque, per quanto riguarda i comuni che consentono di conseguire l’intero processo burocratico soltanto online, Nord e Sud non conoscono differenze: la media nazionale è solo del 18.9% e, fatta eccezione per l’eccellente dato dell’Emilia-Romagna (un bel 40%), le altre regioni sono un disastro; non si supera il 10.3% in Sicilia, il 9.4% in Veneto, il 9.1% in Basilicata e l’8.4% in Val D’Aosta. Una situazione aggravata dall’ignoranza digitale che accompagna il nostro Paese: gli europei tra i sedici e i settantaquattro anni che non hanno mai navigato in internet sono il 24%, gli italiani sono il 39%, i pugliesi il 50%, i calabresi il 47% e i campani il 49%. Fatta eccezione per cinque regioni rumene e due regioni bulgare, il nostro mezzogiorno ha i peggiori dati europei per quanto riguarda l’ignoranza del web.

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Quasi tutti i governi del mondo hanno capito l’importanza strategica del web nei tempi che corrono. Sebbene le classi dirigenti di molte nazioni non spicchino per responsabilità, sul tema della Rete c’è stata una vera e propria mobilitazione: secondo il sito netindex.com (che studia questo dato facendo qualcosa come cinque milioni di test al giorno), nel 2012 la velocità media di download è di circa quattro volte maggiore rispetto a quella del 2008, oscillando a livello mondiale intorno ai 16.20 megabyte al secondo. Nel quadriennio preso in esame, si può osservare come molte nazioni ci abbiano messo anima e corpo per raggiungere velocità di download al passo coi tempi. La Germania è passata da 7.2 a 22.6 megabyte al secondo, la Svizzera da 6.6 a 34.1, la Svezia da 10.2 a 39.8, il Canada da 4.1 a 18.7, la Francia da 6 a 24.61. Non sono soltanto i soliti «secchioni» ad essersi aggiudicati risultati ragguardevoli: la Lettonia è passata da 7.7 a 38.9, la Romania da 6.5 a 49.3 e la Cina da 1.9 a 16.5 (una velocità di download quasi decuplicata). La media europea è collocata a 24.5 mentre noi siamo a meno di un terzo.
L’Italia, che tra il 2008 e i giorni odierni è passata da 3.1 a 8.51, nel giro di pochi anni è di fatto precipitata nella classifica dei paesi per quanto riguarda la velocità del web: in passato ci trovavamo a 0.9 punti di distacco dal Regno Unito mentre ora siamo a 15.8, ne avevamo 4.1 dalla Germania e ora siamo a 15.7, ne avevamo 3.9 dalla Francia e ora siamo a 18 (dodici anni fa Italia e Francia stavano grosso modo sullo stesso piano), ne avevamo 7.1 dalla Svezia e ora ci ritroviamo a 32.9, ne avevamo 1.3 dalla Spagna e ci ritroviamo a 12, ne avevamo 3.4 dalla Romania e ora abbiamo un distacco di 33, e via di questo passo, compresi tutti i paesi ex-comunisti. Ma sono le classifiche mondiali della velocità di download quelle a far venire la pelle d’oca. Nel novembre 2011 stavamo al 70° posto (dopo Kazakistan e Rwanda), nel maggio 2012 eravamo al 76° posto, nel febbraio 2013 ci eravamo piantati all’85° e alla fine dell’anno eravamo già passati al 93°: a 16 gradini di distanza dalla Turchia, a 10 dalla Grecia, a 44 dalla Slovenia, a 59 dall’Austria, a 65 dalla Germania, a 53 dalla Spagna, a 66 dalla Gran Bretagna, a 70 dalla Francia, a 68 dal Portogallo e a 89 (ottantanove!) posizioni dalla Romania. Un mese fa eravamo al 98esimo posto, facendoci sorpassare da nazioni come Serbia, Portorico e Namibia, situandoci appena sopra il Kenya e a 58 posizioni dalla Cina, con il risultato di trovarci penultimi tra i paesi europei (solo la Croazia fa peggio di noi) e ultimi tra i 34 paesi dell’Ocse. La vergogna è cocente, se si pensa che l’Italia è un paese che fa parte del G8. Tra i paesi facenti parte dell’organizzazione ovviamente siamo in fondo alla classifica, ma la cosa raggiunge quasi il grottesco se si pensa che al penultimo posto c’è il Canada, il quale, con una media attuale di 23.9 megabyte, ha una velocità di download tripla rispetto a quella del Belpaese. La nostra dirimpettaia Svizzera (con 50.6 megabyte al secondo) ha una velocità di download sestupla rispetto a noi, Hong Kong (che sta a quota 79.6 megabyte) ha una velocità nove volte maggiore della nostra, la snobbata Romania (con un ottimo 55.5) ha una velocità sette volte superiore.
Secondo una classifica mondiale di fine 2013 di Akamai, l’Italia sta alla 48esima posizione per velocità media di navigazione misurata, dopo paesi come Slovacchia, Romania, Polonia, Portogallo e Ungheria. La cosa peggiore è costituita però dal fatto che in poco più di un anno e mezzo abbiamo perso la bellezza di 26 posizioni: soltanto nel maggio 2012 eravamo al 22esimo posto.
Per la velocità misurata in megabit al secondo la situazione non migliora; anzi, proprio a tal riguardo il «Sole 24Ore» ha sparato alla fine del 2013 il titolo «La cenerentola d’Europa», spiegando come (mentre iniziano a circolare fibre da 30 Mbps) il nostro Paese detenga una media di 4.9 megabit al secondo, la metà rispetto a quanto accade in paesi come Regno Unito, Belgio, Danimarca e Repubblica Ceca. Con l’Olanda non si può nemmeno fare il confronto, visto che nella patria di Spinoza la media è di 12.5 megabit.
E non sono nemmeno i dati più sconfortanti: sempre secondo netindex.com, la velocità di upload (ossia quanto ci si mette a caricare un file nella Rete) vede tra i primi classificati Hong Kong, Lussemburgo, Corea del Sud, Singapore, Andorra, Macao, Lituania e Giappone. Bisogna scorrere molto la classifica, bisogna scendere sotto le posizioni di Indonesia, Filippine, Trinidad e Tobago e addirittura sotto le isole Barbados per trovare l’Italia, piazzata al 157° posto con una velocità di upload che è almeno 37 volte inferiore rispetto a quella di Hong Kong e non molto distante da quella di paesi come Congo e Burkina Faso.
Un recente rapporto sul mercato delle telecomunicazioni redatto dalla Commissione europea per il periodo 2012-2013, pur parlando di «leggeri miglioramenti» sul tema della banda larga, rigira il coltello nella piaga denunciando come nel nostro Paese «le penetrazioni della banda larga fissa tradizionale e di nuova generazione sono ancora molto al di sotto della media». Sempre secondo il rapporto, siamo ultimi nell’Ue per diffusione di banda con velocità da 30 Mbps e per copertura delle reti d’accesso di nuova generazione. La qualità delle linee esistenti viene definita «molto bassa», con solo il 18.4% degli abbonamenti con velocità superiori a 10 Mbps (la media Ue è del 66%). Il ricavo medio per utente, considerata una media europea di 187 euro, da noi è ferma a 153 con una perdita del 3.4% nel 2011 e del 6.1% nel 2012. Gli investimenti nel settore delle telecomunicazioni continuano a languire, scendendo del 2.3% nel 2011 e dello 0.6% nel 2012 (a livello europeo c’è stata invece una ripresa del 7.8%).
Se la cava bene la banda larga mobile, che a gennaio ha visto una quota di partecipazione del 66.3%, il doppio del 2011 e addirittura superiore alla media Ue del 61.1%. Ma ovviamente questo non può bastare.

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La situazione della Rete continua a peggiorare nonostante l’Agenda digitale italiana abbia sottolineato come in Italia il web abbia dato vita a 700mila posti di lavoro (il sestuplo rispetto a un settore storico come il chimico) e nonostante la Confesercenti abbia stimato che «ogni comunicazione burocratica con i metodi tradizionali costa alla pubblica amministrazione 49 minuti di lavoro e 22 euro. Una email costa 2 euro, undici volte meno». Non c’è nulla da fare: la carta è ancora la sovrana indiscussa dell’Italia. Una parlamentare rimasta anonima ha rivelato nel 2012 a «Libero» di ricevere ogni anno «una marea di scatoloni. Ne apro uno: centinaia di buste piccole, da lettera, con l’intestazione Camera dei deputati, che troverò dappertutto. Ne apro un altro: centinaia di buste di media grandezza. Un altro ancora: bustoni formato A5. Ancora: un altro tipo di busta normale, meno pregiata. Guardo il primo dei due armadi di cui è dotato il mio ufficio. Metà è già pieno. Continuo ad aprire. […] Ecco i fogli di carta: risme formato lettera, formato letterina, cartoncini, carta per fotocopie. L’armadio scoppia». Come se non bastasse, ogni atto parlamentare, ddl, interrogazione, emendamento e ordine del giorno continua ad essere stampato e consegnato ai vari organi parlamentari. Emanuele Bellano di «Reportime» ha spiegato: «Sommando tutte le voci di bilancio la cifra nel 2013 arriva a 6 milioni di euro, dentro ci sono 388mila euro per i vari tipi di carta e per materiali di cancelleria, e 30mila euro solo per consulenze su come stampare o rilegare i documenti. […] Ogni anno, mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro». Fondandosi sui dati forniti da Montecitorio, si può tranquillamente sostenere che la Camera ha cestinato 1644 chilogrammi di carta per ogni giorno di seduta, quasi tre chili di documenti per ogni deputato.
E i governi cosa ne pensano? Berlusconi, superato il periodo in cui dichiarava spavaldamente: «Io di internet a casa non ho bisogno. Ho il mio internet umano, che è Gianni Letta», propugnò le famose tre «i» (inglese, imprese, internet), finite ahimé nel dimenticatoio. Ma avvicinandosi nel tempo apprendiamo che il premier Renzi (quello fissato con twitter e con la mania di stare al passo coi tempi) aveva annunciato in pompa magna al forum Digital Venice d’inizio luglio 2014 che tecnologia e innovazione sarebbero stati i pilastri del semestre di presidenza italiana dell’Ue, e il ministro Padoan aveva lanciato un messaggio analogo davanti alla commissione Affari economici del Parlamento europeo. Nonostante le sollecitazioni europee (l’ultima nel 2013) d’investire nella banda larga e nonostante gli obiettivi che i governi si sono dati (obiettivi contenuti nell’Agenda digitale e nel programma «Europa 2020»), a parte un uso smodato del social network non abbiamo visto un bel nulla. Anzi, il decreto «sblocca-Italia» prevede una limitazione degli aiuti per l’estensione della banda larga. Andiamo bene.

domenica 5 ottobre 2014

Il dizionario del renzismo



George Orwell c’insegna che i detentori del potere, se intendono accrescere il loro consenso e la loro supremazia, hanno sempre tra i loro maggiori pensieri il desiderio d’impoverire il vocabolario dei loro sudditi. È una strana alchimia sociologica: maggiore capacità espressiva significa generalmente maggiore apertura mentale, e di conseguenza maggiore libertà di pensiero. Non sorprende quindi se i leader più ferrati nella comunicazione adottino il concetto opposto, ossia quello di trasmettere il minor vocabolario possibile in modo da appiattire i princìpi, in modo da neutralizzare i concetti più ostici, in modo da banalizzare la visione della società.
L’Italia, da questo punto di vista, possiede anche «una marcia in più»: nel nostro Paese, infatti, la complicazione del linguaggio è stata (ed è tuttora) una formidabile pratica adottata dai burocrati (di fatto i veri padroni della nostra penisola) per abbindolare i cittadini-sudditi, lasciar prosperare la corruzione e soprattutto mantenere inalterato il loro immenso e sotterraneo potere. Un esempio? Ecco cosa scrisse nel 2010 Vincenzo Lissa, segretario generale al Comune di Ariano Irpino, rivolgendosi al sindaco del suddetto comune: «Ho letto lo scritto emarginato in epigrafe con tutta l’attenzione che ha meritato. Nulla più. Vediamo elenticamente perché. Da essa viene in emersione una apodittica concezione del diritto immaginato come un’astrazione da investire acriticamente. Infatti è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica che implica meccanicisticamente un calco a rime obbligato: la devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico» arrivando al punto in cui «non si può non rilevare la panie della scepsi»…insomma, il fantasma dell’Azzecca-Garbugli continua ad aggirarsi indisturbato nella vita quotidiana degli italiani, contribuendo a far dilagare (forse inconsciamente) il concetto che il «parlar chiaro», furbescamente strumentalizzato da certe figure politiche per abbandonarsi all’estremo opposto della banalità populista, sia sinonimo di amministrazione efficiente e trasparente. Matteo Renzi ci sguazza leggiadramente in questa semplificazione al limite dell’infantilismo; anzi, è diventata essa stessa il simbolo della sua carriera politica. Sono state le parole d’ordine a far conoscere Renzi, a renderlo urticante o irresistibile a seconda degli appetiti. Vediamo le principali (probabilmente le uniche):

Rottamazione
29 agosto 2010, intervista a «La Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani…Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi».
Lo si può affermare scientificamente: la figura del «rottamatore» è comparsa ufficialmente nella lingua italiana soltanto grazie a Renzi. Lo testimonia il Dizionario Treccani, che ha inserito tale vocabolo solamente nel 2012; esattamente nell’anno in cui il dibattito sulla «rottamazione» si faceva incandescente contrapponendo coloro che ritenevano tale sostantivo una recrudescenza squadrista e coloro che lo ritenevano una semplice goliardata utile per smuovere le acque del partito. Un dibattito a tratti aspro, che ha raggiunto il suo apice su «l’Unità» del 16 ottobre, quando Michele Prospero scrisse un pezzo in prima pagina il cui titolo era «Rottamazione, idea fascistoide».
Guardando questa discussione col senno di poi, si può affermare senza problemi che «rottamazione» è la parola più riuscita del lessico renziano. Ha sicuramente un forte retrogusto demagogico, ma sentite cosa ha scritto recentemente Romano Prodi in un articolo passato inosservato: «Il concetto di rottamazione mi ha interessato fin da quando ero ragazzo, proprio perché la prima fase dello sviluppo economico postbellico si è ampiamente fondata sulla rottamazione. L’enorme quantità dei residui militari lasciati dall’esercito americano è stata acquistata, smontata e ricomposta in modo da costituire il primo nucleo di una nuova elementare struttura produttiva. Da tre camion “Dodge” residuati di guerra se ne ricavava uno pienamente efficiente e si utilizzavano le parti ancora funzionanti degli altri due come pezzi di ricambio. Il guadagno del “rottamatore” consisteva proprio nell’utilizzare quanto più si poteva dei vecchi mezzi, vendendo una marmitta, una batteria, un argano o una gru a coloro che volevano intraprendere qualche iniziativa. Innumerevoli sono le storie di imprese generate dalla rottamazione che tuttora prosperano, come la Fagioli o la Brevini, la prima costruita su un vecchio Dodge e la seconda smontando gli ingranaggi delle spolette delle bombe americane. E molti paesi hanno fondato sulla rottamazione la propria rinascita economica». La frase successiva suona come un ammonimento: «Non si tratta naturalmente di un processo elementare perché il buon rottamatore non solo deve conoscere bene l’arte dello smontaggio ma deve anche sfruttare bene le risorse che questo processo gli riserva perché, è utile ripeterlo, proprio in questo sta il suo guadagno».
A ognuno le proprie conclusioni.

Gufi
28 marzo 2014: «C’è un esercito di gufi che spera che l’Italia vada male», 20 maggio 2014: «I gufi sono i peggiori direttori commerciali dell’Italia», 20 luglio 2014: «I gufi, le riforme, i conti non mi preoccupano», 1 settembre 2014: «Gufi o non gufi, arriveremo a destinazione».
Una domanda a questo punto è d’obbligo: chi sono questi «gufi»? Di preciso, nessuno lo sa (l’analisi è formalmente bandita dal pensiero renziano), a livello superficiale, quello su cui naviga la barca del renzismo, trapela che i gufi sono in buona sostanza oppositori, critici, scettici e titubanti del fenomeno Renzi, meglio se di sinistra. Tutti insieme, tutti in un unico calderone: dai burocrati di Stato all’opinionista del quotidiano, da Corrado Passera all’avventore del bar del paese, dalla Meloni alla Spinelli, da Borghezio a Civati, da Ostellino a Rodotà, da chi esprime una critica in buona fede a chi effettivamente vuole frenare qualsiasi tentativo di riforma. Non esistono distinzioni di sorta, i «gufi» sono un’entità metafisica su cui scaricare tutte le responsabilità di quanto avvenuto nell’Italia degli ultimi anni, e per macchiarsi di una simile colpa basta soltanto esprimere anche la più lieve forma di tentennamento nei riguardi del premier. Eppure, che ci crediate o no, la «gufi-mania» non è una trovata originale di Renzi. Qualche anno fa un noto uomo politico inveiva negli studi di «Porta a Porta»: «Tutti questi signori, D’Alema in testa, sono dei veterocomunismi che usano metodi stalinisti. E sono dei vecchi gufi!» Volete sapere di chi si tratta? Forse lo avete già capito: è Silvio Berlusconi. Proseguendo la ricerca, si scopre però come la figura del perfido rapace notturno sia apparsa oscura e minacciosa anche in altre occasioni della vita politica degli ultimi anni: «I gufi dicevano che la crisi avrebbe spazzato via l’Italia, invece il sistema ha tenuto meglio degli altri», sentenziava nel gennaio 2010 Giulio Tremonti. E contro i «soliti gufi» ha avuto modo di sfogarsi anche un altro berlusconiano DOC, Renato Brunetta.
A me è venuto un dubbio: non è che per caso le ingiurie contro i «gufi» rientrino anch’esse nel patto del Nazareno?

Professoroni
31 marzo 2014, intervista al «Corriere della Sera»: «Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire “non sono d’accordo”, lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».
Vi è una particolare categoria di «gufi» che merita un suo particolare epiteto: i «professoroni». Anche qui sorge la domanda: di chi si tratta? E anche qui la risposta si presta a molteplici ipotesi: si tratta solo dei giuristi firmatari dell’appello contro la «svolta autoritaria» o si tratta, più in generale, di un attacco al mondo culturale? Rimane il fatto che, dispiace dirlo, anche in questo caso l’attacco non brilla per originalità; lo scontro tra gli intellettuali e la politica, difatti, è una saga che accompagna la storia mondiale da un bel po’ di tempo: Napoleone Bonaparte si scagliava contro gli «idéologues», il ferreo ministro degli Interni centrista Mario Scelba inveiva contro il «culturame di certuni», Bettino Craxi definì lo storico Ernesto Galli della Loggia «intellettuale dei miei stivali», un epiteto ben presto sostituito da «politologo da bar», firmato da Silvio Berlusconi. Una contrapposizione che non attraversa soltanto la storia, ma la stessa esistenza dell’attuale premier: prima le discussioni con un insegnante missino ai tempi del liceo, poi l’insofferenza verso il mondo universitario («tanta parte dei docenti e dei loro collaboratori» vive di «piccolezze») culminata con un sonoro alterco al momento della discussione della tesi, poi «la lotta contro le baronie» nel periodo della presidenza alla Provincia di Firenze che vede il suo zenith quando lo spavaldo signorino arriva ad invocare il dimezzamento «di botto» e «d’imperio» di tutte le università italiane, poi ancora la sua stizza verso «la lobby dei docenti» che «condiziona spesso le nostre scelte», arrivando alla lunga sequela di schiaffi alle sovrintendenze (l’ennesimo corpo intermedio d’abbattere): dapprima l’accusa che i beni culturali sono trattati come «un giochino per dotti professori cresciuti a pane e libri», poi l’auspicio che la politica «tolga a baronie e sovrintendenze la regia di questi settori». Insomma, la battaglia contro un certo mondo ha radici salde e profonde nella mentalità renziana. Eppure il termine «professoroni» rappresenta una novità assoluta. Uno sberleffo a metà strada tra Lucignolo e Rugantino, dal sapore antico, confermato in questo senso da un passo de «L’uomo medievale» (J. Le Goff, Laterza, 1993): «Mentre “magister” indica sempre una qualità di elevatezza morale e dignità indiscussa, “professor” sovente reca con sé una traccia di ironia verso la boria e la presunzione di personaggi che confidano troppo nel loro sapere». Una definizione che calza a pennello con la concezione renziana dell’universo culturale.

mercoledì 1 ottobre 2014

Tutta colpa di Polifemo



Inutile girarci intorno: il Mezzogiorno vive in una situazione catastrofica. La disoccupazione ormai riguarda più della metà dei giovani, la povertà sta umiliando sempre più famiglie, le infrastrutture sono totalmente assenti, i servizi (pagati un occhio nella testa dai contribuenti onesti) sono a livelli indecenti, la giustizia non esiste, scuola e università espletano maldestramente le loro mansioni, la classe politica nazionale e locale usa i pochi soldi a disposizione per soddisfare i propri interessi, la criminalità, la corruzione, l’evasione fiscale, la disaffezione verso lo Stato sono un fenomeno ormai inarrestabile. Per risollevare il meridione occorrerebbe un miracolo: o si prega San Gennaro (ma finora i suoi risultati sono stati assai grami) oppure la soluzione più logica è quella di un colpo di fianchi che coinvolga l’intera cittadinanza di quelle regioni. Sono molti i meridionali onesti pronti a rimboccarsi le maniche, a studiare la situazione senza pregiudizi e a sforzarsi per migliorare le proprie condizioni. Ma sono ancora troppo pochi rispetto al totale della popolazione: una popolazione che spesso, quando non è direttamente complice della criminalità, preferisce sfogarsi su un capro espiatorio, preferisce millantare complotti che investirebbero il Mezzogiorno, preferisce trovare delle assurde ragioni storiche che starebbero a testimoniare come la situazione del Sud-Italia non sia causata dalla disaffezione civica che si trascina in molte frange della popolazione. E ovviamente chi prova a denunciare la situazione disastrosa del meridione fa parte di quel complotto.
Sentite cosa diceva l’ex-governatore della Sicilia Raffaele Lombardo in un’intervista al «Corriere della Sera»: «Non è stato Garibaldi; è stato Ulisse. E il primo di una lunga serie di scrittori che hanno umiliato la Sicilia è Omero. Polifemo era il povero siciliano, un pecoraio che badava al gregge e vendeva il suo formaggio. Ulisse arriva dal mare, sconfigge il gigante cattivo, lo acceca, lo lascia per morto, e passa pure alla storia come il civilizzatore buono. Da lì comincia il saccheggio della mia isola, troppo ricca per non attirare i predoni». Insomma, la vicenda del viaggio di Ulisse è stata studiata appositamente da Omero per portare discredito alla ricca e invidiata isola. Una congiura che si perpetua da millenni a scapito del Mezzogiorno, e che arriva intatta ai giorni attuali: basta solo accennare un’ingiustizia che avviene nel meridione per essere tacciati di invidia, malafede o ignoranza. L’Economist, esattamente come l’Odissea, entra pienamente in questo piano strategico di denigrazione del Mezzogiorno. Quando l’autorevole rivista definì la Sicilia «Terzo mondo dell’Unione Europea», il governatore Totò Cuffaro replicò: «Siamo avvezzi ad attacchi interessati» fondati solo su «mezze verità mischiate a una buona quantità di luoghi comuni».
Ma il bello deve ancora venire: dopo essersi dichiarato «sorpreso e amareggiato dal fatto che un autorevole organo della stampa internazionale quale “The Economist” dia a intendere all’opinione pubblica una superficiale e stereotipata elencazione di problematiche che non da oggi affliggono la Sicilia», Cuffaro affermò senza remore: «Mi chiedo quali interessi ci siano dietro queste analisi, giunte proprio in un momento nel quale per una convergenza di fattori, non ultimo la nuova stabilità politica, qualificati investitori internazionali guardano alla Sicilia come concreto orizzonte della loro espansione», concludendo con una domanda retorica degna di Giacobbo: «A chi interessa accreditare l’immagine di un’isola alla deriva?». Quando, sempre l’Economist, pubblicò una vignetta satirica in cui il Mezzogiorno veniva unito geograficamente alla Grecia in un’unica regione chiamata «Bordello», Cuffaro diede il meglio di sé: «Sarà pure humour inglese ma assomiglia tanto a un proclama violentemente antimeridionale. Evidentemente il newsmagazine britannico, espressione tradizionale dei poteri forti, di quella globalizzazione senz’anima che sta distruggendo l’economia mondiale assieme alle radici storico-culturali dei territori, non conosce la storia». Ed è a questo punto che il governatore si abbandona ad una disquisizione storica talmente ornata da bufale e castronerie da far arrossire anche il più somaro tra gli scolari: «Infatti il Sud, al tempo del Regno delle Due Sicilie, poteva vantare un sistema industriale in grado di competere con quelli di Inghilterra e Francia, e un’economia florida che fu depredata dopo l’Unità d’Italia, a cui non furono estranee la massoneria e la finanza inglesi, con la spoliazione delle cospicue riserve auree del Banco di Sicilia e di quello di Napoli a favore delle esangui casse dei Savoia».
Un modo di pensare molto (troppo) diffuso che a volte sfiora il senso del ridicolo. Prendiamo uno dei casi più eclatanti: qualche anno fa la stampa nazionale divulgò la notizia che a Catanzaro l’esame di Stato per diventare avvocati si svolgeva in un clima assai bizzarro. Bizzarro sì, ma rinomato in tutt’Italia, visto che ogni anno il capoluogo calabrese veniva assalito da un’orda di aspiranti legali. Se infatti in alcune zone d’Italia la percentuale di respinti arriva a sfiorare il 94%, nel 2000 la Calabria sfornava avvocati tanti quanto Liguria, Umbria, Molise, Veneto, Piemonte, Val d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Emilia-Romagna e Sardegna messi insieme. La tecnica per ottenere questi risultati è una delle più elementari nel mondo della scuola: il dettato. Ha spiegato una candidata: «Come volete che sia andata? Entra un commissario e fa: “Scrivete”. E comincia a dettare il tema. Già bello e fatto. Piano piano. Con pazienza. Per dare modo a tutti di non perdere il filo». La lettura dei temi non lascia spazio a dubbi: sono tutti uguali. Vista la ridicola e incresciosa situazione, al posto di nascondersi in un imbarazzato silenzio, il Consiglio del locale Ordine degli Avvocati ha pensato bene di gridare al complotto, d’inveire contro «la ferocia demolitrice con cui in questi ultimi giorni la stampa, la radio e la televisione hanno aggredito tutta la città di Catanzaro indicando al pubblico ludibrio una categoria professionale, quella degli avvocati dell’intera provincia, ben nota in campo nazionale per le sue indiscusse capacità, probità, signorilità […] Con inutile e gratuita ironia si critica la larghezza delle promozioni […] specularmene non può non farsi a meno di criticare la ristrettezza di molte commissioni, specie del Nord […]» e via di questo passo. Ovviamente non manca il riferimento all’«assoluta correttezza e rigore» che accompagnerebbero questi esami. E questo è niente. Sempre su questa vicenda il quotidiano «Il Domani» arrivò a sparare il titolo: «Si è voluto creare un caso!», corredato da un occhiello che asseriva indignato: «Noti professionisti manifestano stupore per i toni scandalistici che ha assunto la vicenda» e (la parte più tragicomica) da un prodigioso contenuto dell’articolo in cui ci si scagliava contro «la prontezza con la quale il “Corriere della Sera” ha, ancora una volta, messo in risalto un possibile aspetto negativo della nostra regione […] Noi calabresi siamo un po’ permalosi e restiamo dell’idea che i settentrionali tendano, forse inconsapevolmente, a evidenziare i nostri “difetti” piuttosto che i nostri “pregi”», concludendo con una frase degna di essere incorniciata: «La “truffa” scoperta a Catanzaro fa quasi ridere rispetto alle sublimi porcherie svelate dall’inchiesta Mani pulite!».
Il complotto nordista è una piovra silenziosa i cui tentacoli sono arrivati ad occupare tutti i gangli della vita nazionale (e non solo), dall’epica classica ai mezzi d’informazione arrivando fino…al campionato di calcio. Come dimenticare quella volta in cui Clemente Mastella (era il 1996) proclamò furioso: «Quest’anno l’unica società meridionale presente nel maggiore campionato è il Napoli. È una palese ed evidente ingiustizia di fatto […] A me interessa porre un problema che esiste e che appare lesivo della dignità di tanti sportivi meridionali»? Non si trattava di uno sfogo momentaneo; in un’altra occasione, con un impeto uguale e opposto rispetto al nordismo di Umberto Bossi, invocò una «ribellione del Sud» affermando: «Questi del Nord ci vogliono sotterrare, ci vogliono umiliati e servi. Dai cento lire all’Irpinia ed è scandalo, copri d’oro il Trentino e la Valle d’Aosta ed è tutto giusto». Sempre colpa del Nord, ovviamente. Il Nord avido e rosicone che vuole depredare il Mezzogiorno per pura invidia. Solo persone dall’elevata caratura morale e dall’elevatissimo amore per il suo territorio come Giuseppe Scopelliti cercano in tutti i modi di frenare questo fenomeno! Sentite cosa affermò quando alcune statue antiche vennero prese in prestito dai musei di Mazara del Vallo e Reggio Calabria per esporle provvisoriamente all’interno di una mostra allestita a Monza: «È un vero e proprio saccheggio quello che si sta perpetrando ai danni delle bellezze e delle ricchezze della nostra terra!».
Il Mezzogiorno, se vuole trovare una via d’uscita alla sua situazione, deve innanzitutto abbandonare queste manie di persecuzione che arrivano a sfociare spesso e volentieri in un complottismo delirante. Il Nord ha le sue grane, è preda di numerose nefandezze e non è di certo esente dall’ottuso vittimismo furbescamente cavalcato dai leghisti. Ma tutto ciò non può fornire un alibi per la situazione disastrosa che sta vivendo il Mezzogiorno, né tantomeno basta a dimostrare una superiorità civile e morale del Sud rispetto al Nord. Come ha spiegato l’imprenditore Santo Versace: «Il vittimismo va maledetto. Impedisce al Mezzogiorno di esprimere tutte le sue potenzialità. Cercare rifugio nel vittimismo serve a raccontare a se stessi una cosa falsa: noi potremmo essere un’altra cosa, sono gli altri che non ci consentono di esprimerci. E lì vanno a saldarsi anche la cattiva politica e la ‘ndrangheta». La conclusione migliore a questo pezzo la fornisce però un’altra figura di spicco della società meridionale, Curzio Malaparte: «La peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali. Né vale la scusa che i panni sporchi si lavano in famiglia. Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».