lunedì 20 luglio 2015

Analisi di un colpo di Stato



Se prestiamo orecchio al sommo sacerdote della piena libertà dei mercati, mister von Hayek, il compimento di una federazioni di Stati e la tutela dei principi democratici rappresentano un gioco a somma zero ove, alla stregua di una clessidra, più si predilige l’uno e più si penalizza l’altra. Sconforto e sbigottimento si mescolano nella lettura di quanto questo prestigioso economista concludeva nel 1939 sul funzionamento di «comunità» di nazioni sovrane: partendo dal presupposto che non esiste «alcun esempio storico di paesi con una politica estera e della difesa comune, senza un sistema economico comunitario», privo di conseguenza di dazi interni e vincoli nella circolazione di capitali, si arriva alla logica conclusione che la possibilità d’intervento economico sull’economia da parte dei singoli governi delle varie nazioni ne risulta straordinariamente ridotta («per il singolo stato sarà difficile realizzare perfino limitazioni normative sul lavoro minorile o sulla regolamentazione dell’orario di lavoro», si afferma) al punto tale che viene considerato sì «difficile immaginare che gli inglesi o i francesi affidino la difesa della loro vita, della loro libertà e della loro proprietà- in breve, le funzioni di uno stato liberale- a un’organizzazione sovranazionale», ma al contempo «non sembra né probabile né auspicabile che essi siano disposti a consegnare a un governo federale il potere di regolare la loro vita economica, di decidere che cosa debbano produrre o consumare. Eppure, allo stesso tempo, in una federazione nessuna di queste competenze potrebbe rimanere a carico degli stati nazionali. Ne risulta che entrare a far parte di una federazione significa accettare che né il governo della federazione, né il governo dei singoli stati avrà il diritto di pianificare la vita economica in senso socialista».
Come si è già avuto modo d’intravedere, non è la realizzazione di un (comunque utopico) programma socialista ad essere incompatibile con un’unione federale. Hayek afferma infatti che a livello generale in una tale comunità ogni controllo democratico sull’attività economica privata sia da considerarsi bandito, lacerando profondamente di conseguenza la sostanza dei processi democratici. Una consapevolezza che viene rivendicata senza troppi fronzoli: «Se dovesse risultare che la democrazia in ambito internazionale è possibile solo se le funzioni attribuite al governo internazionale si limitano a un programma di tipo liberista, ciò non farebbe altro che confermare l’esperienza sin qui acquisita su scala nazionale, da cui appare ogni giorno più evidente che la democrazia funziona solo se non la sovraccarichiamo, e se le maggioranze evitano di abusare del proprio potere interferendo con la libertà individuale». La frase successiva è di sbalorditiva chiarezza e preveggenza: «Se il prezzo che dobbiamo pagare per un governo democratico internazionale è la restrizione del suo potere e del suo raggio d’azione, non è affatto un prezzo troppo alto» (Friedrich von Hayek, dal saggio «The Economic Conditions of Interstate Federalism», pubblicato nel settembre 1939 sulla rivista «New Commonwealth Quarterly»).

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L’attuale Primo Ministro greco potrà sollevare opinioni contrastanti, ma il merito che gli va riconosciuto è quello di aver mostrato con ineguagliabile chiarezza la reale condizione che tiene in vita l’attuale agglomerato che ci ostiniamo a chiamare «Unione (sic) Europea», ossia il tassativo divieto di una gestione degli Stati all’insegna della democrazia e della giustizia sociale. Non sussistevano molti dubbi su chi, complice la globalizzazione e la progressiva concentrazione della ricchezza, dirigeva fattivamente le sorti del mondo esaudendo molto banalmente l’accrescimento dei propri profitti; ma nel mentre fino ad oggi in molti si erano illusi che la politica in questo processo fosse stata violentemente emarginata per lasciare campo libero ad una burocrazia asservita a precisi interessi finanziari globali, in questi giorni si è chiarito che la politica è presente, consapevole e scandalosamente condiscendente con un assetto di potere fondato paradossalmente sulla sua soppressione. Un suicidio ampiamente meditato, potremmo definirlo.
L’estenuante trattativa Grecia-creditori, specie nelle ultime settimane, ha testimoniato l’unico vero scopo delle controparti europee: voler umiliare con ogni mezzo a disposizione qualsiasi barlume di speranza autenticamente democratica nell’eurozona, non limitandosi a seguire i diktat e le pressioni provenienti dal grande capitale finanziario ma agendo in prima persona per rivendicare che i dogmi della concentrazione di ricchezza sono semplicemente intangibili, anche a costo di creare temporanei malumori nelle Borse, più volte euforiche (e altrettante volte deluse) quando sembrava di essere ad un passo dall’accordo e quel passo non veniva mai compiuto. Il motivo lo si comprende in queste ore: l’unica possibilità presa in considerazione dai creditori era la resa incondizionata, e a forza di pressioni di ogni genere (tra queste va segnalata l’interruzione dell’erogazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea) l’obbiettivo è stato pienamente raggiunto. «L’obbedienza nei confronti delle disposizioni del mercato viene ricompensata, la disobbedienza punita», scriveva qualche tempo fa l’alfiere del liberismo Wilhelm Röpke («Die Gesellschaftskrises der Gegenwart», Rentsch Erlenbach-Zürich 1942, pag.146). E punizione fu.
Balza subito agli occhi la deliberata, ben lontana dall’insensibilità tecnocratica imputata alle istituzioni comunitarie da varie parti, disparità di trattamento di una Bce da un lato testardamente refrattaria a concedere una decina di miliardi alla minuscola e annaspante economia greca e dall’altro lato la commovente generosità dimostrata quando si tratta di iniettare ogni mese sessanta miliardi di euro per rafforzare il sistema bancario dell’Unione.
Queste sono scelte meramente politiche, aggravate dalla pesantissima responsabilità di non essere sottoposte ad un controllo democratico, anzi di volerlo sopprimere sempre di più al fine di ottenere in misura crescente linfa vitale e disinvoltura d’azione.

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Se alla situazione di organi dello Stato (anche legittimati democraticamente, come solitamente i governi europei) che responsabilmente approfittano del potere concessogli per perseguire con crudele ossessività gli interessi economici dei grandi apparati finanziari abbiniamo la definizione che emerge in una pubblicazione a cura di Ch. Boutin e F. Rouvillois («Le coup d’État. Recours à la force ou dernier mot du politique?», F.-X. de Guibert, Paris 2007) secondo cui «la presa del potere nel colpo di Stato è per definizione l’atto di persone che al momento della sua esecuzione sono titolari di funzioni in seno all’apparato dello Stato» si giunge con grande facilità a concludere che quello in corso in Europa ha tutti i crismi per essere definito un golpe. Che ora vede nell’oppressione della piccola penisola ellenica la sua evidenza più sbalorditiva, ma con metodi truffaldini e di più lungo periodo perseguita con costanza in tutta l’eurozona.
Se si vuole mettere un anno come inizio di questo processo questi potrebbe essere il 1992, precisamente il giorno in cui viene siglata la prima versione del Trattato consolidato dell’Unione Europea ove i governi europei firmano e controfirmano una sequela di disposizioni tra cui spicca l’articolo 123 (comma primo): «Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca Centrale Europea o da parte delle Banche Centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche Centrali Nazionali”), a istituzioni, organi o organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca Centrale Europea o delle Banche Centrali Nazionali».
Con tale disposizione mai sottoposta al vaglio dei cittadini la Bce viene resa non solo l’unica Banca Centrale al mondo priva del potere di creare denaro per sostenere l’economia reale e assestare il bilancio dello Stato, ma si elargisce piena attuazione alla possibilità da parte di questa di donare a tassi irrisori una quantità potenzialmente infinita di quattrini alle banche commerciali.
Le conseguenze sono vividamente osservabili: il fondamentale potere di creare denaro finisce a totale discrezione delle banche private, innescando in tal modo la grave distorsione dovuta al fatto che una nazione alla disperata ricerca di denaro ha tra le mani l’unica possibilità di rivolgersi ad un ente privato dotato a questo punto di un incredibile potere ricattatorio sulla nazione debitrice.
Ove però la forza di rendere succubi gli Stati formalmente democratici non riesce a giungere pienamente a destinazione, nel corso degli anni si è succeduta una lunga serie di Trattati, vincoli, minacce di ritorsioni, coercizioni (si pensi alla lettera spedita dalla Bce al governo italiano nell’estate 2011) e impegni al fine di rendere pienamente operativa (e soprattutto legittima) l’azione di spostamento della ricchezza agli oligarchi della finanza. Si legga, a titolo d’esempio, il Patto Euro Plus (da «Patto Euro Plus. Coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza», allegato al Def approvato dal Consiglio dei Ministri il 13/04/2011, pag.XIII): «Gli Stati membri partecipanti s’impegnano ad adottare tutte le misure necessarie per realizzare gli obiettivi seguenti: stimolare la competitività; stimolare l’occupazione; concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; rafforzare la stabilità finanziaria». Se queste affermazioni apparentemente oggettive non suscitano grande scalpore, andando nel dettaglio si scovano impegni a «esaminare gli accordi salariali e […] il grado di accentramento degli stessi», s’inneggia alla «flessicurezza» e, col pretesto della stabilità finanziaria, s’impone amorevolmente di puntare l’occhio (e le forbici) su previdenza e sanità.
Nel mentre i vari Six-Pack, Fiscal Compact e via dicendo si premurano di strappare dal controllo democratico l’importante potere di regolare le entrate e le uscite economiche di una nazione, in talune economie entrano in vigore persino dei Memorandum ancor più vessatori e ancor più stringenti. Nel caso del Memorandum imposto alla Grecia nel febbraio 2012 le misure imposte in maniera assolutamente unilaterale arrivano a lambire addirittura temi di secondaria importanza, quali ad esempio la rimozione delle «norme che vietano ai dettaglianti di vendere categorie di prodotto sottoposte a restrizione quali gli alimenti per bambini» («Memorandum of Understanding on Specific Economic Policy Conditionality», pag.30). E se andiamo a leggere l’ultimo «accordo» accettato dal riluttante governo greco l’insofferenza verso la partecipazione dei cittadini si fa disgustosamente sfacciata: tra le clausole figurano infatti l’impegno a «consultarsi e accordarsi con le istituzioni europee su tutti i disegni di legge nelle aree sensibili, con il giusto anticipo prima che queste vengano sottoposte all’attenzione pubblica o al Parlamento», l’impegno a vietare qualsiasi referendum e in conclusione arriva addirittura la promessa (sarebbe meglio definirla minaccia) che le misure elencate «sono solo prerequisiti per cominciare i negoziati con le autorità greche».
Se lo storico economista (anch’esso tra i più prestigiosi del pensiero liberista) Milton Friedman asserisce che «soltanto una crisi, reale o percepita, produce un vero mutamento» (da «Preface, Capitalism and Freedom», University Press, Chicago 1962, pag.IX), lo sbocco a cui questa crisi sta conducendo è quello spiegato con preoccupante tranquillità dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel in un discorso al Bundestag svolto nel settembre 2011: «Noi viviamo certo in una democrazia, una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un diritto centrale del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante essa sia conforme al mercato». Una democrazia piegata il più possibile nell’esaudire le esigenze del «mercato» anche a costo di comprometterne seriamente le funzioni rappresenta l’obbiettivo politico perseguito con crescente vigore dalle istituzioni comunitarie (non legittimate democraticamente, quali la Bce e la Commissione) grazie all’inaudito placet convinto e irremovibile dei governi nazionali. Forse Hayek non aveva tutti i torti ad affermare che questo esito sia l’unico immaginabile.
Se davvero questo postulato risultasse immodificabile (e le vicende greche portano consistenti prove di questa situazione) l’abbandono dell’eurozona rappresenta una possibilità da studiare con maggiore attenzione per qualsiasi persona premurosa dello sviluppo democratico dei Paesi.

venerdì 10 luglio 2015

Gli intellettuali e il riflesso razzista contro la Grecia

Se Matteo Salvini se ne esce affermando che i profughi vengono alloggiati in hotel di lusso e si ritrovano vezzeggiati come rampolli di famiglie reali la reazione va dalla risata di commiserazione al disgusto verso chi alimenta senza scrupoli le ingenue paure di certe fasce sociali per incrementare applausi e consensi. Quando invece lo stesso impasto di razzismo, pregiudizio e ignoranza viene scaricato sui cittadini greci la reazione pare essere meno accorta.
Eppure gli slogan infarciti sono composti dai medesimi ingredienti, lo sfogo verso un branco disumanizzato di presunti nullafacenti mantenuti a spese del Nord operoso riprende anche a livello lessicale gli stessi refrain che sgorgano dai raduni di Pontida, con la differenza di un’inaudita acclamazione da parte di buona fetta degli apparati mediatico, politico e culturale i quali, lo si può affermare con quasi certezza, con la vicenda greca iniziano l’opera di raschiamento di un fondo del barile che sembrava già essere stato toccato da tempo.
Nell’autentica opera di diffamazione a cui viene sottoposto il popolo greco emergono con particolare fragore vari elementi che caratterizzano il dissesto di un certo modo di fare politica e di fare opinione che non possono soltanto essere racchiusi nel servilismo, pur presente, verso determinate linee editoriali o interessi da salvaguardare per mantenere il proprio spicchio di ribalta.
Riguarda la demagogia, specie da parte di certi «intellettuali» e opinion makers, che pur proseguendo a condizionare le classi politiche hanno definitivamente abdicato al loro ruolo di guide autorevoli e informate dei cittadini per trasformarsi, passando all’estremo opposto, in schiavi del sentire comune, in traduttori su carta e su schermo delle pulsioni di pancia, in accreditanti delle voci uscite dai bar domenicali. Una deriva intuibile in un Paese in cui lo sfaldamento di tutte le strutture di partecipazione e tradizione hanno lasciato totale campo aperto alle regole di mercato: che si tratti dei leader politici o dei sedicenti uomini di cultura, l’inseguimento di un «cliente» peraltro sempre più restio a pratiche di lettura e informazione si svolge senza esclusione di colpi. Ogni mezzo è lecito se, per esempio, dalla sola vendita di copie dipende la propria sopravvivenza economica. E se l’obiettivo è raggiungere un successo di massa è fortemente controproducente esprimersi con serietà (ormai tra i giornalisti, specie nell’attività sui social network, seminare spiritosaggine è divenuto lo scopo primario) e con completezza su argomenti di particolare tortuosità come le speculazioni della finanza globale nella vita di tutti i giorni.



Molto più facile riempire pagine per affermare che il debito pubblico è causato da pingui dipendenti pubblici che passato le mattinate a bivaccare piuttosto che spiegare i contorti meccanismi di una finanza che presta una montagna di denaro fittizio a nazioni democraticamente deboli al fine di condurre astruse speculazioni impacchettando, spacchettando, vendendo e ricomprando su chissà quale «piazza» il debito stesso contratto dagli Stati, nel frattempo costringendo questi ultimi ad un pesante salasso (che a sua volta non casualmente produce altro debito) causato dall’esosità dei tassi d’interesse applicati arbitrariamente sui titoli (attualmente il bilancio di Grecia e Italia, senza questi interessi, avrebbe il segno più; ma non diciamolo troppo forte).
Molto più facile inventare di sana pianta numeri sull’età media pensionabile dei greci (cinquant’anni, cinquantatre, cinquantasette; ogni giorno da questa ripugnante tombola della menzogna sbuca un nuovo numero), in totale spregio degli studi Eurostat secondo cui attualmente non solo il paese mediterraneo si colloca su questo versante nella media europea, ma proporzionalmente la Germania spende di pensioni quattro volte tanto.
Molto facile dimenticare di affrontare quanto pesanti, ingiuste e antidemocratiche siano state le vessazioni della cosiddetta Trojka sul popolo greco negli ultimi cinque anni e per converso risulta di gran lunga più semplice scaricare le colpe su un ministro col vizio di girare in motorino (con casco o senza casco? Il livello delle disquisizioni macroeconomiche di certi giornali si ferma qui).
Molto più facile indicare come via d’uscita dalla recessione una formula magica di pronto effetto: «riforme». Eppure è proprio la Grecia a dimostrare come il Paese che ha fatto più «riforme» tra quelli della zona euro (lo dice l’Ocse) non solo non ha visto l’economia ripartire ma ha visto un brusco innalzamento del debito.
Troppo complicato spiegare che se attualmente la stabilità economica della Grecia dipende dagli altri Stati europei ciò lo si deve ad una vera e propria partita di giro tale per cui le banche, specie tedesche e francesi, per non fallire hanno scaricato sui contribuenti europei il frutto malato della propria spietata speculazione (privatizza gli utili e socializza le perdite è un mantra che trova nel contesto greco un inoppugnabile conferma).
Ma, soprattutto, l’operazione più semplice è raccontare la favoletta secondo cui dobbiamo tutti aver paura di questo pericoloso sovversivo ateniese. Dobbiamo terrorizzarci e unirci saldamente alle forze di governo di fronte all’incubo di forze politiche estranee agli assetti politici attuali (del resto Le Pen e Tsipras più o meno sono la stessa cosa, come ha affermato il mese scorso Enrico Letta in un’intervista a «Der Spiegel»).
Perché Tsipras è un Belzebù ambulante su cui è legittimo sfogare accuse di ogni tipo. Da Sergio Rizzo che sull’editoriale del «Corriere» del 9 luglio pare accusarlo di tutti i guai del continente (dopo una sequela di colpe europee, dallo sbattere «la porta in faccia a un migliaio di rifugiati» a soffocare i cittadini di «regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile» a «un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto», la domanda retorica a cui segue questo elenco è: «Tsipras ci pensa?») ad un improbabile scrittore greco, tale Doxiadis, che sulle colonne dello stesso quotidiano tiene una specie di diario ove si dichiara pronto a tutto pur di cacciare il tirannico governo in difesa della democraticissima Trojka («Da studente ho lottato contro la giunta dei Colonnelli, e sono pronto a scendere in piazza ancora una volta, da padre di famiglia di mezza età, per combattere un nuovo golpe, se sarà necessario», scrive sull’edizione del 4 luglio). Un’accusa, quella di antidemocraticità, che ritorna spesso anche a dispetto dei palesi dati di fatto non solo di un referendum ma anche della totale assenza di legittimazione popolare delle misure oppressive imposte dalle istituzioni europee.
Ci prova il comico-leader di To Potami, piccola formazione greca, che in un’intervista al «Corriere» dell’8 luglio blatera sul «tipo di democrazia controllata» che «piace moltissimo» agli uomini del governo greco, aggiungendo inoltre come essi siano «autocratici» e di credere, udite udite!, «di dover applicare le loro idee a forza». E prima di lui ci aveva pensato il tal economista Baverez secondo cui, in un colloquio pubblicato sul «Corriere della Sera» del primo luglio, «Atene si è allontanata dalla ragione, cioè da Pericle, per andare verso la follia della demagogia e la fine della democrazia, cioè Alcibiade».
Sarebbe troppo complesso analizzare le ricadute sugli assetti democratici dei dogmi ideologici che professano la totale concentrazione di ricchezza nelle mani di un manipolo d’istituti finanziari senza scrupoli; basti dire che gli studiosi più accorti e indipendenti non esitano a parlare di «Colpo di Stato di banche e governi» (questo il titolo di un recente volume del sociologo Luciano Gallino), di «Deux traités pour un coup d’État européen» (Raoul Marc Jennar su «Le Monde diplomatique» del giugno 2012), di «Financial Coup d’État in Europe. Government by the Banks for the Banks» (reperibile qui) oppure, più indirettamente, di «Crisi rinviata del capitalismo democratico» (ottimo libro di Wolfgang Streeck stampato nel 2013).
E difatti i veri antidemocratici populisti non sono Tsipras e la sua coraggiosa squadra. Ad abbandonarsi alla più squallida propaganda contro la democrazia stuzzicando la pancia dell’elettorato sono stati i circuiti mediatici, di cui un pezzo apparso sullo «Spiegel on line» a firma di Roland Nelles ne rappresenta l’apice in termini di chiarezza: «Se qualcuno aveva ancora bisogno di una prova di quanto siano pericolosi i pronunciamenti popolari è servito. La Grecia mostra una volta di più che i referendum, ossia la registrazione contingente della volontà popolare, non producono automaticamente i migliori risultati».
Questo è il vero populismo che incombe.