martedì 27 gennaio 2015

Sono contento che ha vinto Syriza



Sono contento che ha vinto Syriza perché una forza politica che fino a qualche mese fa pareva essere l’ennesimo inconsistente progetto antipolitico si è trasformato in una poderosa corazzata pregna di valori, contenuti e progetti.

Sono contento che ha vinto Syriza perché finalmente una quota importante di cittadini si è rifiutata di credere alle menzogne inculcate dai media e dai governi sulle origini della crisi. Ci hanno provato in ogni modo a far passare lo spregevole messaggio che la recessione fosse causata da un’eccessiva generosità della spesa sociale. A titolo d’esempio, uno tra i più autorevoli periodici europei, «Die Zeit», scriveva nel 2011: «Di certo l’epoca dei debiti ha creato in Occidente un benessere di massa storicamente unico, anche se la forbice tra alto e basso ha continuato ad allargarsi. Più benessere, più assistenza sociale e pensioni migliori hanno sopraffatto lo stato sociale, quello che fu un tempo il fastoso apparato della civiltà occidentale. In Europa l’assistenza statale a fronte di una popolazione che invecchia con una speranza di vita crescente ed elevate garanzie pensionistiche sta diventando lentamente impagabile; in America, con la sua minore tradizione statalista, giganti industriali sono messi in ginocchio a causa delle pensioni aziendali garantite» (J. Krönig, «Die Zeit des Massenwohlstandts ist vorbei», «Zeit Online», 14/12/2011, pag.3). Nulla di più falso: rimanendo nella nostra Italia, la spesa per la protezione sociale non solo è finanziata per più del 50% dai contributi versati da lavoratori e imprese, ma da un ventennio a questa parte è rimasta pressoché costante e perfettamente nella media europea. Andando nel dettaglio, i dati Istat ci informano che nel 1999 questo tipo di spesa costituiva il 23,9% del Pil, nel 2008 il 24,4% e nel 2012 il 26,5% (non ci si faccia illusioni sull’aumento: in gran parte esso è dovuto alla vertiginosa caduta del Pil verificatasi in questi ultimi anni). Nessun collegamento, quindi, né con l’aumento della spesa pubblica, né con l’aumento del debito, ambedue dovuti quasi esclusivamente all’incessante accrescersi degli interessi da pagare sui titoli di Stato. Se depuriamo la quota d’interessi (circa il 5% del Pil) dal resto della spesa, scopriremmo che la spesa pubblica del nostro Paese è (stando ai dati del 2012) la più bassa d’Europa: il 45,2% del Pil, contro una media dell’Eurozona del 46,8%.

Sono contento che ha vinto Syriza perché in molti hanno compreso che la vera causa della grande crisi globale va ricercata nei mercati finanziari, divenuti abnormi, onnipresenti, onnipotenti (in Europa, tramite qualche tocco di tastiera, le banche sono in grado di creare denaro a profusione sotto forma di titoli e derivati di ogni genere, un’azione che non è concessa nemmeno alla Bce) e intoccabili non grazie ad una semplice deregulation: al contrario, da una lunga, curata, mirata e incessante azione legislativa finalizzata esclusivamente ad accrescere la libertà della finanza. Nella sola Germania, un rapporto della Rosa-Luxemburg-Stiftung annovera la bellezza di 95 atti legislativi varati dal Bundestag tra il 1990 e il 2009 che procedono speditamente in questa direzione: tra questi quattro leggi sulla promozione dei mercati finanziari, due leggi atte ad allargare il campo di attività degli istituti di credito, una legge che promuove acquisizioni d’imprese e fusioni, una per la modernizzazione degli investimenti (con particolare riguardo per quelli finanziari). Non si tratta d’indolenza o di una semplice resa incondizionata nei confronti dell’economia più spietata. Parliamo di una scelta ponderata dai governi, tant’è vero che tutti i trattati e, nel caso italiano, addirittura le modifiche costituzionali che pongono severi vincoli alle politiche pubbliche sono stati stilati e approvati dai parlamenti nazionali senza alcuna costrizione. Lo ha spiegato con una disarmante schiettezza la Cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte al Parlamento del suo paese (erano i primi di settembre del 2011): «Noi viviamo certo in una democrazia, una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un diritto centrale del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante essa sia conforme al mercato».

Sono contento che ha vinto Syriza perché finalmente sono stati compresi i risultati di questo sbalorditivo e pluridecennale scatenamento finanziario: gli effetti diretti si sono visti quando sei milioni di famiglie sparpagliate tra Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda e Spagna si sono ritrovate improvvisamente senza casa (perché incapaci di sostenere un mutuo truffaldino e frutto di chissà quale contorto trucco bancario), quando altrettanti cittadini onesti si sono ritrovati privati dei loro fondi pensioni, delle loro assicurazioni sanitarie e dei loro risparmi dopo il crollo dei titoli per lo più inconsistenti su cui avevano investito e quando in tutto il pianeta circa 60 trilioni di dollari (di titoli e immobili, qualcosa come il Pil del mondo) sono evaporati nei soli primi due-tre anni della crisi. Una sorte amarissima che ha scalfito in misura minima i grandi patrimoni i quali, anzi, in questi anni si sono rinvigoriti al punto tale che secondo uno studio dell’Istituto di ricerca del Crédit Suisse (Global Wealth Report 2012, Crédit Suisse Research Institute, Zürich 2012, pag.18, fig.1), nel 2012 lo 0,6% della popolazione mondiale adulta del mondo deteneva una ricchezza di circa 88.000 miliardi, quasi il 40% della ricchezza globale. Suscita autentico disgusto pensare che ciascun membro di questa ristretta élite possieda una ricchezza superiore di 1315 volte rispetto a quella di ogni componente del 69% della popolazione mondiale più povera, la quale complessivamente arriva a detenere non più del 3,3% della ricchezza globale. Nello studio di queste disuguaglianze, «uno sviluppo chiave», spiega l’International Labour Organization («World of Work Report 2008: Incombe In-equalities in the Age of Financial Globalization», Genève 2008), «è stato l’uso dei cosiddetti “sistemi di compenso basati sulla prestazione” degli alti dirigenti e direttori. Il risultato è stato un rapido aumento della loro paga. Negli Stati Uniti, ad esempio, tra il 2003 e il 2007 la paga dei top manager crebbe in termini reali del 45 per cento […] a paragone di meno del 3 per cento del lavoratore medio. Per cui nel 2007 l’alto dirigente delle maggiori 15 società guadagnava più di 500 volte il dipendente medio, contro le 300 volte del 2003. […] Nell’insieme, l’evidenza suggerisce che gli sviluppi del compenso dei dirigenti potrebbe essere stato tanto un fattore di aumento della disuguaglianza quanto inefficiente sotto il profilo economico». E ancora: «La tassazione è diventata meno progressiva nella gran maggioranza dei Paesi e quindi meno capace di ridistribuire i guadagni dello sviluppo economico. Ciò riflette un taglio delle imposte a carico degli alti redditi. […] Tra il 1993 e il 2007, l’aliquota media dell’imposta sulle imprese è stata tagliata (in tutti i Paesi per cui esistono dati) di 10 punti percentuali. Nel caso dell’aliquota massima sui redditi personali, nello stesso periodo essa viene ridotta di 3 punti». Una sorte assai diversa rispetto a quella dei salari. Nei quindici Paesi Ocse (Ocse, Croissance et inégalités, Paris 2008, pag.38, riq.12), la quota dei salari sul Pil (compresi quelli dei lavoratori autonomi) è diminuita mediamente di dieci punti tra il 1976 e il 2006, calando all’incirca dal 67 al 57% (l’Italia ha subito una sorte addirittura peggiore: è passata dal 68 al 53%).

Sono contento che ha vinto Syriza perché una massa di cittadini indignati ha capito che l’austerità dell’Europa procede a senso unico: mentre le istituzioni rimangono indifferenti (imponendo, al contrario, ancora più tagli alla spesa sociale, ancora meno vincoli ai mercati e ancora meno protezione per i lavoratori) di fronte ad un esercito di 26 milioni di disoccupati, ad una compagine di lavoratori sfruttati e a 120 milioni di persone a rischio povertà che si aggirano per il continente, la generosità nei confronti degli istituti finanziari responsabili di questa tragedia collettiva pare non conoscere limiti: secondo T.J. Doleys («Managing State Aid in Times of Crisis: The Role of The European Commission», paper presentato alla V Conferenza paneuropea sulla politica della Ue, Università di Oporto, giugno 2010, pag.1) tra l’ottobre del 2008 e l’aprile del 2010 i governi europei hanno concesso 4,13 trilioni di euro (4.130 milioni) come sostegno ai gruppi finanziari colpiti dalla crisi. Sostegni, questi, che hanno contribuito in maniera non indifferente all’incremento dei debiti pubblici, la cui riduzione è stata fatta pagare esclusivamente alle categorie meno abbienti.

Sono contento che ha vinto Syriza perché insieme a lei ha trionfato anche la democrazia, intesa come gestione collettiva del benessere pubblico fuori da ogni principio di avido (e arido) mercantilismo e come primato dei bisogni del cittadino su ogni logica di competitività produttivistica. Un primato che in questi anni è stato esclusivamente riservato ai capricci di pochissimi. Queste, ad esempio, le parole pronunciate dal governatore della Bce Mario Draghi nel febbraio del 2013: «Quel che i mercati sanno, e per questo sono meno impressionati di voi giornalisti, è che le misure di aggiustamento finanziario sono già attive in Italia. E continueranno a operare con il pilota automatico». Di quale «pilota automatico» si va cianciando? In una nazione democratica gli unici piloti sono i cittadini in carne ed ossa, la cui volontà viene prima di ogni altra considerazione.

Sono contento che ha vinto Syriza perché l’Europa tra i suoi valori fondanti ha anche (forse soprattutto) uno stato sociale unico al mondo, in grado di proteggere qualificatamente ogni cittadino in qualsiasi frangente drammatico della propria esistenza (malattia, disoccupazione, vecchiaia e incidenti di vario tipo). Una preziosa peculiarità che, oggi grazie a Syriza e domani speriamo grazie ad altre forze analoghe, dobbiamo proteggere dagli attacchi indiscriminati di una finanza ingorda e rapace.

venerdì 23 gennaio 2015

Aridatece er Parlamento!



Nella girandola letale di nomi, veti, identikit e sogni proibiti che precedono immancabilmente gli scrutini per il Quirinale, anch’io vogliono esprimere il mio pensiero sul prossimo inquilino del Colle. Non si tratta di un nome, quanto di un auspicio.
Facciamo le dovute premesse: il Parlamento è l’istituzione che più di ogni altra ha subito gli effetti della deriva antisociale, antipolitica ed economica di cui soffre l’Italia da oramai troppi anni. Sberleffi, scavalcamenti e ingiurie: nulla è stato risparmiato alle Aule che rappresentano il caposaldo della democrazia italiana. Era partito Berlusconi con lo spregevole mercimonio dei senatori, poi arrivò l’esorbitante diffondersi di atteggiamenti irriguardosi dei parlamentari nei confronti dell’istituzione (come dimenticare lo spumante stappato da Gramazio in vista della caduta dell’ultimo governo Prodi?), poi fu la volta delle ingerenze finanziarie (che imposero in modo intransigente la sostituzione del governo Berlusconi), successivamente arrivarono le dettagliate imposizioni europee (si pensi ai dettami della lettera di Trichet, prontamente eseguiti, oppure agli innumerevoli e inflessibili Trattati sui vincoli di bilancio pubblico), qualche anno dopo piombò addosso la sentenza anti-Porcellum della Consulta ad avvolgere le Aule dentro una patina (per lo più fuorviante) d’illegittimità, prima di giungere alla situazione attuale, dove l’incessante succedersi di voti di fiducia, stiracchiamenti costituzionali, decretazione ad ogni piè sospinto e deleghe in bianco ha reso il Parlamento una specie di inutile fardello, che difatti la nuova ideologia leaderistica ci sta mettendo un malcelato gusto nel voler riformare per ridurne l’influenza. Agli occhi di gran parte dei cittadini la cosa risulta indifferente: il Parlamento è visto soltanto come un covo d’ingordi parassiti nullafacenti sulla cui funzione in molti hanno idee confuse (la vulgata popolare vuole, ad esempio, che le elezioni politiche servano ad eleggere il premier, di conseguenza è diffusa la sensazione che l’attuale esecutivo sia assimilabile ad un sopruso).
C’è del vero nell’attacco concentrico che continua a bersagliare l’istituzione parlamentare: il bicameralismo paritario, unicum a livello mondiale, quelle sporadiche volte che viene lasciato agire senza controlli finisce quasi sempre per assumere i contorni di un peso che, in virtù di un conservatorismo assai galvanizzato da lobby e interessi trasversali, si risolve nell’inconcludenza, nell’instabilità o nello stravolgimento della norma redatta originariamente. Come se non bastasse, l’assoluta mediocrità di gran parte delle figure che hanno occupato il seggio negli ultimi anni ha solo contribuito ad aggravare la situazione al punto tale che al giorno d’oggi l’impreparazione (o sempre più spesso la complicità) dei membri dell’Aula e/o del governo finisce per consegnare il potere in mano a chi i contorti ingranaggi degli iter legislativi li conosce benissimo: i gruppi di pressione e le alte burocrazie. Le riforme in corso, ben lungi dal voler affrontare con consapevolezza la situazione, preferiscono invece usare a pretesto queste disfunzioni per ridurre ancor di più gli spazi di partecipazione dei cittadini conferendo un inaudito potere al leader del partito con più voti.
Rimane però un fatto da non sottovalutare: il Parlamento è il luogo di rappresentanza dei cittadini, emarginarlo dalle decisioni (come avviene in maniera sempre più spudorata: secondo OpenPolis in questa legislatura solo lo 0,36% dei ddl di natura parlamentare è divenuto legge) significa liquidare la volontà popolare e, di conseguenza, l’essenza stessa della democrazia.
Cosa c’entra il Capo dello Stato in tutto ciò? C’entra eccome: nella storia della nostra Repubblica tutti i Presidenti (se si eccettuano Einaudi, Segni e Ciampi) dovevano parte del loro prestigio all’esperienza di aver svolto o il ruolo di Presidente di una delle due Camere oppure, nel caso di Saragat, come Presidente dell’Assemblea Costituente. Una specie di tacita tradizione probabilmente involontaria, segnale però del ruolo di prim’ordine che il Parlamento svolge nel nostro ordinamento.
Ora più che mai, nell’èra dove il Parlamento viene generalmente ritenuto un superfluo ostacolo nel rapporto tra il leader e l’elettore (oppure talvolta come ostacolo ad ambigue forme di democrazia diretta) c’è bisogno di una nuova figura non solo che evidenzi con determinazione la centralità delle Aule, ma che sia essa stessa la testimonianza di un’attività parlamentare onesta, genuina e al servizio del cittadino, a prescindere dal colore politico e, aggiungo, a prescindere dal fatto che abbia ricoperto o no ruoli di presidenza: gli attuali presidenti delle Aule, infatti, sebbene spesso sventolati come «papabili» per il Colle, non avendo alle spalle (e si vede) alcuna esperienza significativa a livello parlamentare (non dimentichiamoci che si trattò di due avventate scelte di Bersani, il quale credeva di ingraziarsi il sostegno dei 5 Stelle piazzando agli apici delle istituzioni due personalità che erano praticamente avulse da ogni pratica politica) non sembrano all’altezza del ruolo e della missione da portare a termine. Una missione poderosa, quella di valorizzare il Parlamento proteggendolo dai continui attacchi, ma indispensabile per l’esistenza, assai fragile, della nostra democrazia.

lunedì 19 gennaio 2015

Il lato nero dell'antifascismo



Quando avvengono delle dimissioni che non solo chiudono un ciclo ma, per ammissione del diretto interessato, chiudono una vera e propria epoca tra le più tormentate e discusse, arriva comprensibilmente la fase dei bilanci e delle rievocazioni. Non sono stati pochi gli opinionisti che, affrontando le pluridecennali vicende politiche di Giorgio Napolitano, hanno rievocato la giovane partecipazione (cominciata nel 1942, quando il futuro Capo dello Stato non era neppure diciottenne) ai Gruppi Universitari Fascisti e la sua collaborazione con la rivista «IX Maggio» a cui seguirà una repentina (e per questo ritenuta opportunista) iscrizione a quanto di ufficialmente stava più lontano dall’ambiente di regime, ossia il Partito Comunista Italiano.
Una vicenda già bizzarra, che assume però connotati quasi illogici se si pensa che la complicità entusiastica nei confronti del fascismo ha riguardato una compagine innumerevole di personaggi considerati successivamente (quasi sempre a ragione) degli incorruttibili tedofori dell’ideale antifascista. Un aspetto discretamente rilevante per capire un pezzo di storia del nostro Paese che, complice la preminenza comunista nel mondo editoriale, ha ingiustamente trovato ben poco spazio nel dibattito pubblico. Qualche squarcio lo apre il pur discutibile Bettino Craxi in una delle sue ultime interviste-sfogo: «Cesare Pavese era fascista, Vasco Pratolini era fascista. Montanelli, Bocca e Biagi hanno portato tutti la camicia nera e non ne parlano mai. Io li chiamo gli extraterrestri…» (ad essere onesti Montanelli lo ammise spesso, senza però riconoscere la responsabilità di quella scelta).

***

Non molti ricordano, ad esempio, che Carlo Cassola collaborò con la rivista «Anno XIII» di proprietà della famiglia Mussolini. Oppure che Renato Guttuso era assai attivo nei convegni sulle arti figurative fasciste, si aggiudicò il premio Bergamo e, alla fine, ricevette 25mila lire da parte del gerarca Bottai (la risposta di ringraziamento non lascia spazio ad ambiguità: «Vi ripeto la mia gratitudine e il mio entusiasmo a collaborare in “Primato fascista”»). Oppure che Vittorio Gorresio, discorrendo sui giovani nazisti, scrisse «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara» (sulla «Stampa», nel 1936, non si smentì: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce»). Oppure che Carlo Muscetta faceva parte (con Giaime Pintor e Goffredo Bellonci) della regia dei Littoriali. Oppure che Natalino Sapegno ricevette da Luigi Russo (da che pulpito! Proprio lui che era stato iscritto al Pnf e in un suo libro si era abbandonato in elogi nei riguardi del truce gerarca Farinacci!) l’accusa di «essere andato in divisa della Gil a propugnare l’asse Weimar-Roma». Oppure che Ruggero Orlando collaborava con la «Difesa della razza» suggerendo caldamente di «sposare le rivendicazioni [della Germania nazista, ndr.] per ragioni di giustizia sociale e di difesa civile». Oppure che Giorgio Bocca prima nel 1941 elogiava i «Protocolli dei Savi di Sion» («Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi», queste le sue parole, «la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù») sul settimanale della federazione fascista di Cuneo «La provincia Granda», poi sulla stessa rivista nel gennaio 1943 si vantava spavaldamente di aver tirato un sonoro ceffone ad un pendolare reo di essersi espresso denunciando la disfatta imminente dell’Italia in guerra.
Oppure che Guido Piovene scrisse nel 1938 sul «Corriere della Sera»: «Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita. Di sangue diverso, e coscienti dei loro vincoli, non possono che collegarsi contro la razza aliena». Oppure che Pietro Ingrao vinse il premio «Poeta di Mussolini». Oppure che Enzo Biagi collaborò con «Primato», «Architrave» (organo del fascismo bolognese), il «Resto del Carlino» fino quasi all’estate 1944 (con tanto di finanziamento da parte del Minculpop), nonché con il celebre foglio antisemita «L’Assalto» (tra le cui firme comparivano anche Giovanni Spadolini e Carlo Lizzani) dove recensendo un film nazista concluse che «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». Oppure che Giovanni Calendoli venne nominato capo ufficio stampa del Partito Nazionale Fascista vantandosi delle sue idee antisemite. Oppure che Paolo Emilio Taviani firmò nel 1936 un pezzo su «Vita e Pensiero» nel quale si annoveravano affermazioni come: «L’Italia ha il suo Impero perché attua i principi mussoliniani del vivere pericolosamente, del credere, dell’obbedire, del combattere». Oppure che Ruggero Zangrandi coltivava l’amicizia di Vittorio Mussolini considerando, in uno dei tanti scritti dell’epoca, che «solo un’Europa fascista potrà scongiurare il pericolo che la minaccia: il comunismo». Oppure che Elio Vittorini ricevette nientemeno che la qualifica di squadrista presente alla marcia su Roma (nel 1942 figurava ancora nell’elenco dei rappresentanti della cultura fascista al convegno nazista di Weimar). Oppure che Eugenio Scalfari (chiamato affettuosamente dal gerarca Bottai «il mio Peppino») fu promosso nel 1942 redattore capo di «Roma fascista», nel quale scriveva cose del tipo: «Occorre ritornare a quel pilastro centrale di tutta la costruzione fascista che si chiama nazionalismo e verso il quale logicamente ci conduce la stessa sistemazione corporativa». Oppure che Corrado Alvaro (romanziere apprezzato dallo stesso Mussolini) lodò pubblicamente la costruzione di Littoria, si aggiudicò il premio Mussolini dell’Accademia d’Italia della letteratura e, dulcis in fundo, nel libro «Terra nuova» riconosceva al Duce una «straordinaria umanità…una precisione che dava ai suoi atti quasi una chiaroveggenza…raggiante come sempre quando si trovava davanti alla gente del popolo…». Oppure che Piero Bargellini aderì al «manifesto della razza» lasciandosi andare a frasi del tipo: «Uomini come Mussolini non hanno niente da invidiare ai Cesari, anche nel fisico, anche nelle parole, anche nei gesti…». Oppure che Amintore Fanfani approvò non solo il sistema corporativo, ma arrivò a raccomandare «la separazione dei semiti dal gruppo demografico nazionale» nella prospettiva che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri». Oppure che Norberto Bobbio era iscritto sia al Guf che al Pnf (essenziale per proseguire l’insegnamento). Oppure che Cesare Pavese ammiccava al nazismo. Oppure che Luigi Meneghello, stando a quanto scrive Mirella Serri, vinse il primo premio ai Littoriali con un testo su «Razza e costume della coscienza fascista». Oppure che Luigi Comencini non rinunciava a mettersi in mostra in occasione dei Littoriali del cinema. Oppure che Alberto Lattuada ha collaborato con «Libro e Moschetto», legato a doppio filo al Guf di Milano. Oppure che Mariano Rumor spedì un suo saggio al «Popolo d’Italia» diretto dalla famiglia Mussolini. Oppure che Giuseppe Ungaretti si definì «fascista in eterno» partecipando con fervore a vari appelli inneggianti al regime. Oppure che Aldo Moro asserì: «La razza è l’elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato». Oppure che Benigno Zaccagnini ha redatto nel 1939 un articolo su «Santa Milizia» che si scagliava contro «una eccessiva dilatazione dei confini razziali» mettendo in guardia dal «non confondersi o mescolarsi con altre genti». Oppure che Giuliano Vassalli nel 1939 partecipò ad un convegno di collaborazione giuridica italo-tedesca con tanto di documento in cui si asseriva l’impegno a «difendere i valori della razza con l’assoluta e definitiva separazione degli elementi ebraici dalla comunità nazionale». Oppure che Davide Lajolo divenne funzionario delle federazione fascista di Ancona non prima di essersi arruolato volontario per andare a combattere in Spagna nella coalizione nazifascista. Oppure che Pier Paolo Pasolini aveva partecipato nel 1942 al convegno di Weimar sugli scrittori europei. Oppure che Piero Calamandrei, pur di conservare la cattedra universitaria, giurò fedeltà al fascismo e, successivamente, strinse amicizia col gerarca Dino Grandi. Oppure che Fidia Gambetti dirigeva diverse riviste di regime (con la valida collaborazione di personaggi come Salvatore Quasimodo, Mario Tobino, Lorenzo Viani, Libero Bigiaretti, Massimo Bontempelli, Filippo de Pisis, Giorgio Bassani, Giorgio Caproni e vari autori, molti dei quali destinati ad un avvenire nel Pci) fino a partire volontario per il fronte russo. Oppure che l’Accademia del regime, notoriamente antisemita, annoverava Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi e Ada Negri. E tralascio, per pietà al lettore, l’elenco sterminato di futuri antifascisti che collaborava attivamente con la rivista «Primato» diretta dal gerarca Bottai.
La studiosa Ruth Ben-Ghiat osservò che persino con la promulgazione delle leggi razziali «nessuno si dimise dagli istituti e dalle accademie che i loro colleghi ebrei furono costretti ad abbandonare, e pochissimi rifiutarono collaborazioni con giornali ed enti impegnati nella propaganda antisemita o onorificenze e premi da essi assegnati».

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Un po’ più di rilevanza, dovuta però soltanto alle rocambolesche avventure che contorneranno la vicenda, l’ha avuta l’esperienza di Dario Fo. Il premio Nobel che sulle colonne del «Corriere della Sera» accusava lo scrittore ex-militante delle SS Günter Grass con le parole: «Io ho confessato il mio passato, Grass ha fatto male a parlare solo oggi» dimentica non solo le querele che inizialmente riservava ai giornali che osavano scavare sul suo trascorso repubblichino, ma anche le spudorate menzogne raccontate per anni su un presunto doppio gioco messo in campo per agevolare la Resistenza. Solo le sonore smentite dei testimoni dell’epoca (il suo istruttore parà Carlo Mario Milani mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe») sia una sentenza del 7 marzo 1980 emessa dal Tribunale di Varese la quale sancisce: «È perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani» (una sentenza priva di ricorso, quindi da considerarsi definitiva) lo costringerà di malavoglia (in pubblico cerca sempre, infatti, di evitare l’argomento) a una lieve confessione: «Non l’ho fatto per convinzione ideologica. L’ho fatto per paura», disse in una rarissima occasione in cui affronta questo trascorso. Pazienza se Ercolina Milanesi la racconta diversamente: il giovane Dario lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui». Di tutta la storia una cosa è sicuramente certa: Dario Fo si arruolò volontario per la Repubblica Sociale finendo prima nel battaglione Azzurro di Tradate, e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini.
Concludo l’excursus con le parole dello storico Roberto Vivarelli, il quale evidenzia come gli italiani nel 1942 «ancora attendevano quanto meno senza turbamento una possibile vittoria dell’Asse fascista, per la quale facevano la loro parte, uomini che poco più tardi saranno figure di spicco della Resistenza: bastino, ad esempio, i nomi di Giorgio Bocca, Davide Lajolo, Giovanni Pirelli, Giaime Pintor [il quale nel 1941 aveva ammirato su «Primato» «l’adorazione della guerra come modo di vita e di conquista di un mito a cui sorreggersi dei buoni soldati del Reich», ndr.], Nuto Revelli. Solo di fronte al drastico rovesciamento della situazione militare, solo come reazione all’incalzare di eventi bellici che facevano ritenere come ormai inevitabile la sconfitta dell’Italia fascista e della Germania nazista, il sentimento pubblico subì da noi un sempre più rapido cangiamento, sicché all’indomani del 25 luglio la maggioranza del paese si scoprì e si dichiarò antifascista».
Di certo l’opportunismo è un fenomeno che contraddistingue gli italiani nella storia (Giorgio Bocca, nel suo monumentale volume «Storia dell’Italia partigiana», calcolò che all’inizio del 1944 si contavano non più di 15mila partigiani, destinati a diventare 80mila nel marzo 1945, 130mila nell’aprile 1945 e 250mila dopo la Liberazione), ma muovere una simile accusa a persone che di lì a qualche mese avrebbero addirittura rischiato la vita (e talvolta la persero) in nome della libertà appare profondamente ingiusto. Parlare di costrizione in certi casi non è sufficiente: nessuno ti costringeva a collaborare con riviste del regime. Bisogna allora ammettere che la gran parte dei personaggi sopra citati nutrisse sincero apprezzamento nei confronti del fascismo. Colpa dell’educazione? Colpa di un disagio collettivo verso i valori liberali? Colpa di una convinzione che vedeva la democrazia come un vecchio rottame? Colpa di una visione del fascismo come risolutore delle ingiustizie sociali (in fin dei conti il programma del 1919 presentava connotati tipicamente di sinistra)? Un dibattito che sarebbe auspicabile riprendere senza preconcetti ideologici.

giovedì 8 gennaio 2015

Ad personam



Spesso il passato ritorna prepotentemente. Talvolta, ti dà addirittura l’impressione che non sia mai stato dismesso. In molti continuano da anni ad annunciare la fine del berlusconismo: la vicenda del decreto redatto ad hoc per restituire l’innocenza all’ex-Cavaliere dimostra esattamente il contrario, portando alla luce l’amara realtà rappresentata dal fatto che il maleodorante disegno eversivo di trasformare (per usare le parole usate qualche anno fa da Franco Cordero) uno Stato sovrano in una bottega personale ad uso e consumo di Silvio Berlusconi goda di ottima salute.
Per anni l’Italia è stata costretta ad assistere alle manovre più infami finalizzate unicamente a piegare le istituzioni democratiche e repubblicane, in primis la magistratura, alle voglie e ai desideri del leader incontrastato del centrodestra: non dobbiamo eliminare dalla memoria atti legislativi come la depenalizzazione del falso in bilancio, i vari decreti salva-Retequattro, la legge Cirami (pur di raggiungere il traguardo della prescrizione allungando indefinitamente i tempi di un processo, è consentito trasferire i procedimenti da un tribunale all’altro), l’ex-Cirielli (taglio non indifferente ai tempi della prescrizione, con benefici quasi immediati sul processo Mills), la legge Frattini, la legge che permette di erigere un cimitero nella propria abitazione (essenziale per la dimora di Arcore), la legge che copre col segreto di Stato la costruzione di un approdo diretto a villa Certosa, il processo breve, la legge Pecorella (scritta in persona dall’avvocato di Berlusconi) e svariati altri provvedimenti che talvolta solo l’intervento del Capo dello Stato e della Corte Costituzionale hanno impedito che infliggessero l’ennesima frustata allo Stato di diritto.
Una deriva oscena (figlia diretta di un dissesto morale rinvigoritosi con gran tripudio negli anni Ottanta), quasi sempre priva di autentiche alternative o di reali segnali di discontinuità: il disprezzo per le regole e l’insofferenza verso i doveri civici rappresentano oramai una metastasi sempre più invasiva di un corpo, quello dei cittadini, non solo incapace di reagire, ma sempre più spesso complice di questo irrefrenabile declino che ha trovato nel putridume delle leggi cucite su misura (e nei conseguenti tentativi di sovvertimento delle istituzioni democratiche) il suo punto più esasperato e tangibile.
Pareva quasi un miracolo quando nell’agosto del 2013 un processo intentato nei confronti di Berlusconi riuscì a raggiungere la sua conclusione, indenne dallo spietato machete dei provvedimenti ad personam. Arrivò la condanna, definitiva e inappellabile, a cui un successivo passaggio parlamentare (demagogicamente svolto con voto palese, con una deroga smaccatamente ad personam rispetto al regolamento) fece seguire la decadenza da senatore e l’incandidabilità per sei anni. Fu almeno la quinta volta in cui, nel giro di un ventennio, la parabola politica di Berlusconi sembrava davvero aver raggiunto la sua conclusione. Condannato in via definitiva, privato della possibilità di candidarsi, costretto (quasi) come un qualsiasi detenuto a svolgere mansioni sociali in una casa di riposo, in costante declino fisico, incapace di svolgere un autentico ruolo di leadership nei confronti della sua coalizione (a quei mesi risale la scissione di Alfano), figura ormai soltanto ingombrante per una base elettorale sempre più assottigliata e, dopo il passaggio all’opposizione dall’esecutivo di Enrico Letta, incagliato nella più deleteria irrilevanza parlamentare, nessuno avrebbe scommesso una lira in un suo futuro protagonismo nella vita politica del Paese. Ingenua illusione: l’impronta profonda che il berlusconismo ha scolpito nella già vulnerabilissima tensione morale degli italiani ha continuato a palesarsi in tutta la sua putrescenza.
Sono bastate cinque parole inserite in un decreto per farci sprofondare ancora una volta nell’atroce baratro dell’attività legislativa genuflessa ai desiderata del salotto di Arcore. Cinque parole che permetterebbero di cancellare la condanna passata in giudicato dell’ex-Cavaliere, concretizzando una volta per tutte il suo sogno più grande, portando definitivamente a termine il suo losco progetto: arrivare alla sua più completa impunità, alla sua definitiva fuga da ogni procedimento giudiziario. Una pretesa più volte affrontata adoperando una bislacca formula, l’«agibilità politica», che rappresenta il tentativo massimo di legalizzare l’incolmabile insofferenza di un uomo nei confronti dei capisaldi dei valori etici e democratici. Non è ancora accertato chi e perché abbia stilato questa abominevole norma, ma la conclusione più lineare vede un Presidente del Consiglio di nome Matteo Renzi che per insaziabile e spietata ingordigia di potere è disposto a tutto, anche ad esaudire i voleri più inconfessabili (ma nemmeno tanto, visto che, al contrario, sono rivendicati con spavalda arroganza) di un pregiudicato in grado però di garantirgli una solida, e soprattutto fedele, maggioranza parlamentare.
Non solo: parliamo di un articolo catapultato all’interno di una delega fiscale dove l’unico comun denominatore è quello, ancora una volta, di favorire la piaga dell’evasione fiscale, soprattutto quella di grossa entità. Vero, ora tutto il provvedimento è stato ritirato. Ritirato ma non ripudiato: a febbraio, almeno così sembra, il testo verrà riproposto senza rilevanti modifiche, preservandone la marcescibile essenza e ovviamente preservandone anche la norma in grado di salvare Berlusconi, di renderlo ricandidabile, di renderlo innocente e di renderlo (uno schiaffo per ogni cittadino onesto) presentabile. Se non sarà l’articolo in questione a provvedere all’orrido compito, stiamone certi che arriverà qualche decreto analogo (i sottosegretari alla Giustizia erano fino a qualche mese fa di stretta osservanza berlusconiana, e uno di loro, Cosimo Ferri, quasi di certo lo è ancora) oppure un’inaudita «grazia tombale» ad opera del nuovo Capo dello Stato, il quale verrà scelto, manco a dirlo, insieme a Berlusconi.
Di lotta senza quartiere a corruzione, criminalità ed evasione fiscale, nel frattempo, sentiremo parlare ben poco. Le vere priorità per far rinascere l’Italia sono beatamente dimenticate in nome di un potenziale risultato elettorale su cui l’Italia corrotta fa ancora sentire un indebito peso.