venerdì 8 maggio 2015

Scuola di lotta e di governo



Trasformare l’individuo umano in un’insensibile macchina calcolatrice la cui unica funzione sociale è quella di massimizzare il proprio profitto rappresenta il punto più alto e sofisticato del disegno perseguito dai teorici neoliberali. Sradicare ogni pulsione sociale, ogni bisogno ed ogni istanza morale dal modus operandi della massa dei cittadini è indubbiamente un obbiettivo prioritario per gli oligarchi globali che intendono accumulare sempre più ricchezza senza incontrare noiosi ostacoli. «Detto altrimenti», spiega la docente di Scienze politiche Wendy Brown, «tramite discorsi e politiche che promulgano i suoi criteri, il neoliberalismo produce attori razionali e impone la ratio del mercato per la presa di decisione in tutte le sfere» (da W. Brown, «Critical Essays on Knowledge and Politics», University Press, Princeton 2005, cap.III, pag.40).
La formazione di questo robotico «Homo oeconomicus» privo di palpiti che non siano l’efficienza e le esigenze della contabilità ha trovato nel corso degli ultimi anni un riscontro tangibile nelle azioni legislative condotte dai governi nazionali. A titolo di esempio nelle riforme Hartz, quelle sul mercato del lavoro adottate in Germania dal 2003 e contemplate con commovente ammirazione da parte delle forze politiche nostrane, si osservano con frequenza concetti come «io-impresa» (Ich-Gesellschaft) o addirittura «famiglia-società per azioni» (Aktien-Gesellschaft Familie) ove il lavoratore finisce per essere considerato nulla più che un’unità di «capitale umano» la cui unica direzione (in ogni scelta della propria esistenza) consiste nel maggior ritorno economico a seguito di un investimento iniziale.
In base a questo dogma, è da considerarsi non solo positivo ma addirittura indispensabile che tutti i gangli che costellano la vita pubblica dei cittadini seguano esclusivamente criteri di competitività economica come un’impresa qualsiasi oppure, ancora meglio, che questi gangli finiscano per essere direttamente privatizzati. Del resto, se la vita dell’individuo funziona solo in base a criteri aziendali, cosa c’è di meglio se non affidare gli organi di formazione e regolazione pubblica alle aziende stesse?

***

La scuola, come s’intuisce, diventa a questo punto uno snodo cruciale sia in quanto responsabile della formazione dell’«homo oeconomicus» del domani, sia in quanto organo finora affidato in gran parte alla gestione pubblica dello Stato e di conseguenza passibile di future privatizzazioni. «Impresa, internet e inglese» (copyright dell’ex-ministro Gelmini) era ed è tacitamente anche tuttora la parola d’ordine per tradurre nell’ambito scolastico l’esigenza, per l’appunto, di trasformare l’individuo in un mero imprenditore di se stesso in base alle richieste delle grosse imprese.
Praticamente, la conseguenza di questa scellerata impostazione consiste da un lato nell’affidare in maniera via via crescente la gestione delle scuole alle imprese private, dall’altro, finché le scuole rimangono nelle mani dello Stato, predisporre i programmi e la formazione degli studenti in un’ottica esclusivamente proiettata verso un’occupazione aziendale. Plasmare individui consapevoli della propria funzione sociale, autonomi nello svolgimento di un pensiero critico e di conseguenza in grado di elaborare una coscienza individuale in particolar modo nell’approccio delle più rilevanti questioni sociali non è più un obbiettivo da affidare alle scuole. Anzi, e lo si vede chiaramente nel continuo discredito a cui si trovano sottoposte le discipline umanistiche, questo obbiettivo viene considerato desueto e inutile: una vera e propria perdita di tempo che svia da quello che è il nuovo scopo dell’istruzione dettato da precisi interessi privati.

***

Il disegno di legge governativo cosiddetto «la buona scuola» è soltanto l’ultimo provvedimento in ordine di tempo finalizzato al pedissequo perseguimento di questa logica. In questo testo l’istituzione pubblica rinuncia sfacciatamente ad ogni programma di ridisegno delle funzioni e dei programmi didattici tramite una selezione ed una formazione ritenuta idonea del corpo docente: si limita al contrario, ed è questo il nocciolo del ddl, ad iniettare ciecamente nelle scuole pubbliche una caterva, i cui numeri precisi sono ancora ignoti, d’insegnanti costretti da lungo tempo ad una condizione d’inaccettabile precariato. Lascia un amaro sorriso leggere quanto scriveva l’attuale premier Matteo Renzi nel saggio «Fuori» (correva l’anno 2011): «La scuola è importante per quello che i bambini imparano, non per il numero delle persone che riusciamo a cacciarvi dentro, magari senza controllarle dopo. L’educazione delle nuove generazioni non può essere condizionata al numero di assunzioni da fare, considerandole come ammortizzatore sociale». Invece, se si vuole dare una sommaria descrizione dei principali punti della «buona scuola», le parole scandalizzate del Renzi di qualche anno fa sono le più calzanti. È al costo di questo piano straordinario di assunzioni che alludono i rappresentanti governativi quando si pavoneggiano di essere tornati ad investire nella scuola, omettendo incidentalmente di rivelare quanto trapela dalle leggi di bilancio di questo stesso governo, tema che verrà affrontato a breve.
L’unica vera innovazione portata dall’esecutivo nelle funzioni didattiche della scuola pubblica consiste nell’ennesimo diktat che vede nella dimensione aziendale l’unico punto di riferimento per la formazione dell’individuo: s’impone una poderosa implementazione dell’Alternanza scuola-lavoro, che deve tassativamente cominciare fin dal terzo anno degli Istituti Tenici e prevede un anno in più per gli Istituti Professionali. Ma nemmeno i Licei restano immuni da questa smania stakanovista se è vero che il Ministero comunica che «percorsi di didattica in realtà lavorativa saranno resi sistemici per gli studenti di tutte le scuole secondarie di secondo grado» invitando inoltre sia le aziende che soprattutto le scuole ad uniformarsi in una prospettiva che vede scuole e aziende sempre più legate da un’indistinguibile connubio. Progetto, quello dell’Alternanza, che deve tassativamente coinvolgere almeno (almeno!) duecento ore all’anno per studente. Ciò significa che almeno un quinto delle ore scolastiche dev’essere impiegato ad apprendere una professione all’interno di un contesto aziendale (il tutto senza considerare la riluttanza dimostrata molto spesso dalle piccole imprese).

***

Di azioni dirette lo Stato non intende proporne altre. Anzi, il governo ammette chiaro e tondo che le finanze pubbliche da sole non sono in grado di sopperire alle esigenze economiche basilari della scuola pubblica (e questo nonostante sia il torrente di fondi pubblici che continua ad affluire verso le scuole private, sia il dettame costituzionale, sia quanto affermato da un rapporto Ocse del 2011, il quale stima che l’Italia spenda per la scuola pubblica non più del 4,7% del Pil contro una media dei Paesi monitorati corrispondente al 6,1%). Visto che l’unica soluzione adottabile è quella di affidare le chiavi della formazione scolastica ai privati, assistiamo oltretutto alla prosecuzione dei tagli spietati. Da parte di questo governo, l’avvisaglia è costituita da un accordo del 7 agosto 2014 che prevede una riduzione di 267,83 milioni del Fondo dell’istituzione scolastica a partire dal 2015, a cui si aggiunge un decreto di ottobre che fa ammontare i fondi per l’anno scolastico alle porte a 11 milioni di euro, circa la metà rispetto all’anno precedente.
Ma è la Legge di Stabilità autunnale a sferrare i colpi più pesanti: riduzione a partire dal 2015 di 30 milioni delle «spese e interventi correttivi del Ministero dell’istruzione» (90 milioni nel triennio in vista), sottrazione di 10 milioni di somme non utilizzate dalle scuole, abolizione degli esoneri dall’insegnamento per i collaboratori del preside (si prevede un risparmio di supplenti per 103 milioni), abolizione del coordinatore periferico del servizio di educazione fisica (circa un milione di risparmi per il 2015 e tre milioni di risparmi per il biennio successivo), risparmio stimato in 50 milioni sui distaccati in altri uffici o in altre associazioni, divieto di supplenze brevi sia per i docenti che per il personale ATA (si stimano 200 milioni di risparmio), riduzione di 2020 posti dell’organico del personale ATA (50,700 milioni di risparmio a partire dal 2015), decurtazione di 200mila euro di finanziamento alla scuola europea di Parma e, dulcis in fundo, nuovi tagli alla ricerca universitaria e nuovo blocco del contratto.
Perché è chiaro che d’ora in avanti la scuola deve assolutamente diventare un oggetto ad uso e consumo delle imprese private: il documento originario della «buona scuola» promette vantaggi nel momento della trasformazione delle scuole in Fondazioni (per la cui costituzione si necessita di un consistente fondo di dotazione di cui si omette la provenienza) assolutamente idonee per l’instaurazione di rapporti societari; e accenna inoltre in maniera sospettosamente vaga di metodi di finanziamento privato quali lo School Bonus (uno strumento per il quale il ddl prevede una detrazione del 65% per il 2015-2016), lo School Guarantee (garanzie per i finanziatori) e il Crowdfunding (finanziamento collettivo). Una slide presentata successivamente dal governo arriva addirittura a promuovere la fine del Contributo volontario delle famiglie da sostituire semmai con il 5x1000 nella prospettiva sempre più concreta di una scuola pubblica soggetta esclusivamente alla discrezione di finanziatori privati, soprattutto grandi imprese, sui cui favori pretesi in cambio ci sarà molto di che preoccuparsi.