mercoledì 9 dicembre 2015

Abbiamo bisogno di un partito

La vulgata anti-partitica inghiotte nella sua voragine strutture e organizzazioni, solidarietà e riti collettivi giustificandosi – quando non da uno sbraitare scomposto – tramite l’appello ad una presunta «modernità» traducibile concretamente, citando Hobbes, in un’esistenza misera, brutale e breve per la maggioranza schiacciante dei cittadini.
Avendo assistito a non esaltanti venticinque anni di Seconda Repubblica caratterizzati dalla quasi unanime damnatio memoriae nei riguardi delle organizzazioni partitiche è alquanto naturale giungere
Il cappio sventolato dalla Lega Nord durante Tangentopoli
inneggiava alla fine dei partiti
alla conclusione che forse una valutazione così impietosa verso le «polverose» organizzazioni di massa (il discorso si potrebbe infatti ampliare anche ai sindacati) non solo era ingenerosa, ma dettata più che altro da precisi interessi a cui eventi peraltro positivi come il crollo del muro di Berlino e il repulisti effettuato dalle procure nazionali hanno finito per fornire un’affrettata galvanizzazione a tutto scapito del lavoro e dell’assetto democratico.
Difficile rimanere inermi o trincerarsi dietro la rassicurazione omologante che «destra e sinistra non esistono più» quando ci si ritrova davanti alla sfacciata pubblicazione di un documento della JP Morgan in cui ci si vanta con malcelata euforia che

«I margini di profitto hanno raggiunto livelli che non si vedevano da decenni […] Sono le riduzioni dei salari e delle prestazioni sociali che spiegano la maggior parte dell’incremento netto degli utili. Questa tendenza continua da tempo: come abbiamo mostrato diverse volte negli ultimi due anni, la retribuzione dei lavoratori americani si colloca al punto più basso da cinquant’anni a questa parte in rapporto sia alle vendite delle società che al Pil degli Usa» (da JP Morgan, «Portfolios, US Corporate Profits and the Twilight of Gods», in «Eye on the Market», 11/07/2011, pag.1)

Poco ma sicuro che un grande partito di massa dotato di un solido radicamento e di una robusta rappresentanza parlamentare non avrebbe mai concesso che nei Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil – tra cui va annoverata anche la stima del reddito da lavoro autonomo – subisse uno sbalorditivo
La quota dei salari sul Pil nel corso degli anni
tracollo
di mediamente dieci punti percentuali tra il 1976 e il 2006, passando dal 67 al 57% (sorte particolarmente feroce per l’Italia, passata dal 68 al 53% con la caduta di un notevole 15%) garantendo un flusso miliardario nel versante delle rendite finanziarie, dei profitti e delle rendite immobiliari (da Ocse, «Croissance et inégalités», Paris 2008, pag.38, riq.1.2).
Comprimere ogni organo di consolidata rappresentanza dei cittadini ha rappresentato il passaggio chiave non solo per sradicare ogni barlume di opposizione organizzata all’opera di redistribuzione della ricchezza dai cittadini alle oligarchie finanziarie, ma per consegnare definitivamente ai padroni dell’apparato mediatico l’essenziale compito della formazione politica tanto per la massa quanto soprattutto per una classe dirigente (soprattutto burocratica) attivamente disposta ad esaudire i desiderata più consolidati.
Nella censura dell’«esautorazione del popolo ad opera dei partiti, visti soltanto come gruppi oligarchici di potere» e nel disprezzo dell’«organizzazione autonoma della cittadinanza attiva nello spazio politico» (il partito, appunto) un giurista come Gerhard Leibholz intravedeva «un nuovo romanticismo politico estremamente pericoloso» (da G. Leibholz, «La rappresentazione nella democrazia», Milano, 1989, pag.334 et passim) definito magistralmente da Kelsen

«attacco, ideologicamente mascherato, contro l’attuazione della democrazia» (da H. Kelsen, «La democrazia», Bologna, 1981, pag.57).

Con la fine della Prima Repubblica sono state soppresse tutte le organizzazioni di partito


Se la radice antidemocratica alla base dell’astio verso i partiti era evidente nella Prima Repubblica – a partire dal 1971 il periodico neofascista «Avanguardia» vedeva come sottotitolo «periodico di lotta alla partitocrazia» - dagli anni Novanta in poi la bramosa ingordigia di gettare tra i rifiuti ogni rappresentanza democratica condusse repentinamente ad un monopolio politico e culturale dominato da questa sconcia polemica. Non solo la prevedibile Lega Nord accanita contro la «partitocrazia centralista, corrotta e mafiosa» e i postumi missini di Alleanza Nazionale, ma persino organi della sinistra come la rivista «Micromega» arrivarono a ribaltare il discorso definendo l’organizzazione partitica un relitto della destra. Sulla stessa scia si collocarono ben presto gli eredi del Pci di Achille Occhetto, prolifico dispensatore di ingiurie nei confronti dei partiti «diaframma, intermediazione parassitaria» e propositi di «rompere il sistema consociativo» nonché «l’esproprio partitocratico» affidandosi alle virtù messianiche «dei cittadini elettori».
Non furono immuni alla travolgente orda anti-partitica riviste di prestigio come «Il Mulino», bramoso nella spasmodica attesa che «i partiti attuali passino attraverso la ghigliottina» dell’auspicato
Anche la sinistra finì per essere monopolizzata
dai dogmi antipolitici
referendum del ’92 sul maggioritario e sul finanziamento pubblico ai partiti, consultazione da definirsi gioiosamente «mazzata che scrolli via i partiti» (più feroce ancora il pur notevole Edmondo Berselli, non esitante nell’abbandonarsi all’invocazione di «distruggere», «scomporre» e «disarticolare i partiti»).
Come non mancò Confindustria di esprimere il suo beneplacito alle mozioni referendarie, i quotidiani nazionali inneggiarono in coro alla rivolta popolare contro i partiti, chi facendo leva sui suoi costi («Corriere della Sera»), chi sulla riscossa di una mitica «società civile» («La Repubblica»), chi scagliandosi contro «il tiranno senza volto» della partitocrazia («La Stampa») in un’assillante operazione mediatica ben riassunta dalle definizioni di un altro studioso ammirevole, Giovanni Sartori, all’epoca anch’esso assorto nella battaglia contro i «partiti piovra» e la «partitocrazia parassitaria».

Nasce nelle campagne, non nelle fabbriche, la nozione
di partito
Vinta in maniera sbalorditiva questa battaglia e terremotato alla radice ogni residuo di tradizionale rappresentanza, la Seconda Repubblica poté iniziare la sua ingloriosa epopea elargendo finora soltanto ampie manciate di carisma personali, leggi ad-personam, speculazioni, incapacità amministrative e deleghe in bianco al leader di turno a cui una frastornata sinistra non fu in grado di porsi come reale alternativa oscillando tra lo scimmiottamento della leadership berlusconiana, l’invocazione antipolitica di deleghe alla magistratura (o a qualche figura dello spettacolo), iniziative nebulose all’insegna di «girotondi» e prove traballanti di democrazia diretta poi in larga parte sfociate nel grillismo.
Acuita dagli sconvolgimenti globali, la scomparsa dei partiti è tornata finalmente al centro del dibattito pubblico portando parecchi studiosi alla conclusione che il partito sia da definirsi sorpassato dalla fine dell’assetto fordista imperniato attorno alla fabbrica. Una constatazione storicamente discutibile – il partito prende origine nel contesto agricolo, non operaio - a cui Lipset ha già fornito una concisa risposta, affermando che

«I partiti politici devono essere considerati come le più importanti istituzioni di mediazione tra cittadini e Stato. Ed un elemento fondamentale per una democrazia stabile è l’esistenza di grandi partiti con una significativa base di sostegno» (da S. M. Lipset, «Istituzioni, partiti, società civile», Bologna, 2009, pag.344)


La prima cosa di cui abbiamo bisogno è un partito.

lunedì 30 novembre 2015

Viva il muro bianco

I barbari che sperano di annientare la coscienza individuale del cittadino sotto una coltre ripugnante di proiettili e dinamite non meritano una risposta all’insegna della coercizione religiosa secondo cui la reazione al putridume jihadista andrebbe riscoperta in non meglio precisate «tradizioni» - le stesse che spingevano nel 1960 il prefetto di Cremona a descrivere la proiezione de «La dolce vita» come evento attinente a «ordine e sicurezza pubblica»? – o in altrettante opinabili «identità cristiane» sotto il cui velo si rivela un malcelato desiderio d’imporre alla comunità quelle che sono credenze attinenti alla più riservata sfera personale.



Non ci si riferisce al valore storico e artistico (oramai sempre più distante dal suo originario significato religioso) dei canti natalizi o della sopraffina maestria dei presepisti, quanto all’arrogante brandire di crocifissi nei luoghi pubblici. Pubblici, appunto, e di conseguenza appartenenti indistintamente ad ogni individuo che ne rispetti l’istituzione laica, tollerante, inclusiva e discendente assai di più dalla Resistenza che dal Vangelo. Assai di più dalla breccia di Porta Pia che dai Giubilei. Assai più da Gramsci che da Pio XII. Assai più da «Cuore» di De Amicis (in cui non figura alcun cenno a simbologie di fede) che dalle encicliche pontificali. Assai più dalla storica
Don Milani rimosse il crocifisso dalla scuola di Calenzano
presenza dei partiti di sinistra più forti del mondo occidentale (con una partecipazione alla lotta antifascista seconda solo a quella jugoslava) che dall’esistenza di uno Stato Vaticano nel fulcro geografico e amministrativo della penisola. Se davvero esiste un’identità nel popolo italiano, mi si permetta d’individuarla non nel bigottismo commerciale di un Giuliano Ferrara ma nell’abnegazione laboriosa di un don Lorenzo Milani talmente consapevole della delicata mansione educativa da aver personalmente rimosso il crocifisso da ogni parete della scuola di Calenzano, ove si dedicò all’insegnamento con nobile impegno. Erano coscienti, tanto don Milani quanto un altro prestigioso cattolico come Mario Gozzini per arrivare attualmente al giurista anch’esso cattolico Valerio Onida, che istruire significa anzitutto forgiare personalità in grado di scernere con razionalità la propria condotta senza lasciarsi sopraffare da condizionamenti brutalmente imposti.

Lo jihadismo colpisce particolarmente la Francia anche per l'alta presenza di atei e il diffuso senso di laicità


Non mi si risponda che la croce, in fin dei conti, è un oggetto innocuo: ragionamento non solo blasfemo per qualsiasi credente ma ignaro di una memoria storica che ha usato l’esposizione di
simbologie religiose come strumento per marcare il proprio egemonico dominio con particolare acredine nei confronti degli ebrei tra i quali merita peculiare attenzione un banchiere mantovano vissuto alla fine del XV secolo, Daniele Norsa, la cui volontà di debellare «certe figure de santi» dal muro esterno della propria abitazione venne accolta con una condanna, pena «ch’el sia impicato inante la casa», a trasformare a proprie spese la casa stessa in una cappella adibita al culto della Vergine.
Sulla pesante responsabilità dietro l’utilizzo di un simbolo così pregno di significato quale il crocifisso non mancano esempi tra loro opposti: da un lato basti ricordare la lettera spedita dal Centro Simon Wiesenthal all’ambasciatore polacco negli Stati Uniti per denunciare con meditato sdegno la presenza di parecchie croci all’interno del lager di Auschwitz. Il gruppo di ebrei, molti dei quali sopravvissuti all’Olocausto, riteneva a dir poco indelicato «imporre simboli cristiani alla sofferenza ebraica».

Dall’altro, non poca rilevanza ricopre il contesto in cui la croce cominciò con stabilità la sua tronfia occupazione dei luoghi pubblici: è il periodo della guascona violenza delle camicie nere, della volgare prepotenza dell’olio di ricino, del nauseabondo stormire di bastoni. Il periodo in cui Curzio Malaparte acclamava fervidamente questo atroce dinamismo descrivendolo come «specie di vendetta della terra sulle città sine Deo» che vedeva come protagonista 

«l’esercito agreste, lento e solenne all’assalto delle città moribonde, recando innanzi le immagini dei Santi, le mensoline con gli amuleti, i paramenti sacri, i tappeti di porpora tesi fra due pali, i baldacchini con sotto i vecchi, i preti e signori di campagna, e ancora elmi da frate infilati sui badili e sulle zappe, gonfaloni selvaggi e stendardi paesani con le scritte Virgo virginum, Christus imperat, e i grandi Crocifissi trionfanti» compatti nel desiderio di sfogare la propria atavica vendetta contro gli «ebrei socialisti», gli «uomini di piazza, di governo, di caffè, di università, d’accademia» colpevoli di aver «sputtanato in mille modi l’Italia eroica, santa, cristianissima del 1821».

Tra i primi provvedimenti del governo Mussolini, quello d'imporre il crocifisso nei luoghi pubblici

Immagine sotto molti aspetti truffaldina ma al contempo intimamente sentita in una vulgata fascista che, a partire dalle svariate messe celebrate in occasione degli anniversari della «marcia su Roma», rivendicava come cardine della propria azione «la Croce e il coltello» per citare ancora una volta i deliri di un Malaparte in preda ad un entusiasmo che lo portava a vedere nel trionfo del regime l’affermazione del «Cristo cattolico», «armato», «implacabile» e in grado di «resistere al male».

Di conseguenza, il 22 novembre 1922 una circolare dell’appena insediato governo Mussolini impone un perentorio diktat circa la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, già sancita da
un provvedimento del 1859 ma evidentemente non attuata col rigore necessario, reclamando: 

«In questi ultimi anni, in molte scuole elementari del Regno sono state tolte le immagini del Crocifisso e il ritratto del Re»: «aperta e non più oltre tollerabile violazione d’una precisa disposizione regolamentare», insultante nei riguardi della «religione dominante dello Stato» e finanche del «principio unitario della Nazione». Conclusione: «Si fa pertanto formale diffida a tutte le Amministrazioni comunali del Regno, perché sieno immediatamente restituiti alle scuole, che ne risultino prive, i due simboli sacri alla fede e al sentimento nazionale».

A firmare il proclama provvede il sottosegretario all’Istruzione Dario Lupi, lo stesso che ad esempio nel febbraio 1923 avrà modo di proclamare a corredo di un comizio: «Chi viene a noi, o diventa nostro, anima e corpo, spirito e carne, o sarà inesorabilmente stroncato».
Tempo neanche un mese e il 16 dicembre 1922 i prefetti del Regno ricevono la seguente circolare:
«Le SS. LL. vorranno richiamare l’attenzione dei Sindaci sul preciso intendimento del Governo di non tollerare alcuna trasgressione alle disposizioni impartite» a cui faranno seguito analoghe disposizioni sull’esposizione del crocifisso in tutti i luoghi pubblici (ordinanza ministeriale dell’11/11/1923), in tutte le scuole medie (regio decreto del 30/04/1924), in tutti gli istituti scolastici (circolare ministeriale del 26/05/1926).

Un’ossessione in cui è difficile non scorgere il rilievo ad essa riservata nella feroce opera d’indottrinamento degli italiani del futuro. Si ritiene questa pagina di storia degna di perpetuazione?
Orbene, per completezza si sancisca che di fianco al crocifisso venga appesa anche l’effigie del Duce Benito Mussolini, che «alla testa delle Camicie Nere preparò, contro la civiltà della rinunzia, la più grande delle rivoluzioni». A voler essere fiscali, questo impone la «tradizione storica della croce nei
luoghi pubblici» (rifarsi ai blandi provvedimenti del 1859 cambia poco: in tal caso si proceda all’affissione di «un ritratto del Re»).

Fortunatamente il progredire dei decenni ha spinto alcuni valorosi magistrati della Corte di Cassazione, fuori dal salmodiante coro politico-mediatico, ad assolvere un professore di Cuneo restio a svolgere le sue mansioni di scrutatore in presenza del crocifisso adoperando - siamo nel 2000 – parole meritevoli di essere scolpite: 

«L’imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto della fede, che ogni immagine religiosa simboleggia».

Concetti peraltro ben sedimentati nella concezione pubblica di zone con tradizioni religiose per molti versi analoghe a quelle italiane: a partire dalla Baviera che fin dal 1995 impone di eliminare simboli religiosi dalle scuole in mancanza di accordo unanime tra tutte le famiglie della classe per arrivare alla Francia che fin dal 1905 vieta di «apporre segni o simboli religiosi sui monumenti pubblici, e in qualsivoglia luogo pubblico» passando per una Spagna in cui ebbe modo di svolgersi pochi anni orsono un dibattito attorno alla «legge organica sulla libertà religiosa» concernente anche il divieto di affissione di simboli religiosi nelle pareti istituzionali.


Alle nostre latitudini si preferisce rimanere appesi, anche letteralmente, a dogmi da imporre in pubblico tralasciando i luoghi in cui effettivamente le croci hanno tutto il diritto d’insediarvi: strutture private e luoghi di culto ove però sovente i crocifissi o vanno scomparendo o vegetano dimenticati.

giovedì 26 novembre 2015

È l'economia a terrorizzare il mondo

C’è una fede pericolosa che assilla le nostre esistenze, mette in dubbio le nostre certezze, calpesta i nostri diritti e sputa sui nostri gloriosi trascorsi storici. Ci sono persone, in mezzo a noi, che ci vogliono sottomettere per rivendicare la loro supremazia: i ricchi, ossia quei 35 milioni d’individui (lo 0,7% della popolazione globale) in grado di stringere tra le mani il 44% della ricchezza del pianeta (da Research Institute, «Global Wealth Report 2014», Crédit Suisse, Zürich 2014, pag.24) legittimando la loro azione grazie ad autentiche ortodossie al limite del fanatismo secondo cui l’erosione della ricchezza dalle fasce meno abbienti è pratica auspicabile. Se Polanyi è stato tra i primi a definire «credo» il dogma alla base della proliferazione delle disuguaglianze, fu James Galbraith a descrivere i neoconservatori del Congresso Usa degli anni Ottanta nei seguenti termini:

«Per quanto uno fosse in disaccordo con loro queste erano persone che credevano [enfasi nel testo]. Erano idealiste. Avevano la forza della convinzione. Peggio ancora, erano loro a stabilire i temi da porre in agenda. E inducevano a pensare: se mai avessero ragione?» (da J. K. Galbraith, «The Predator State. How Conservatives Abandoned the Free Market and Why Liberales Should Too», Free Press, New York 2008, pag.3).

Ecologicamente, economicamente, socialmente e umanamente questa dottrina ha creato immani scompensi, perpetrando le più fetide ingiustizie il cui occultamento riesce possibile solo grazie al poderoso volume del chiassoso cicaleccio che almeno in Europa trova il proprio fulcro nel mantra di un «riformismo» tanto brutalmente imposto quanto disastroso sul piano sociale (tralasciando per pietà la situazione greca, in Spagna la disoccupazione supera il 25%, in Irlanda il debito pubblico delle famiglie tracima il 200% del proprio reddito, il Portogallo assiste al 14% di disoccupazione e al 50% di pressione fiscale). 

Furio Arte, Il potere dei soldi

Ma limitarsi ad osservare l’Ue del periodo post-2007 rischia di non cogliere la portata di uno sviluppo economico insostenibile fin dal principio e ad ogni latitudine, in cui la miscela di senso di strozzamento e apparente impossibilità di pensare ad un’alternativa porta inevitabilmente a forme di brutalità barbariche, checché affermino i novelli cultori dello scontro apocalittico tra Vangelo e Corano. L’islam è solo un terreno fertile su cui seminare la gramigna di una frustrazione le cui origini non risalgono alla religione, bensì ad un contesto sociale in cui le persone costrette a
vivere nelle orrende slums delle metropoli di Asia, Africa e America Latina sono passate dagli anni Settanta agli anni Duemila dall’1-2% della rispettiva popolazione a più del 20%, non facendo altro che accrescere vertiginosamente il disagio provocato da una globalizzazione che vede tra i suoi fattori più nocivi la fabbricazione di praticamente ogni genere di prodotto tramite la creazione spasmodica di società sussidiarie in paesi stranieri, come pure la mercificazione di servizi sociali e sistemi di protezione previdenziale, senza parlare della pura e semplice delocalizzazione la cui minaccia sarebbe da sola inaccettabile per qualsiasi politica che abbia minimamente a cuore la stabilità dell’individuo. Così nel mentre la precarizzazione lavorativa si diffondeva senza limiti (le assunzioni italiane del 2008 consistevano per il 70% in contratti «flessibili» contro il 50% dei primi anni Duemila) lo stesso lavoro stabile andava incontro ad una progressiva pauperizzazione finanche nei paesi avanzati se si pensa ad esempio che persino nell’invidiabile Germania dei primi anni di recessione si poteva assistere ad un esercito di lavoratori fissi (circa il 20%) costretto a trattamenti economici inferiori almeno alla metà del salario medio. Una situazione talmente drammatica da spingere l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) ad avvertire:

«Molti lavoratori hanno davanti a sé tempi difficili. Una crescita lenta o negativa, combinata con prezzi altamente volatili, eroderà i salari reali di molti lavoratori, in particolare quelli della famiglie più povere che percepiscono bassi salari. In molti paesi saranno probabilmente toccate anche le classi medie. […] V’è pure il rischio di veder salire il numero dei lavoratori poveri e la povertà in generale» (da Aa. Vv. «Global Wage Report 2008-2009. Minimum wages and collective bargaining – Towards policy coherence», International Labour Organization, Genève 2008, pag.60; si veda anche pag.8)

Una concezione del mondo fondata unicamente sulle possibilità di profitto ha provocato un ulteriore aggravamento delle condizioni per quanto riguarda le possibilità di accedere ai servizi essenziali: se già nel 2007 l’80% della popolazione globale si trovava sprovvista delle protezioni
necessarie per fronteggiare situazioni impreviste (dalla salute all’invalidità) con 340 milioni di anziani impossibilitati a ricevere un reddito stabile (da Department of Economic and Social Affairs, «World Economic and Social Survey 2007: Development in an Ageing World», United Nations, New York 2007; cfr. tab. 11.3 a pag.14) persino negli opulenti Stati Uniti è stato rilevato che la quota di famiglie in grado di far fronte a emergenze di tipo medico risulta drammaticamente scesa dal 43,7% nel 2000 al 33,9% nel 2007; sorte analoga per quelle in grado di fronteggiare un’emergenza generica dal costo pari a tre mesi di reddito (dal 39,4% del 2000 al 29,4% del 2007) e ovviamente per quanto concerne un breve periodo di disoccupazione (sostenibile per il 51% delle famiglie nel 2000 contro il 44,1% del 2007). Incertezze ben maggiori permangono ovviamente nei paesi in via di sviluppo, dimenticato contesto ove 2,6 miliardi di persone all’inizio della crisi vivevano in abitazioni prive di servizi igienici di  base mentre secondo l’Onu ammontavano a 1,1 miliardi gli individui la cui fonte d’acqua si trovava a più di un chilometro dalla propria abitazione. 

Analogamente a circa un miliardo ammontavano gli affamati, succubi delle incertezze di un mercato finanziario che ad esempio nel solo biennio 2007-2008 ha visto accrescere il prezzo degli alimenti di base (frumento + 68%, riso +80%, mais +72% e via discorrendo) in misura tale da aver bruscamente innalzato la quota di affamati nel pianeta (si veda S. Rosen, S. Shapouri, K. Quanbeck e B. Meade, «Food Security Assessment 2007», United States Department of Agriculture, Washington 2008, pag.3). Una cifra che si abbina a quella degli 1,3 miliardi di lavoratori che prima della crisi guadagnavano meno di due dollari al giorno (da International Labour Office, «Global Employment Trends», Ilo, Genève 2008, pagg.9-11) a cui ribattere con discutibili indici sulla decrescita della povertà globale non basta dal momento in cui studi attenti ai diversi contesti globali rilevano non solo che il calo è da imputare de facto alla sola Cina, ma

«Quanto minore è la disuguaglianza, tanto maggiore è la riduzione di povertà associata a una determinata crescita del reddito procapite […] Si tratta di un risultato facilmente comprensibile se si ricorda come è costruito l’indice di povertà: ridotte disuguaglianze implicano che il numero di coloro che sono, dal basso, vicini alla soglia della povertà è – a parità di altre condizioni – più elevato. Questo assicura che anche una limitata partecipazione al processo di crescita potrà permettere a molti di varcare quella soglia» (da N. Acocella, G. Ciccarone, M. Franzini, L.M. Milone, F.R. Pizzuti, M. Tiberi, «Rapporto sulla povertà e le disuguaglianze nel mondo globale», Fondazione Premio Napoli, Napoli 2004 pag.75)


Si potrebbe proseguire lungamente a dimostrare quanto assodato sia il fallimento delle politiche
economiche globali (si pensi ad esempio alla drammatica situazione ambientale), tra i cui effetti andrebbe probabilmente annoverato il ripugnante proliferare della più rivoltante barbarie islamica. Lo spiega in maniera inconfutabile Al Housseini Ag Bilal, musicista arabo-tuareg di Kidal intervistato dal periodico «Limes»: ricordando il periodo in cui il suo paese, il Mali, si trovò costretto sotto il giogo della jihad ebbe il coraggio di affermare:

«I jihadisti hanno gestito bene la giustizia […] Dal punto di vista sociale sono stati, almeno all’inizio, molto positivi per la vita quotidiana delle persone. Regalavano sacchi di riso e ai poveri non hanno mai chiesto un franco».

Se vogliamo cercare il nocciolo che spinge migliaia d’individui tra le orride braccia del terrorismo non occorre – o almeno non basta - leggere il Corano

mercoledì 18 novembre 2015

Come ci siamo venduti ai signori del terrore

Le classi dirigenti dell’Occidente apparentemente libertario erano ben coscienti che troppo spesso le mani che stringevano per siglare accordi erano ancora inzuppate del sangue degli «infedeli»: lo sapevano e non solo lo tolleravano (in base alla massima di Friedman secondo cui ogni azione prescindente dal profitto va definita «profondamente sovversiva») ma tutto sommato lo incoraggiavano ben coscienti che la barbarie jihadista, lungi dal voler ribaltare gli assetti costituiti, è la migliore garanzia per far rimanere inalterati i fragilissimi equilibri della regione mediorientale impedendo che qualche nazione dell’area – soprattutto l’Iran – acquisisca uno status di potenza troppo ingombrante.
Quello degli attentati è stato evidentemente considerato un prezzo ragionevole da pagare in cambio di un contesto geopolitico e commerciale (sebbene sia sovente difficile comprendere quando finisce l’uno e quando inizia l’altro) fertile per i propri interessi: la verità è che nel mondo del business al capitale dei magnati islamici non possiamo rinunciarci, e dall’insorgenza delle «primavere arabe» questo capitale quasi sempre tradotto anche in potere politico conosce un unico piedistallo che ne garantisce la sopravvivenza, ossia la presenza di qualche capro espiatorio dalla ridicola matrice religiosa in cui convogliare il disagio popolare.

(fonte)
L’Occidente, in poche parole, ha messo in vendita la sicurezza dei propri cittadini; ma lo scambio non è stato di natura culturale: ai due capi del tavolo non troviamo cristiani e musulmani. Utili e perdite si dividono in base alla posizione ricoperta nella classe sociale. Gli abbienti comunque vada incassano un proprio tornaconto, ai meno abbienti (di qualunque fede) non rimangono che paure e privazioni a cui la sagacia delle classi dominanti provvede a fornire narrazioni utili soltanto a renderli marionette a propria disposizione (da qualunque versante si collochi, tutti i
Il principe Alwaleed bin Talal ha donato venti milioni di dollari
a quello che una volta si chiamava Center for Muslim-Christian
Understanding di Georgetown
sostenitori dello «scontro di civiltà» si prestano a questo gioco), talvolta insinuandosi nelle delicate enclavi dell’istruzione universitaria come dimostra ad esempio l’apertura ad opera del fondo sovrano emiratino Mubādala della
Paris-Sorbonne Université Abou Dhabi, succursale nell’isola di al-Rīm della prestigiosa università parigina alla presenza nientemeno che dell’allora primo ministro François Fillon in singolare concomitanza con le sollevazioni popolari in tutto il mondo arabo. Difficile non scorgere tra i motivi principali di questa attività il desiderio propagandistico palesato in maniera inconfondibile dall’analista Nawwāf al-‘Ubaydī, per parecchi anni a libro paga della famiglia reale saudita e ora visiting fellow del Belfer Center dell’Università di Harvard sempre prodigo di buone parole nei confronti del ripugnante regime del Golfo, specie quando si tratta di esaltare la «nuova generazione di leader sauditi» nella difficile prova del potere da esercitare senza dubbio alcuno «con più forza, più coerenza  e, soprattutto, più sostenibilità» (si veda anche N. Obaid, «Saudi Arabia Is Emerging as the New Arab Superpower», da «The Telegraph» del 05/05/2015).



Se nel versante culturale per fortuna l’Italia non «gode» di questa attenzione, i tentacoli dei burattinai del terrorismo – specie quelli provenienti dal Qatar - sono visibili in una sequela di preziosi settori, dall’Hotel Gallia di Milano (acquistato nel 2006) al Regis di Roma (acquistato nel 2014), dall’acquisizione di Costa Smeralda Holding all’ottenimento del complesso di Porta Nuova a Milano.
Eppure in una delle controversie più determinanti per i qatarini, quella libica, il governo italiano preferisce schierarsi con le forze avverse, spendendosi più di una volta in elogi nei riguardi del «grande leader» egiziano al-Sīsī in prima linea nel sostegno alle truppe del generale Ḥāftar. Una strategia che ad un primo disincantato sguardo non comporta alcun vantaggio per l’Italia, specie per quanto concerne il delicato tema del traffico dei migranti, al contrario adoperato dalle milizie di Tripoli come arma (di ricatto ma non solo) da scagliare come ritorsione con particolare accanimento sulle coste italiane. A chiarire la situazione, del resto, ci aveva pensato con mezzi particolarmente rudi lo stesso premier di Tripoli intervistato da una televisione del nostro paese:

«Devo sottolineare la riluttanza del governo italiano a collaborare con noi e la sua debolezza nel combattere il terrorismo e i criminali […] questo ha fatto sì che i criminali trovassero un ambiente favorevole per espandersi. Noi non abbiamo mezzi e l’Italia non ha fatto niente per aiutarci a combattere il terrorismo in Libia». Dulcis in fundo arriva l’avvertimento di stampo mafioso: «Nonostante tutto, il nostro governo di salvezza nazionale a Tripoli sta facendo del suo meglio per combattere l’immigrazione clandestina e salvare i profughi. Purtroppo abbiamo trovato solo rifiuti da parte dell’Europa e l’Italia è al primo posto in questa riluttanza».

Lungi da qualunque sensibilità umana, anche l’Italia guarda al mondo unicamente dallo spioncino
Il principe emiratino  osannato dall'industria italiana
degli affari, nello specifico stando ben attenta a salvaguardare i rapporti col più generoso sostenitore di Ḥāftar, ossia quegli Emirati Arabi
in preda ad una capillare campagna denigratoria ad uso interno tesa a dimostrare la connessione tra le forze di Tripoli e le sollevazioni popolari che, da Šāriqa a Um al-Qaywayn, si sono verificate negli Emirati del Nord nel corso del 2011 tenendo nel contempo un occhio concentrato su come implementare la propria influenza geopolitica sul Maghreb. Eppure, nonostante questa meschina attività indubbiamente connessa con l’insorgenza del più fetido jihadismo, compromettere i rapporti con gli Emirati viene considerato un pericolo troppo grande se si considera che gli Eau

«investono in Egitto e gli appalti, come il masterplan del “Triangolo d’oro” nel Mar Rosso, vanno a imprese italiane. In secondo luogo, c’è un potenziale triangolo militare, laddove non solo gli Emirati forniscono soldi all’Egitto che poi li spende in armi ma anche posseggono imprese italiane come la Piaggio Aerospace, che produce armamenti d’avanguardia come i droni. Infine, il rapporto con gli Emirati tramite l’Egitto potrebbe servire ad assicurare alle imprese italiane come l’Eni una presenza nel Nordafrica trattando con chi oggi detiene (o pensa di detenere) le chiavi non solo dell’Egitto ma anche della Libia» (da M. Toaldo, su «Limes – rivista italiana di geopolitica», n.03/2015)



Non ci si sorprenda, dunque, se l’attuale presidente del consiglio d’amministrazione del fondo Mubādala nonché principe ereditario degli Emirati nonché vicecomandante supremo delle Forze armate del paese sia Šayḫ Muḥammad bin Zāyid Ᾱl Nahyān, dotato di un rapporto talmente confidenziale con l’Italia – reso possibile anche dalla frequentazione dell’accademia di Pozzuoli  – da essere stato nominato grande ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica nel settembre 1990 nonostante i suoi dogmi grettamente retrivi. Dogmi che lo hanno spinto ancor di più nella scelta di acquisire Piaggio Aerospace, probabilmente incoraggiato anche dall’amico Luca Cordero di Montezemolo (attualmente presidente di Alitalia emiratina e vicepresidente di Unicredit grazie peraltro alle raccomandazioni provenienti dai magnati di Abu Dhabi). Magnati che nel frattempo sono riusciti a mettere le mani sopra l’italiana Maire Tecnimont, a creare una joint-venture tra l’italiana Selex Es e Abu Dhabi Ship Building per potenziare la Marina emiratina, ad attivare satelliti grazie al supporto della franco-italiana Thales Alenia Space e non viene fatto nulla per nascondere il desiderio del fondo sovrano Adia di entrare nel capitale di Aeroporti di Roma.

In questo fiorente traffico non potevano mancare momenti amaramente beffardi, come il momento dell’accordo stipulato nel febbraio 2015 grazie al quale l’Aeronautica militare italiana provvederà ad acquistare direttamente dagli Emirati i droni prodotti dalla Piaggio Aerospace. Il comunicato ufficiale afferma lusingato questo accordo porterà ad un «rafforzamento della capacità di sorveglianza e difesa del territorio nazionale da eventuali minacce, inclusa quella terroristica» occultando ingenuamente che per tramortire la «minaccia terroristica» il primo fondamentale passo è evitare certi rapporti d’affari

martedì 10 novembre 2015

Riprendiamo Polanyi


Domenica a Bologna abbiamo visto concretizzarsi quella «classe esplosiva» (da G. Standing, «Precari. La nuova classe esplosiva», il Mulino, Bologna 2012) rancorosa verso uno stato di perenne insicurezza senza apparenti vie d’uscita. Mentre nel trentennio post-bellico del compromesso keynesiano/fordista la formazione di un efficiente stato sociale e la conquista d’importanti diritti erano in grado d’impedire che l’assetto capitalista seminasse forti disagi sociali, la successiva egemonia indiscussa dei principi del mercato ha sortito il pericoloso effetto di acuire il senso di precarietà senza garantire al contempo alcuna speranza di riscatto (nemmeno quella falsa e scricchiolante offerta dal «socialismo reale»), generando in tal modo il terreno fertile per il rinfocolarsi di rancori spesso sfocianti nella violenza (sugli effetti dell’insicurezza a livello di personalità si veda J. Palmade «L’incertitude comme norme», Puf, Paris 2003, ma anche D. Maharidge, «Journey to Nowhere. The Saga of the New Underclass», Dial Press, Garden City 1985).
Salvini è un leader non inviso all'establishment

La coincidenza, siamo alla fine degli anni Settanta, tra inizio del dissesto dell’Unione Sovietica e rivoluzione khomeinista in Iran testimonia con singolare evidenza quanto le sanguinanti divisioni che ora più che mai lacerano il pianeta altro non siano che nevrotiche reazioni ad un disagio provocato dall’improvviso venir meno di un’alternativa di sistema: fondamentalismi di ogni genere hanno visto la luce negli ultimi anni, millantando divisioni sociali, etniche e religiose utili soltanto a celare la reale posta in gioco, ossia il progredire indisturbato di un capitalismo finanziario definito addirittura «letale» (si veda Department of Economic and Social Affairs, «World Economic and Social Survey 2008: Overcoming Economic Insecurity», United Nations, New York 2008, cap.I, pag.1).

Le destre nazionaliste sempre più popolari in Europa rappresentano l’acme di questo disagio, a tal punto palese che persino il «Corriere della Sera» è costretto ad ammettere che l’estremismo riesce a trionfare in Polonia soltanto «promettendo assegni familiari, età pensionabile più bassa, assistenza gratuita agli over 75, tasse alle multinazionali» e via crescendo in quello che a primo acchito apparirebbe come il più genuino tra i programmi di sinistra (da F. Battistini sul «Corriere della Sera» del 26/10/2015, pag.6).
L'estremismo islamico è una tipica espressione
del disagio sociale

La possibilità che in reazioni al dominio del capitale potessero sorgere non uno, bensì due movimenti antagonistiuno di tipo democratico, l’altro di tipo autoritario – lo aveva già intuito uno studioso come Karl Polanyi, il quale affermava avvalendosi di un contesto per molti aspetti paragonabile a quello odierno:

«Per un secolo la dinamica della società moderna fu governata da un doppio movimento: il mercato si espandeva continuamente ma questo movimento si incontrava con uno opposto che controllava l’espansione in determinate direzioni. Per quanto vitale fosse questo secondo movimento per la protezione della società, esso era in ultima analisi incompatibile con l’autoregolazione del mercato e quindi con lo stesso sistema di mercato.
Questo sistema si sviluppava a salti e balzi, inghiottiva spazio e tempo e creando moneta per mezzo del credito bancario produceva una dinamica finora sconosciuta…Un nuovo modo di vita si diffuse su tutto il pianeta con una pretesa di universalità che era senza confronti dall’epoca degli inizi del cristianesimo; questa volta tuttavia il movimento era a un livello puramente materiale.
Simultaneamente nasceva un contromovimento che era qualcosa di più del solito comportamento difensivo di una società che si trovi di fronte a un mutamento; era una reazione contro uno sconvolgimento che attaccava il tessuto della società e che avrebbe distrutto l’organizzazione stessa della produzione che il mercato aveva creato» (da K. Polanyi, «La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca», 1944, Einaudi, Torino 1974, pag.168).

L’auspicato «contromovimento» poteva però assumere una forma dittatoriale, la quale «promette di metter fine al dominio distruttivo dei mercati, ma minaccia di farlo con mezzi fascisti» (da M. Bienefeld, «Suppressing the Double Movement to Secure the Dictatorship of Finance», in A. Buğra e K. Ağartan, «Reading Karl Polanyi for the Twenty-First Century», pag.14) oltretutto, qui sta il nocciolo, incontrando il favore del capitale stesso timoroso di trovarsi al governo un «contromovimento» democratico ben più insidioso per i suoi interessi.

Il "Purple Trolley" di Liz West

Incanalando l’onda non più domabile di reazione all’assetto economico verso un’opposizione meno pericolosa per i propri affari e maggiormente concentrata nella ricerca d’indifesi capri espiatori (immigrati soprattutto), i potentati economici hanno modo di godere di maggiori chance di sopravvivenza: un copione già sperimentato, peraltro, nell’Italia degli anni Venti e nella Germania degli anni Trenta.
La ferma speranza è di non arrivare mai a questo punto, per quanto l’occupazione mediatica a cui viene sottoposto Salvini lascia trapelare quantomeno il desiderio d’incoronare l’aberrante segretario leghista come unica opposizione concepibile.

Non resta che dimostrare quanto in realtà esista anche un’altra opposizione, quel contromovimento democratico così tanto temuto.

mercoledì 4 novembre 2015

Educazione come progetto economico

Qualche anno fa un team di economisti giunse a scrivere che «la questione chiave non è se le modalità di governo dovrebbero rispondere meglio alla crisi finanziaria, ma come dobbiamo attrezzarci per comprendere che la crisi è una modalità di governo» (da J. Brasset e N. Vaughan-Williams, «Crisis is Governance. Sub-prime, the Traumatic Event, and Bare Life» su «Global Society», XXVI, gennaio 2012, n.1, pag.42) lasciando chiaramente trapelare la convinzione che la recessione in atto lungi dall’essere – come apparentemente dovrebbe sembrare – un imbarazzante fallimento delle dottrine economiche imperanti sia da interpretare al contrario come il pretesto migliore da un lato per sottrarre al controllo democratico i residuali servizi di garanzia pubblica e dall’altro per riuscire letteralmente a formare il cittadino secondo i canoni di un Homo oeconomicus in grado di guardare ad ogni aspetto della propria esistenza come ad una merce scambiabile in qualsiasi mercato borsistico (sulla mercificazione in atto in Europa dei sistemi di sicurezza sociale si veda A. Heise e H. Leirse, «Haushaltskonsolidierung und das europäische Sozialmodell. Auswirkungen der europäischen Sparprogramme auf die Sozialsysteme», Friedrich-Ebert-Stiftung, Berlin 2011). 

Un obiettivo, questo, elaborato da parecchio prima che la crisi economica deflagrasse: si pensi a titolo d’esempio al cosiddetto Powell Memorandum, documento indirizzato nel 1971 al Comitato Educazione della Camera di commercio Usa ad opera dell’avvocato Lewis F. Powell secondo cui era assolutamente necessario agire su tutti i gangli della formazione universitaria, «anche là dove non siano presenti dei sinistrorsi» (da L.F. Powell, «Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System») affinché libri di testo e spazio da garantire ai conferenzieri fossero sottoposti ad uno scrupoloso controllo da parte di studiosi di provata fede nel «sistema». Sorte analoga doveva essere riservata a stampa, televisione, radio, riviste scientifiche, pubblicità e
finanche gestione delle edicole, colpevoli di esporre pubblicazioni «inneggianti a tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre non si trova quasi nessun libro o rivista attraente e ben scritto che stia “dalla nostra parte”», ossia dalla parte della destra economica, la stessa che nel giro di alcuni decenni sarebbe riuscita in maniera stupefacente ad esaudire i sogni di Powell consegnandoci un mondo in cui la dominazione culturale è saldamente monopolizzata dal dogma neoliberale: a partire dall’informazione per arrivare alle università, ove l’assalto degli ultraliberisti «ragazzi di Chicago» nelle facoltà di economia è coincisa con l’opera di discredito nei confronti dei dipartimenti di scienze umane (caso esemplare le classifiche delle migliori università del mondo, in cui si osserva la deliberata marginalità riservata ad atenei quali la Sorbonne e la Normale di Pisa) contribuendo in misura determinante a realizzare quel clima di egemonia esplicitamente denunciato da alcuni studiosi indipendenti (si veda S. Schulmeister, «Das neoliberale Weltbild – wissenschaftliche Konstruktion von “Sachzwägen” zur Förderung und Legitimation sozialer Ungleichheit», IKW WP n.115, Vienna 2006, pag.154).



Egemonia riscontrabile in vari ambiti, su tutti la pretesa delle istituzioni politiche di misurare il peso delle facoltà accademiche in rapporto al bilancio economico dell’ateneo: emblema di una incontrovertibile visione contabile di ogni aspetto della formazione del cittadino, osservabile peraltro anche nella spinta agli Istituti italiani di cultura all’estero di avere come scopo prioritario lo sponsor del Made in Italy e nella richiesta di legami università-industria sempre più saldi.
L’opera di trasferire nel campo educativo l’impostazione aziendalistica ha inizio negli uffici dell’Ocse, «capocantiere della demolizione sociale» (da S. Halimi, «Le grand bond en arrièere. Comment l’ordre libéral s’est imposé au monde», Fayard, Paris 2006, pagg.314 e seguenti) ampiamente rintuzzato da organismi quali il Cmit composti da dirigenti finanziari, accademici e funzionari ministeriali, che a partire dagli anni Novanta ideò un sistema di valutazione periodica per
gli studenti degli stati membri – il Pisa – incentrato esclusivamente su capacità di lettura, matematica e scienze dando il via ad una competizione tra le varie nazioni al fine di raggiungere i primi posti in classifica mediante riforme scolastiche cucite su misura per i risultati di quei test. Alla «catastrofe Pisa» (da J. Krautz, «Ware Bildung. Schule und Universität unter dem Diktat der Ökonomie», Diederichs e-Books, Bad Bentheim 2012) si andarono nel tempo ad aggiungersi altri convegni e think tanks concentrati sull’argomento tra cui va segnalato per importanza quello svolto a Bologna nel giugno 1999, un contesto in cui i ministri europei dell’Istruzione superiore affermarono i seguenti propositi:

 «Adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità […] al fine di favorire l’employability dei cittadini europei e la competitività del sistema europeo dell’istruzione superiore.
Adozione di un sistema fondato essenzialmente su due cicli principali […]
Consolidamento di un sistema di crediti didattici […] acquisibili anche in contesti diversi, compresi quelli di formazione continua e permanente […]
Promozione della cooperazione europea nella valutazione della qualità al fine di definire criteri e metodologie comparabili» (dal sito del Miur)

Dettami a cui in Italia il ministro Berlinguer diede rapida attuazione, a partire da un’organizzazione dei cicli universitari che in taluni casi comportò un taglio pari a un quarto della didattica.
Altro documento meritevole di attenzione è quello del Consiglio europeo di Lisbona tenutosi nel 2000:

 «5. L’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo […] Il raggiungimento di questo obiettivo richiede una strategia globale volta a predisporre il passaggio verso un’economia e una società basate sulla conoscenza.
[…]
25. I sistemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi […] Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai gruppi
Luigi Berlinguer, primo di una lunga serie di
sciagurati riformatori della scuola italiana
obiettivo nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti
[…]
26. Il Consiglio europeo invita pertanto gli Stati membri […] ad avviare le iniziative necessarie per conseguire gli obiettivi seguenti: […] un quadro europeo dovrebbe definire le nuove competenze di base da fornire lungo tutto l’arco della vita: competenze in materia di teoria dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, imprenditorialità e competenze sociali»


La conclusione è stata sagacemente offerta da un docente: «La politica della formazione è diventata da allora un elemento stabile della politica dell’occupazione e dell’economia. Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla mobilità» (da L. A. Pongratz, «Bildung im Bermuda-Dreieck. Bologna – Lissabon - Berlin» su «Schulheft», n.139, Studienverlag, Innsbruck-Wien-Bozen 2010, pag.41) ottenuta mediante una brutale degradazione del pensiero critico che la crisi economica intende tramortire definitivamente. Per questo un’opera divulgativa di pensiero alternativo e indipendente rappresenta il primo fondamentale passo per scardinare un assetto neoliberale fondato esclusivamente su dogmi di fede sempre più distanti dall’esperienza quotidiana dei cittadini

martedì 27 ottobre 2015

Chi ha paura del pensiero critico?

Nonostante la bramosia della costruzione di un pensiero uniforme a livello di società sia insita in qualsiasi struttura di potere, la sistematicità con cui l’attuale esecutivo coltiva l’ossessione del controllo sul dissenso merita una discussione più approfondita per capire quale forma di Paese sta venendo brutalmente plasmata. Dal governo, ovviamente, ma anche dai suoi mentori assiepati nei consigli di amministrazione o nell’assortita serie di think-tank capillarmente concentrata nel mantenimento dell’egemonia culturale dei dogmi neoliberali – dall’Adam Smith Institute alla Heritage Foundation, dalla Société Mont-Pelerin all’Istituto Aspen, dalle Bildeberg Conferences alla Tavola Rotonda degli Industriali Europei.

Un ricco vivaio a cui da un lato la cospicuità dei mezzi finanziari e dall’altro la pigrizia della controparte nel tentare una risposta specularmente vivace (attualmente le uniche riviste di pensiero critico di discreta diffusione sono le anglosassoni «Monthly Review» e «New Left Review») ha concesso dapprima il controllo dell’informazione di massa, poi il quasi monopolio delle istituzioni politiche. Manca solo qualche tassello per raggiungere il pieno controllo sociale; anzi, provvede l’ormai celebre Report dell’imponente società finanziaria JP Morgan «The Euro Area Adjustment: About Halfway There» (Europe Economic Research, 28/05/2013) a fare il punto della situazione: dopo che il titolo riconosce la diligenza nell’aver svolto circa la metà del percorso auspicato, dal nono punto in poi dell’elaborato s’indica con chiarezza alle nazioni dell’eurozona la prossima tappa da
La grande banca invoca la rimozione dei principi costituzionali,
la politica esegue con entusiasmo
completare: risolvere l’inadeguatezza delle Costituzioni
«nate troppo a ridosso della sconfitta delle dittature», ritenute eccessivamente infettate da «una forte influenza socialista» e inclini ad affermare «governi deboli», evidentemente non forti abbastanza per debellare con disinvoltura «la protezione costituzionale dei diritti al lavoro» e soprattutto l’impiccio più ostico di tutti, «il diritto di protestare quando intervengono modifiche sfavorevoli dello status quo» (pag.12).
In maniera meno sbrigativa, un rapporto dello scorso anno della fondazione Italiadecide («Italiadecide, Rapporto 2014. Il Grand Tour del XXI Secolo: l’Italia e i suoi territori», Società Editrice il Mulino) lautamente foraggiato dai capitali di Benetton e Intesa Sanpaolo arrivava ad analogo auspicio: usando il pretesto molto gettonato del rispetto verso il turista, si afferma a pag.239 che l’afflusso turistico è determinato in misura consistente 

«dall’immagine fornita dal sistema paese, dalla sua credibilità, dal senso di sicurezza trasmesso ai potenziali visitatori, dall’idea di ordine e di organizzazione territoriale, sociale ed economica veicolata dai mass-media, dalle cronache quotidiane, dai social network».

Grazie a poche parole si palesa insomma l’obiettivo di ottenere un pensiero unico totalizzante, di cui un passaggio straordinario – dalla crisi economica all’organizzazione di un grande evento come l’Expo – può rappresentare il catalizzatore ideale per anticiparne gli aspetti di maggior portata.
Non sorprende quindi che la classe capitalistica transnazionale abbia plasmato nel laboratorio dei media un Presidente del Consiglio come Matteo Renzi, la cui cifra e carburante del successo sono fondati su uno spavaldo disprezzo nei confronti del pensiero ponderato analogo a quello del pietoso filosofo Callicle, celebre per diffondere nell’Atene classica il ripudio canzonatorio verso la razionalità: «La filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età;
Il sociologo Marco Revelli
ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini
» dichiarava nel «Gorgia», giungendo alla sincera conclusione che in fin dei conti le regole – comprese quelle democratiche – sono arzigogoli inventati da «uomini deboli e del volgo», futili orpelli per «i ben dotati dalla natura» meritevoli di agire «e di prevaricare» secondo la loro indole. Il sociologo Marco Revelli, che con sagacia ha per primo notato questa somiglianza, nel suo ultimo libro arriva all’amara considerazione che

«ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’azione al pensiero. Il demiurgo al riflessivo. Il fare al pensare. E addita nell’intellettuale il nemico della Patria. Il podagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà» (da M. Revelli, «Dentro e Contro: Quando il populismo è di governo», i Robinson/Letture, Editori Laterza, ottobre 2015, pos.947 della versione Kindle).

L’attacco che fin dalle prime settimane di azione i principali componenti dell’esecutivo hanno riservato alle maggiori istituzioni della formazione del pensiero non lascia spazio a dubbi sulla rilevanza che questo aspetto ricopre nell’azione di governo: già il 31 marzo 2014 il Presidente del Consiglio sulle colonne del «Corriere della Sera» scherniva la categoria dei «professoroni» e dei «professionisti dell’appello» (dall’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo, «“No, il Senato non sarà più elettivo”») facendo da apripista alle frecciate che appena qualche giorno più tardi Maria Elena Boschi riservò contro «le continue prese di posizione dei professori» colpevoli «negli ultimi trent’anni» di aver «bloccato un processo di riforma che invece non è più rinviabile» (dichiarazioni rilasciate nella trasmissione «Agorà», su Rai 3 del 04/04/2014).

Il premier Matteo Renzi



Una chiara insofferenza verso il pensiero critico che accompagnerà gran parte degli ultimi interventi legislativi, tutti accomunati dal filo conduttore di costruire una società fondata sul dominio incontrastabile della prevaricazione aziendalistica (dopo l’approvazione dello squallido
Jobs Act, Renzi si gongolò all’assemblea generale delle Confindustrie europee di aver debellato «il rischio di un giudizio» verso le imprese) il cui acme è stato raggiunto nell’imperio della «buona scuola», barbaro tentativo di assoggettare definitivamente l’istruzione pubblica ai canoni dell’impresa (tramite partenariato pubblico-privato, indicatori di risultato, agenzie di controllo, autonomia e sanzione immediata dei dipendenti incapaci) al fine di formare cittadini a cui l’accumulazione finanziaria risulti non la migliore tra le situazioni possibili, ma l’unica situazione concepibile. La capacità di «esplorare la possibilità di salvezza tramite la facoltà di distinguere» (da J. Birkmeyer, «Kritische Bildung perdu? Einsprüche gegen das neoliberale Hochschulklima»), ossia il non lasciarsi sopraffare dall’astuto trucco propagandistico del «non ci sono alternative» è l’arma più temuta dagli assetti di potere, adoperarla è il mezzo migliore per intralciarne l’interessato percorso.