sabato 20 settembre 2014

Il mistero italiano



L’Italia è un Paese povero? La risposta non è semplice. Secondo Bankitalia le persone con un reddito equivalente annuo inferiore a 8.260 euro rappresentavano nel 2012 il 16,1% della popolazione, con un aumento del 2% rispetto al 2010. Confindustria stima che in Italia ci siano 4,8 milioni di poveri, il doppio di quanti ce n’erano sei anni fa. Il Rapporto sulla coesione sociale di Inps, Istat e ministero del Lavoro recita: «Nel 2012, si trova in condizione di povertà assoluta il 12,7% delle famiglie residenti in Italia (+1,6 punti percentuali sul 2011) e il 15,8% degli individui (+2,2 punti). Si tratta dei valori più alti dal 1997, anno di inizio della serie storica. I poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del Nord (dal 2,5% al 6,4%). Nel corso degli ultimi cinque anni, la condizione di povertà è peggiorata per le famiglie numerose, con figli, soprattutto se minori, residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie con membri aggregati, in cui convivono più generazioni. Fra queste ultime una famiglia su tre è relativamente povera e una su cinque lo è in senso assoluto». E già, il Mezzogiorno da questo punto di vista vive in una situazione disperata: l’Istat ha stimato che nel 2012 le regioni meridionali vedevano il 9,8% della popolazione in condizioni di povertà assoluta, con un aumento del 70% (circa 350mila famiglie) rispetto al 2007 (all’epoca i poveri erano il 5,8%). In Sicilia il 20% delle famiglie vive con meno di mille euro al mese, in Basilicata il 16,7%, in Campania il 14,9%, in Calabria il 12,8%. Questi numeri stanno a significare che mediamente il 14,1% delle famiglie del Sud è costretto a vivere in condizioni di povertà, il triplo rispetto a quanto avviene nelle regioni del Centro-Nord (dove comunque le famiglie in difficoltà sono il 5,1%). Ancora più scoraggianti i numeri forniti da Eurostat: il 19,4% della popolazione italiana è a rischio povertà, le persone con privazioni materiali serie sono il 14,5%. Inoltre, le persone che stavano per cadere in almeno una di queste condizioni erano il 25,3% della popolazione nel 2008, il 28,2% nel 2011 e il 29,9% nel 2012.
Eppure. C’è un eppure in tutto questo. Perché se da un lato le situazioni di povertà continuano a moltiplicarsi (secondo l’Inps tra il 2008 e il 2012 il potere d’acquisto delle famiglie è calato del 9,4%), dall’altro lato le persone ricche continuano costantemente ad arricchirsi (secondo il numero due di Bankitalia «il 10% delle famiglie più ricche deteneva nel 2012 il 46,7% della ricchezza, dal 44,3% del 2008»). Una ricchezza di tutto rispetto: secondo un rapporto Eurispes intitolato «L’Italia in nero. Riflessioni sull’economia sommersa» nel 2010 il Belpaese deteneva il primato europeo (europeo!) in termini di compravendite di beni di lusso. Un giro d’affari stimato in 16,6 miliardi. Se diamo un’occhiata approfondita alle nostre strade, scopriremmo che circolano complessivamente 2.715.976 automobili di cilindrata superiore ai duemila centimetri cubici, scopriremmo che nel 2009 sono state acquistate 206mila supercar (con un costo medio di 103mila euro), scopriremmo che siamo il secondo mercato al mondo per la vendita di Lamborghini e il quinto per la vendita di berline Bmw. Anche un’occhiata ai nostri mari può riservare delle sorprese: nel nostro Paese circolano 600mila barche, di cui quasi un sesto superiore ai dieci metri di lunghezza. E se girovagando strizzassimo l’occhio a osservare le case, vedremmo (almeno stando a quello che dice il catasto) qualcosa come 70mila palazzi da sogno. Palazzi nelle cui sale da pranzo circolano i prodotti più prelibati: siamo il sesto Paese al mondo per consumo di champagne.
Ovviamente per mantenere questo tenore di vita occorre una notevole disponibilità economica, che a quanto pare in Italia non scarseggia: secondo il Global Wealth Databook del Crédit Suisse, gli italiani con un patrimonio superiore al milione di dollari sono 1,4 milioni. Sono tanti? A quanto pare sì, visto che l’Eurispes ha posto l’Italia al nono posto (quasi a pari merito con la Svizzera) tra gli stati col maggior numero di milionari.
I ricchi più sfondati di tutti, quelli con un patrimonio superiore agli 1,5 milioni di euro sono (secondo il «World Wealth Report 2013») 176mila. Un dato in incessante crescita: dal 2011 questi ricchi sono aumentati del 4,5%. I conti in banca degli italiani, inoltre, sono straripanti: secondo uno studio di Unimpresa (fondato su dati Bankitalia) a giugno 2013 il tesoro degli italiani nei forzieri degli istituti di credito stava a quota 805 miliardi, con un aumento di 45 miliardi in un solo anno.
E sempre Bankitalia ha ammesso nel 2012: «Nel confronto internazionale le famiglie italiane mostrano un’elevata ricchezza netta», portandoci tra i primi venti posti della classifica dei paesi più ricchi. La stessa conclusione a cui è arrivata la Bundesbank, la quale ha stimato che il patrimonio medio delle famiglie italiane è di 163.900 euro. Sapete a quanto ammonta quello delle famiglie tedesche? A 51.400 euro, neanche un terzo. «Fantastico!» ha esclamato il presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco, osservando il numero delle sottoscrizioni di fondi d’investimento nel luglio 2013: si parla di 6,3 miliardi solo per quel mese, con un ammontare complessivo dall’inizio dell’anno di 45 miliardi.
A questo punto la domanda sorge spontanea: da dove diavolo arriva tutto questo capitale? Secondo il rapporto del 2012 «Ricchezza e disuguaglianza in Italia» stilato da Bankitalia le eredità e le donazioni rappresentano una quota variabile tra il 30 e il 55% della ricchezza netta delle famiglie. Andando però a scavare a fondo, senza lasciarci influenzare da statistiche che rischiano di apparire come i celebri polli di Trilussa, lo studio evidenzia come soltanto il 5% delle famiglie benestanti viva in questa paradisiaca situazione grazie alle eredità. Significa quindi che gran parte della ricchezza arriva da una lauta remunerazione. Non stiamo parlando dei politici, come il cittadino è portato a credere: secondo l’Associazione italiana private banking i sette decimi delle persone con un patrimonio finanziario (senza contare quello immobiliare) di almeno 500mila euro sono lavoratori autonomi. E se uniamo questa rivelazione con la considerazione che in Italia la sproporzione tra ricchezza e reddito dichiarato è di 8 a 1 (negli Stati Uniti il rapporto è 5,3 a 1) scopriamo una cosa molto semplice: la ricchezza degli italiani proviene dall’evasione fiscale. Una ricchezza sfrenata e soprattutto sfrontata nei confronti di chi, anche a causa di un’inaudita pressione fiscale, vive in condizioni d’indigenza. Combattere veramente i ladri del fisco non è solo una questione contabile, è una questione di civiltà e giustizia sociale. Ci pensino, i nostri governanti, quando stilano le leggi di bilancio. 

martedì 16 settembre 2014

Il governo a trasparenza alternata



Non basta la loquacità per diventare degli statisti, non basta evocare la gioventù per formare una vera classe dirigente, non basta lanciare uno slogan per dare corpo a delle vere riforme, non basta snobbare i corpi intermedi per essere dei rivoluzionari, non basta avere la battuta pronta per dimostrare trasparenza e vicinanza ai cittadini. Uno dei paradossi del renzismo sta proprio qui: nel mentre si vuole dimostrare spasmodicamente di essere «vicini al popolo» (l’uso smodato dei social network serve proprio a questo), lo stesso popolo viene tenuto all’oscuro di ogni vera intenzione dell’esecutivo. Bisogna accontentarsi di qualche slide striminzita, il più delle volte composta da informazioni distorte o reticenti il cui scopo, chiaramente, non è quello d’informare, bensì da un lato di far campagna elettorale, e dall’altro lato di dimostrare un’azione che, alla prova dei fatti, non è così prolifica come si vorrebbe far credere.
Compensare la (quasi) sterile azione governativa. Questo è il vero motivo che si nasconde dietro le innumerevoli consultazioni online o dietro le varie parole d’ordine proclamate con impeto guerriero.
Sia la riforma della Pubblica amministrazione che la riforma della Giustizia vennero rinviate di qualche mese (un irrilevante decreto sulla giustizia civile è stato firmato solo qualche giorno fa dal Capo dello Stato) formalmente proprio con lo scopo di lasciare spazio alla «vox populi» come accadeva ai tempi di Barabba e Ponzio Pilato. Per carità, questa pratica così apparentemente affascinante e iper-democratica non è una novità di questo governo: a inaugurare questo modus operandi è stato Mario Monti sulla questione del valore legale della laurea (tema spinosissimo tra i ministri, molti dei quali docenti universitari), e già allora si scoprì che tra i partecipanti alla consultazione figuravano bislacchi figuri come Elvis Presley o Antani Bitumato. Poi fu la volta della spending review: anche qui i cittadini furono invitati a partecipare attivamente, con il risultato che molte tra le innumerevoli proposte fatte, si parla di 135mila mail in soli 25 giorni, o non vennero minimamente prese in considerazione oppure vennero sonoramente bocciate dal Parlamento. Paradigmatica in questo senso la proposta (arrivata sette minuti dopo l’apertura del sito) di spegnere l’illuminazione stradale dalle 23 in poi. Proposta che venne respinta per ben due volte dalle Camere.
Anche Enrico Letta cadde in tentazione: diede in pasto al popolo sia le questioni costituzionali (ottenendo 200mila partecipanti) sia le questioni relative alla burocrazia (ottenendo questa volta 2mila mail), con il solo risultato d’imbottire i cassetti dei ministeri.
Matteo Renzi si è insomma limitato a seguire questa tradizione dai discutibili precedenti con la sola differenza di aver corredato il tutto da una scenografia e da un’enfasi ineguagliabili. Come al solito gli argomenti affidati alla pubblica discussione non riguardano degli aspetti specifici e ben circoscritti (come successo, ad esempio, nel Regno Unito, quando si chiese se fosse giusto passare dalle banconote di carta alle banconote di plastica) ma dei capisaldi fondamentali da cui passa la possibilità di crescita in Italia, con l’effetto non solo di scatenare le lobby (l’Aci ha chiesto espressamente ai suoi iscritti di bombardare la casella mail rivoluzione@governo.it con la richiesta di non effettuare il sacrosanto accorpamento con la motorizzazione civile) ma di ricevere una lunga serie di proposte riguardanti ambiti diversissimi, al punto tale che il ministero della Pubblica amministrazione ha dovuto implorare l’università La Sapienza di smistare e trovare delle linee guida essenziali, che molto probabilmente, visti i precedenti, non verranno nemmeno prese in considerazione.
Fittizie consultazioni online, ma non solo. Il governo qualche settimana fa ha ordinato una conferenza stampa per annunciare in pompa magna la creazione di un sito web: passodopopasso.italia.it, il quale dovrebbe servire ai cittadini per monitorare l’attività del governo nel corso dei prossimi mille giorni. Tutto bene, se non fosse per il fatto che la piattaforma informatica ospita soltanto una spruzzata di becera propaganda: si asserisce, per esempio, che tra febbraio e luglio l’occupazione è aumentata dello 0,2%. Considerando però che a Palazzo Chigi Renzi ci è arrivato soltanto alla fine di febbraio, sarebbe stato più opportuno illustrare i dati del periodo marzo-luglio: si sarebbe scoperto, infatti, che in questo frangente di tempo l’occupazione è diminuita dello 0,15%.
Non si trova alcun documento, di programmi manco a parlarne. Eppure i contenuti non mancherebbero: che fine hanno fatto, ad esempio, i 25 documenti finali riguardanti i tagli alla spesa pubblica prospettati da Cottarelli? Lo spazio non dovrebbe mancare, visto che indicativamente tale documento occupa solamente 25 megabyte (tanto quanto un filmato di cinque minuti), fatto sta che nessuno ha avuto l’accortezza e la trasparenza di metterli a disposizione di tutti. Non era lo stesso Renzi a dichiarare di fronte ai senatori che «dobbiamo avere il coraggio di far emergere in modo netto, chiaro ed evidente che ogni centesimo speso dalla pubblica amministrazione deve essere visibile online da tutti»? Non era lui stesso a invocare nello stesso discorso un «meccanismo rivoluzionario per cui ogni cittadino può verificare giorno dopo giorno ogni gesto che fa il proprio rappresentante»?
Anche qui, però, bisogna dire che l’idea non spicca per originalità: «l’albero del programma» comparve sul sito web di Palazzo Chigi anche all’epoca del secondo governo Prodi. Un’iniziativa naufragata per motivi opposti rispetto a quelli attuali: se il sito web di Renzi pecca di penuria, il sito web di Prodi era un arzigogolo che avrebbe fatto impazzire anche l’hacker più paziente. Una situazione talmente grottesca da costringere la piattaforma ad una rapida chiusura.
Nel mentre il governo è impegnato in tutte queste messinscena atte soltanto a frastornare i cittadini, di fatto si può dire che molti dei luccicanti progetti di questo esecutivo sono andati a monte: la vendita di auto blu su eBay ha visto le aste deserte, il taglio dello stipendio dei supermanager ha visto escluse le società che hanno emesso bond sul mercato (tra queste Poste, Cdp e Ferrovie), il pensionamento dei magistrati  avverrà in maniera assai graduale, il pensionamento dei docenti universitari è saltato per mancanza di coperture, il regolamento unico per l’edilizia in tutti i Comuni è misteriosamente scomparso dal decreto «sblocca-Italia», senza parlare della lunghissima serie di promesse fatte a voce e prive di qualsiasi riscontro pratico (vizio che accompagna il premier da una vita, visto che già i compagni di scuola lo soprannominavano «il bomba», proprio per schernire l’abitudine di voler stupire tutti senza dimostrare nulla).
Nell’attesa, ormai al limite dello snervamento, di vedere discussa qualche riforma strutturale, almeno si eviti di prendere per i fondelli i cittadini e si cominci a dire le cose come stanno. Gli italiani hanno tutto il diritto di reclamare la verità.