giovedì 28 agosto 2014

Colpo di Pos



Avete idea di cosa siano 529 miliardi di euro? Personalmente ammetto di fare non poca fatica per immaginarli. Sono un capitale immenso, equivalente all’incirca all’ammontare delle ultime venti manovre economiche che si sono avvicendate in Italia negli ultimi dodici anni. I governi ogni anno passano l’estate a lambiccarsi il cervello per cifre come tre o quattro miliardi (questo era il valore dell’Imu sulla prima casa che rischiava di mandare in malora il governo Letta) e fingono di non accorgersi di questo succulento malloppo. Una forma di masochismo? Assolutamente no: andare a scalfire i 529 miliardi di euro di economia sommersa in Italia significa irrimediabilmente perdere una quota molto consistente di elettorato. È stato l’Eurispes, all’interno di uno studio intitolato «L’Italia in nero» uscito nel 2012, a fornire questa sbalorditiva cifra, la quale, se scorporata, rivela che 280 miliardi di euro provengono dal lavoro nero, 156 miliardi dalle imprese e 93 miliardi dall’economia informale. 529 miliardi di euro significa qualcosa come il 30% del Pil: in Gran Bretagna l’economia sommersa non supera il 6,7%, negli Stati Uniti il 5,3%, in Francia il 3,9%, in Norvegia addirittura lo 0,3%.
Questa foresta enorme di denaro rubato alla collettività cresce e prospera grazie a un concime che in Italia pare non conoscere limiti: il contante. L’Italia è una repubblica fondata sulla banconota. Secondo la Guardia di Finanza in questo momento stanno svolazzando in giro per la penisola qualcosa come 15 miliardi di banconote, per un valore totale di 870 miliardi. La Banca d’Italia nel novembre 2012 pubblicò uno studio intitolato «Il costo sociale degli strumenti di pagamento» in cui si stimava che nel nostro paese l’82,7% delle transazioni vede l’utilizzo del denaro liquido, contro una media europea del 66,6%. Un amore dai caratteri quasi illogici quello che ha l’Italia verso la banconota sonante: secondo la Bce il 31% dei compratori utilizza i contanti anche per pagamenti che riguardano somme tra i 200 e i 1000 euro, mentre (secondo un rapporto Ipsos del giugno 2012) per le somme sotto i 100 euro l’uso del contante rappresenta praticamente la normalità (la percentuale qui è del 93% per la fascia 50-100 euro e del 98% per la fascia 0-50 euro).
Va da sé che l’utilizzo delle carte di pagamento sia una pratica quasi marginale nel nostro paese: secondo Bankitalia, mentre in Europa l’utilizzo delle carte coinvolge mediamente il 13,2% delle transazioni, l’Italia è ferma al 6,4%. Ancora: secondo i dati dell’Istituto per la competitività riferiti all’anno 2011, mentre in Italia sono stati effettuati pagamenti con carte di credito o debito per l’ammontare di 122 miliardi (l’8% del Pil), la nostra dirimpettaia Francia ha visto un ammontare di 393 miliardi (il 19,6% del Pil) e la Gran Bretagna di 578 miliardi (il 33,1% del Pil). Oppure ancora: la Guardia di Finanza ha stimato che nel 2011 ogni cittadino italiano ha effettuato mediamente 68 operazioni senza contante, con una media dell’area euro a quota 182, con la Francia a quota 255, la Gran Bretagna a quota 257 e l’Olanda addirittura sopra le 300.
Una pratica, quella del pagamento con carta, talmente sporadica da ripercuotersi naturalmente anche sul numero di carte in circolazione: secondo Datamonitor in Italia ci sono 1,2 carte per abitante contro una media Ue di 1,5 (in Gran Bretagna la media è di 2,4). Numeri che nel corso degli anni vanno progressivamente peggiorando: tra il 2011 e il 2012 il numero di carte presenti nel portafoglio degli italiani è passato da 29.805.000 a 28.473.000. Di queste, secondo l’Abi, 13,5 milioni non vengono mai adoperate. La carta in Italia serve quasi esclusivamente per il prelievo (che nel 2012 è ammontato a 160 miliardi), poco o nulla per i pagamenti (le operazioni sui Pos non superano i 73 miliardi).
Come se non bastasse, se a un cittadino venisse la brillante idea di pagare il più possibile con la carta, si ritroverebbe in forti difficoltà: secondo Bankitalia il Pos, ossia l’aggeggio presente nei negozi che consente il pagamento con carta, è presente soltanto nel 31% delle imprese di servizi italiane (la media europea è del 44%), una percentuale che scende a picco (sfiorando il 10%) quando si tratta di attività professionali, immobiliari, sanitarie e assistenziali.
Eppure mantenere i contanti ha un costo troppe volte trascurato: la banconota bisogna produrla, metterla in sicurezza e custodirla. Operazioni annose che ogni anno mangiano lo 0,52% del Pil nostrano (contro una media Ue dello 0,46%), il che significa che dalle casse dello Stato si allontanano inutilmente, secondo un rapporto 2011 di Capgemini, 10 miliardi di euro. Una vera passione, quella per il contante. Una passione che, a guardar meglio, conosce una sua logica tipicamente italiana. Secondo il tributarista Ernesto Ruffini, l’incidenza delle frodi sui pagamenti tracciabili è dello 0,016%.
Basta questo numero per rendersi conto del reale motivo che spinge la popolazione a boicottare le carte di credito, e basta questo numero per capire il reale motivo che spinge la politica italiana a non fissare dei limiti stringenti all’uso del contante. Secondo l’Istituto per la competitività, se ogni italiano riducesse di soli 15 euro i prelievi effettuati col Bancomat, ci sarebbe una diminuzione dell’economia sommersa tale da garantire allo Stato un maggiore gettito di 9,8 miliardi. Se venissero messe in circolo dieci milioni  di carte in più, il sommerso totale subirebbe una diminuzione tale da garantire al fisco 5 miliardi di euro. L’Ufficio analisi economiche dell’Abi va addirittura oltre, asserendo che un aumento del 10% delle famiglie dotate di carta farebbe emergere 10 miliardi, che diventerebbero 40 miliardi (dieci volte l’Imu sulla prima casa) se tutte le famiglie fossero dotate di tessera di pagamento. Come ha giustamente notato l’economista del Centro Europa Ricerche Carlo Milani in un articolo su «lavoce.info», «Grecia e Italia sono i paesi europei che mostrano i prelievi di contanti di importo medio più elevato (rispettivamente 250 e 175 euro) e contestualmente hanno la più alta incidenza dell’economia sommersa sul Pil».
Eppure qualcosa sembra muoversi, molto lentamente: nell’èra dell’austerity forzata e delle inflessibili regole di bilancio, continuare a portarsi appresso un fardello come l’economia sommersa ha iniziato a far smuovere le coscienze finora impassibili della classe politica. Da pochi mesi, quindi, si è deciso di fare un piccolissimo passo dichiarando obbligatoria la presenza dei Pos nei negozi, obbligatoria per modo di dire visto che non sono previste sanzioni di alcun tipo se l’esercente viene beccato sprovvisto del meccanismo. Nonostante ciò, è bastato questo minuscolo provvedimento per sollevare l’ira popolare. Uno sdegno apparentemente bizzarro: chi compra adoperando la carta non perde tempo nel prelievo, non corre il rischio di essere rapinato e, mettendosi d’accordo con la propria banca, l’esborso può essere sostenuto materialmente in un altro momento con zero interessi. Questo per quanto riguarda il cliente. Per quanto riguarda il commerciante il pagamento con carta è ancora più conveniente: maggiori vendite (il cliente può acquistare anche se non ha banconote in tasca), maggiori risparmi sulla gestione del contante e garanzia della banca del pagamento effettuato.
Il giornalista Stefano Livadiotti, all’interno del formidabile volume «Ladri», spiega inoltre: «I conti dicono che il valore aggiunto derivante dall’uso delle carte è pari al 7,8% della somma delle transazioni effettuate con questo strumento. Mentre il costo complessivo si ferma al 3,4%. Insomma, il negoziante (o il ristoratore o il parrucchiere) ha tutto da guadagnarci. Come spiega un sofisticato studio dei ricercatori di Ignazio Visco, basato su un’indagine svolta tra gli stessi esercenti, essere pagato in contanti è solo apparentemente un vantaggio (evasione a parte) per chi vende, con un costo di 0,18 euro a transazione contro gli 0,37 del Bancomat. Se infatti si va a calcolare il costo in percentuale sul valore della transazione, la situazione si inverte: il contante costa l’1,07 e il Bancomat lo 0,54, cioè la metà. E questo perché, con i soldi liquidi, al crescere dell’importo i costi di gestione aumentano più che proporzionalmente, mentre per le carte a pesare di più sono i costi fissi. In conclusione: secondo valutazioni molto attendibili, dai 20 euro in su al commerciante che ci tiene a essere in regola con il fisco il Bancomat conviene (e ci rimette pochissimo, mezzo punto, con la carta di credito). E infatti è lui a finanziare con la quota maggiore il sistema che deve garantire la remunerazione delle due banche che intervengono nel business: la sua (che trattiene la commissione, la cosiddetta Merchant Service Charge, composta in genere da una cifra fissa e da una percentuale sull’importo della transazione) e quella del compratore, che si fa girare dalla prima una parte della commissione stessa (la Multilateral Intercharge Fee), per aver dato la sua garanzia sull’importo dovuto all’acquirente».
Nonostante ciò, gli esercenti continuano imperterriti a indignarsi, a battere i pugni e a voler imporre le loro ragioni. Se basta così poco per scatenare la rabbia, figuriamoci che pandemonio susciterebbero le misure adottate una decina d’anni fa in Corea del Sud: nel paese orientale, ai commercianti che dimostravano di aver incassato tramite Pos veniva garantito un ribasso dell’Iva del 2%. Inoltre, è stato fissato un tetto al contante di qualcosa come 42 dollari e, infine, è stato concesso un forte sconto fiscale ai titolari di carta che conservavano la ricevuta. Il risultato? In sei anni il gettito fiscale dei pagamenti tracciati è passato dal 30 al 62%. Ci è voluto poco allora e ci vorrebbe poco anche nell’Italia di oggi. Basta avere coraggio e andare dritti fino in fondo, anche a costo di perdere il voto degli autonomi.

sabato 9 agosto 2014

Sotto questo sole



In un’estate piovosa come non capitava da decenni a questa parte, affrontare un tema come l’energia solare può sembrare come minimo fuori luogo. Eppure ci tocca farlo, non fosse altro che per l’informazione distorta diffusa in molti canali d’informazione riguardo alcuni recenti provvedimenti governativi in materia. La vicenda in poche parole è questa: nel decreto Competitività il governo (pur di ridurre il costo della bolletta energetica per famiglie e piccole imprese) ha deciso di allungare il tempo di rimborso degli incentivi alle energie rinnovabili da 20 a 24 anni. Un piccolo passetto a scapito dei produttori di energia solare che ha sollevato il prevedibile pandemonio: banche, poteri forti, lobby del fotovoltaico (anche il «Wall Street Journal» si è scagliato contro il provvedimento), ambientalisti duri e puri, ecologisti da salotto, barricaderi dei social network, grillini e figure di quella sinistra che ha trovato nella difesa miope dell’ecologia il suo punto di riferimento si sono tutti uniti per gridare alla «morte delle rinnovabili». Il problema in realtà andrebbe spiegato con maggiore cura, partendo da lontano.
Siamo nel 1999, al governo c’è Massimo D’Alema e l’Italia decide di dar vita all’ambizioso progetto «20-20-20» (poi adottato dall’intera Unione Europea), il quale prevede che entro il 2020 il 20% dell’energia debba arrivare da fonti rinnovabili. Un piano sicuramente partito con le migliori intenzioni per risolvere il dilemma titanico dei cambiamenti climatici.
C’è però un problema: il denaro erogato ai produttori di energia pulita (per lo più solare) proviene dalle bollette energetiche di famiglie e imprese. Con l’andar del tempo questo torrente di denaro finisce per diventare un fiume in piena: i grossi speculatori del fotovoltaico si ingozzano a dismisura dei quattrini provenienti da bollette energetiche che di anno in anno diventano sempre più pesanti per i cittadini (e non potrebbe essere altrimenti: un chilowattora ottenuto dal gas costa 7 centesimi, mentre un chilowattora ottenuto dal sole ne costa 35). In particolare la situazione inizia a precipitare alla fine del 2010 quando un emendamento (firmato da Filippo Bubbico del Pd ma appoggiato da tutti i partiti) infilato per chissà quale ragione nel decreto «salva-Alcoa» porta gli incentivi al fotovoltaico dai 900 milioni del 2010 ai 4 miliardi del 2011, destinati a diventare 6 miliardi nel 2012 per poi stabilizzarsi (grazie a un altro decreto) a 6,7 miliardi nel 2013. Nel solo 2012 gli incentivi al fotovoltaico consistevano in 313 euro a megawattora, contro i 162 della Germania e i 160 della media europea.
I risultati a livello ecologico sono encomiabili: l’Italia (unico tra i grandi Paesi dell’Ue) ha ampiamente superato il traguardo del 20% e attualmente ben il 35,1% dell’energia consumata nel Belpaese proviene da energie rinnovabili, contro il 20% della Germania e il 12% della Francia. Ma il prezzo di questa situazione è assolutamente inammissibile: secondo Assoelettrica l’elettricità nel nostro Paese ha un costo maggiore del 25% rispetto alla media dei Paesi europei (Daniele Manca, sul «Corriere della Sera», stimava anche un 30%) e ogni cittadino italiano deve pagare mediamente 200 euro di bollette energetiche (complessivamente si parla di 40 miliardi). Nel solo 2012 il costo della luce è stato superiore dell’11,2% rispetto agli altri paesi europei.
Insomma, sovvenzionare a dismisura la produzione di energia solare ha finito per consegnare un fardello immane a famiglie e piccole imprese, e ha sempre di più scoraggiato gli investitori internazionali ad aprire impianti nel nostro Paese; il tutto condito da una beffa: il 45,4% dei fondi destinati al fotovoltaico proviene da commercianti e piccole imprese che rappresentano però soltanto un terzo dei consumi. Ciò significa che le imprese di grosso fatturato vedono un costo dell’energia notevolmente minore (circa la metà) rispetto alle piccole imprese, una situazione paradossale spiegata in questo modo dal presidente di Assoelettrica: «Un utente domestico con potenza impegnata di 3 kW e un consumo che non supera i 3-4mila kWh annui paga il chilowattora circa 19 centesimi tutto compreso. Lo stesso consumatore che chiede l’allaccio a 6 kW e che consuma la stessa quantità di energia paga, sempre tutto compreso, quasi 30 centesimi. E ciò che si può affermare, anche soltanto a grandi linee, è che a subire il peso maggiore delle bollette sono proprio quelle piccole e medie imprese che costituiscono l’asse portante del tessuto industriale italiano, unitamente alla crescente platea di consumatori domestici che risultano oggi penalizzati per aver voluto rivolgersi alle più avanzate tecnologie di efficientamento. E la mia esperienza nel settore mi porta a credere che gran parte della responsabilità di queste sproporzioni sia da imputare alla spaventosa crescita delle rinnovabili in Italia».
Una crescita che non conosce limiti: la produzione di energia solare nel 2013 ha visto un balzo del 16,4% e dal 2011 c’è stato un aumento del 50% di impianti installati (attualmente è stimata la presenza di circa 550mila impianti). Al giorno d’oggi (complice anche la drastica diminuzione dei consumi di energia dovuta alla crisi economica) ci troviamo nella bislacca situazione di produrre troppa energia solare e, dovendo adoperarla a tutti i costi, lo Stato è costretto a ridurre al minimo l’energia proveniente da altre fonti: nel 2013, a fronte di un aumento del 20,1% di produzione di energia solare, la termoelettrica è precipitata del 14,1% (gli impianti di energia termoelettrica sono costretti a lavorare al minimo, talvolta sotto la soglia di redditività).
Il motivo di questo abnorme consumo di soldi per il fotovoltaico lo spiega così Mario Pirani su «La Repubblica» del 30 giugno 2014: «Qualche economista sprovveduto o ben sovvenzionato pensò che queste concessioni avrebbero favorito l’industria italiana dei pannelli fotovoltaici e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche necessarie per farli funzionare, ma niente di questo avvenne e oggi l’Italia praticamente non ha industria che produce pannelli o apparecchiature elettroniche». Sempre secondo Pirani, l’unico vero risultato di questi finanziamenti è stato «una tumultuosa crescita della speculazione finanziaria alimentata con valenza ventennale da capitali che il governo italiano tra il 2008 e il 2011 ha elargito a chi copriva di pannelli le nostre campagne, con una suddivisione che vedeva tedeschi e cinesi fornire la tecnologia mentre noi assicuravamo la bassa manodopera ed i terreni. Gli incentivi erano garantiti per ben 20 anni, prelevati dalle tasche delle famiglie e delle imprese attraverso le bollette elettriche. Ogni anno complessivamente quasi 7 (sette) miliardi di euro vanno così a riempire i conti bancari dei proprietari di questi impianti. Quasi un punto di Pil».
Anche sull’impatto ambientale dei pannelli fotovoltaici è lecito nutrire dei dubbi: la totalità degli impianti di pannelli solari ha sottratto una quantità di terreno fertile pari alla grandezza dell’intero Molise spodestando ecosistemi, limitando la nostra eccellente produzione agricola, impoverendo il terreno, impedendo che si compia il ciclo dell’anidride carbonica e deturpando il paesaggio. Senza contare il mistero che aleggia intorno alla destinazione dei pannelli esausti.
Insomma, gli unici che ci guadagnano veramente da questa mangiatoia (e che ora tremano di fronte alle pur modeste azioni governative) sono banchieri e speculatori; lo spiega lo stesso Pirani: «Innanzitutto l’installazione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico è difficilmente annoverabile tra le attività industriali. Non si corre il minimo rischio, lo Stato, attraverso il Gse (gestore dei servizi elettrici) garantisce l’acquisto dell’energia elettrica prodotta. Poi, ad eccezione di qualche lavoratore extracomunitario utilizzato per il lavaggio dei pannelli solari un paio di volte l’anno, l’occupazione è nulla. Gli investimenti finanziari al netto delle tasse risultano superiori al 20%, con punte del 30%».
Viviamo quindi in un Paese dove la speculazione fa ampi profitti sulla pelle delle piccole imprese, una speculazione che trova un potente scudo nei tanti pregiudizi energetici amplificati dai media e ben innestati nella mentalità dei cittadini: di fatto ogni energia che non sia la solare o l’eolica viene percepita come dannosa per la salute o per l’ambiente o per l’ecosistema o per chissà quale altro aspetto. Ad esempio, la Puglia che si oppone strenuamente ai rigassificatori, che si oppone strenuamente alla Trans adriatic pipeline e che si erge a paladina dell’ambiente, vede un impianto di energia fotovoltaica ogni 106 abitanti. Siamo sicuri che le convenga?
La migliore conclusione per questo articolo la offre un brano di Camillo Langone pubblicato su «Il Foglio» del 3 dicembre 2013: «La nazione che esporta più pomodori è diventata l’Olanda. Seguono il Messico, la Spagna, la Turchia, la Francia (il mio fruttivendolo cerca sempre di piazzarmi pomodori francesi ma io, patriota, resisto). L’Italia, il paese d’ ‘o sole, non pervenuta. Perché oggi la produzione di pomodori da insalata anche in riva al Mediterraneo è conveniente solo in serra e le serre sono affamate di energia e l’energia in Italia costa uno sproposito siccome gli italiani, a differenza degli olandesi e degli altri, sono signorini schizzinosi che non vogliono centrali nucleari né a carbone, non tollerano trivellazioni né in terra né in mare, e si oppongono strenuamente a termovalorizzatori e rigassificatori. Ovvio che i nostri pomodori siano fuori mercato. Con i costi dell’energia che ci troviamo ormai possiamo produrre solo rape. Che dovrebbero diventare l’ortaggio nazionale: il simbolo della nostra idiozia».

mercoledì 6 agosto 2014

Tromboni d'Italia



La mediocrità della classe dirigente del nostro Paese si dimostra anche attraverso la presuntuosa pomposità del modo in cui questa si pone agli occhi dei cittadini. Ad esempio: quasi nessuno è al corrente che il titolo di «onorevole» venne abolito dal regime fascista col Foglio d’Ordini  n°1277 del 4 marzo 1939; eppure la politica italiana continua (eccezion fatta per i 5 Stelle) ad adoperare questo titolo manco fosse un blasone nobiliare. E guai a toccarglielo! Guai se qualcuno ingenuamente si appella ai nostri rappresentanti omettendo questo titolo! Il distacco tra il patrizio e il plebeo, il fossato tra il nobile e il popolano è doveroso che venga ben contrassegnato e che nessuno si azzardi a dimenticarlo!
Non sono solo esercizi di retorica, sono fatti che avvengono quotidianamente nell’Italia del XXI secolo: più o meno un anno fa l’Esimia Onorevole Dottoressa Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria Marialina Intrieri vergò una piccata missiva al funzionario prefettizio di Crotone per rimproverarlo di un fatto a suo avviso sacrilego: aver scritto una lettera in cui si appellava alla Intrieri solo con il semplice e plebeo «dott.sa», omettendo il titolo «on.». Una svista recepita come un insulto, come una lesa maestà da parte dell’interessata. Come poter tacere dinnanzi a un affronto simile? La Dott.sa On.Intrieri non ci ha pensato due volte: ha rifiutato la lettera e ha risposto seccamente con la missiva a cui abbiamo già accennato qualche rigo più su. Una lettera in cui si costringe la prefettura di Crotone a riformulare la richiesta, non dimenticando però il «pertinente titolo istituzionale».
E vabbè, può darsi che per la Dott.sa On. si trattasse di una giornata storta, può darsi che la lettera sia stata causata da stress e frustrazione. Tutt’altro: anche a giorni di distanza la Dott.sa On. continua a rivendicare con orgoglio il suo gesto. «Confermo tutto e aggiungo pure che un’articolazione dello Stato deve rispettare quanto impone il protocollo. Il titolo “onorevole” rimane anche quando non si riveste più l’incarico di parlamentare», asserisce spavalda. Come ha osato la prefettura di Crotone dimenticare la caratura istituzionale della Dott.sa On.Intrieri, seduta nei banchi del Parlamento per due anni nel corso di una carriera politica passata a oscillare dal centro alla destra, dalla destra alla sinistra e dalla sinistra alla destra? E se qualche sprovveduto non conoscesse per filo e per segno la storia di questa illustre statista basterebbe dare un’occhiata al sito web della Regione Calabria: la pomposa biografia dell’Illustre Dott.sa On.Intrieri è contenuta in 862 parole che farebbero intimidire qualunque semplice cittadino (Eugenio Montale per descrivere se stesso ne adoperò 13: «Dottore in lettere, giornalista, scrittore, poeta, premio Nobel per la letteratura nel 1975»).
Un’analoga vicenda più vicina nel tempo è accaduta con l’Illustre Onorevole Sindaco di Carovigno Cosimo Mele. L’On.Mele quando era deputato dell’Udc era passato agli onori delle cronache per uno scandalo riguardante certi festini a base di cocaina e prostitute che avevano luogo all’hotel Flora di via Veneto. A distanza di qualche anno, l’On.Mele lo ritroviamo nelle vesti di primo cittadino del comune di Carovigno, impegnato a scrivere una lettera rivolta al personale del municipio il cui contenuto è il seguente: «Con la presente si comunica ai dipendenti comunali che dalla data odierna tutti i documenti in uscita a firma del sindaco, devono contenere il titolo di onorevole. Firmato: On.Cosimo Mele».
Nessuno intende negare il rispetto verso le istituzioni, ci mancherebbe, ma qui la vanità (tutta formale) delle persone citate rasenta pericolosamente il ridicolo: è dalla notte dei tempi che comici, satirici e gente dello spettacolo dileggiano questa puntigliosa altezzosità. Più di un secolo fa, era il 1898, il giornalista satirico Vamba (conosciuto per aver inventato il personaggio di Giamburrasca) dedicava un articolo a «L’onorevole Qualunqui e i suoi ultimi diciotto mesi di vita parlamentare», il cui testo era: «L’onorevole Qualunquo Qualunqui rappresenta al Parlamento italiano il secondo Collegio di Dovunque. Dalla 15 legislatura fino agli ultimi tempi ha fedelmente combattuto nel partito dei Purchessisti, propugnando il programma Qualsivoglia e appoggiando il gabinetto Qualsiasi».
Nel 1948 Claudio Villa aveva dedicato addirittura una canzone a «L’Onorevole Bricolle», descritto così nei versi del brano: «L’Onorevole Bricolle, deputato di Gioia del Colle / col suo bianco gilet e le ghette ai suoi piè / farà molto parlare di sé / Da quel dì ch’è deputato, è da ognun riverito e ossequiato / onorevole quale onorevole là, è davvero una celebrità…»
Il caso più celebre è quello del colloquio tra Totò e l’On.Cosimo Trombetta nella pellicola «Totò a colori»:
- Se mi permettete, sono l’Onorevole Trombetta.
- Trombetta?
- Sì
- Trombetta, Trombetta…Questo nome non mi è nuovo
- Beh, l’avrete letto sul giornale
- Ho conosciuto anche suo padre, sa?
- Beh, non mi stupisce, mio padre è talmente conosciuto…
- Eh, chi è che non lo conosce quel Trombone di suo padre!
Il più geniale di tutti è stato però l’inarrivabile attore napoletano Eduardo de Filippo: nel film «L’oro di Napoli» Eduardo suggerisce agli amici una pena esemplare per punire il vanesio e strafottente nobile del rione: «Il pernacchio». Giustificato impeccabilmente nel seguente modo: «C’è pernacchio e pernacchio…Anzi, vi posso dire che il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale, corrente…Quello si chiama pernacchia. Sì, ma è una cosa volgare…brutta! Il pernacchio classico è un’arte (…). Il pernacchio può essere di due specie: di testa e di petto. Nel caso nostro, li dobbiamo fondere: deve essere di testa e di petto, cioè cervello e passione. Insomma, ‘o pernacchio che facciamo a questo signore deve significare: tu sì ‘na schifezza ‘e uommn». E così, ogni volta che l’altezzoso signorotto entra o esce di casa, il saluto con cui viene tributato è: «Duca Alfonso Maria Sant’Agata dei Fornari: Prrrrrrrrr!»
Ecco, un analogo saluto è la risposta più sintetica che si può dare all’On.Intrieri, all’On.Mele e agli innumerevoli loro consimili.

domenica 3 agosto 2014

I falsi miti sulla spesa pubblica

La totale assenza di un reale e concreto progetto per rilanciare l’economia da parte del governo sta in questi giorni portando le sue prime conseguenze: l’Italia continua ad annaspare, il prestigioso commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli è in procinto di prendere il largo, l’Europa e gli investitori internazionali guardano il nostro Paese con crescente scetticismo. La fragilissima ripresa che si intravedeva, dovuta a motivi internazionali (scarsa affidabilità delle economie emergenti e conseguente ritorno degli investitori nel Vecchio Continente), va consumandosi senza che nessuno l’abbia agguantata per trasformarla in una crescita duratura. L’unico aspetto economicamente positivo per l’Italia è la stabilità del governo, ma esso da solo rappresenta soltanto il fondamento sul quale costruire l’edificio delle riforme: è chiaro che le fondamenta diventano inutili e ininfluenti se nessuno ci costruisce sopra qualcosa.
Una delle priorità di Matteo Renzi doveva essere quella di redigere un serio, concreto, articolato e approfondito programma economico, dalla riforma della giustizia alla riforma del mercato del lavoro: avrebbe avuto notevolmente più credibilità di fronte alle istituzioni europee, avrebbe creato meno ambiguità e malintesi con i gruppi parlamentari e avrebbe dato un volto e un’identità (tuttora latitante) al suo partito. Invece ha preferito rifugiarsi nella superficialità, nell’hashtag, nello slogan, nella frase ad effetto, nel detto e non detto e nella facile promessa generica: questa carenza di contenuti gli ha garantito un invidiabile consenso sia tra i cittadini che tra i «pezzi grossi», ma evidentemente la politica (soprattutto in queste circostanze) non la si fa con l’esibizionismo mediatico. Ha sentenziato molte cose giuste, ha sicuramente superato molti tabù della politica e del suo partito in particolar modo, ma è tutto rimasto sulla superficie e si è consumato nel giro di qualche minuto, giusto il tempo di un retweet; una superficialità a dir poco deleteria in un Paese dove, al contrario, la primaria necessità è quella di dare vita a riforme profonde e di lungo termine.
Il caso di Cottarelli è emblematico in tal senso: l’irrinunciabile revisione della spesa pubblica rischia di diventare un inutile esercizio se dietro questa revisione non c’è alcun progetto che chiarisca come e in che misura sarà utilizzato il denaro recuperato. Il rischio è quello che i fondi trovati con grande fatica da Cottarelli vengano sperperati in decine di micro-progetti tanto utili alla propaganda quanto inutili per far ripartire l’economia nazionale: tanto vale rinunciare, ha giustamente pensato il commissario. Come se non bastasse, molti capitoli di spesa sviscerati da Cottarelli vengono beatamente snobbati o considerati dei talismani intoccabili (si pensi al dossier sui costi della politica, stranamente tenuto ben nascosto in un cassetto).
La gestione della spesa pubblica invece dovrebbe meritare un’attenzione particolare in quanto è da lì che deve partire la crescita dell’Italia. Gran parte degli opinionisti dei principali quotidiani internazionali diffonde il teorema che le nazioni mediterranee abbiano una spesa pubblica abnorme, fuori controllo e colpevole di aver portato il debito pubblico a livelli esorbitanti, con la recessione che n’è seguita. La conclusione che ne traggono è che lo Stato nell’economia può solo essere un intralcio per lo sviluppo dell’iniziativa privata, può essere solo foriero di corruzione e incompetenza. Si auspica quindi che lo Stato si faccia da parte lasciando che il mercato proliferi e si sviluppi senza eccessive regole e pedanterie da parte dei governi.
Un po’ di verità, inutile nasconderci dietro un dito, esiste: la legislazione italiana sembra studiata apposta per impedire ad un imprenditore onesto di poter competere e ottenere profitto senza rubare e senza scendere a patti con il mondo della politica. Lo Stato appare sempre più spesso come un lupo affamato, pronto a fare carne da macello verso chiunque occupi il suo territorio: il giurista Sabino Cassese ha stimato che in Italia siano presenti 150mila leggi pronte a regolare (quasi) ogni aspetto della nostra esistenza contro le 10mila di Germania e Francia; se vuoi aprire una bottega devi adempiere 118 procedure, e se sei riuscito ad aprirla devi perdere 269 ore annue per pagare una lunga sequela di tasse che arrivano a divorare il 65,8% dei profitti (e guai a sbagliare: ci si può ritrovare con i beni sequestrati e un tasso d’interesse spesso calcolato in modo sbagliato). E guai a incappare in qualche guaio: se vuoi recuperare un credito devi attendere la giustizia italiana qualcosa come 1210 giorni. E guai a fare credito verso lo Stato: bisogna penare mediamente 450 giorni per vedersi ritornati i propri soldi. Tutto ciò avviene mentre lo stesso Stato si impegna a mantenere municipalizzate, fondazioni e aziende pubbliche la cui esistenza troppo spesso serve soltanto per piazzare parenti e amici della classe dirigente nazionale.
Stanti questi presupposti, dicevamo, molti economisti ed opinionisti ritengono che la cosa migliore sia ridurre la spesa pubblica, ridurre la presenza dello Stato nell’economia in modo da ridurre il debito pubblico e lasciare che l’imprenditoria sia libera di confrontarsi con il mercato. Ci si concentra spasmodicamente sul debito ricordando che l’Italia (dati di febbraio forniti da Eurostat, espressi in milioni) ha la bellezza di 2.068.722 di euro di debito pubblico, ma nessuno ricorda che la più efficiente economia del nostro continente, quella tedesca, ha un debito pubblico (sempre in milioni) di 2.126.832 euro.
Evidentemente non è la quota di debito quella che fa dell’Italia un Paese disastrato, quanto il rapporto debito/Pil che in Germania è del 78,4% mentre in Italia sfiora il 133%. Di conseguenza, non è il debito troppo alto, ma è il Pil troppo basso il fattore che non fa crescere l’Italia. E per far aumentare il Pil tagliare la spesa pubblica senza fare nuovi investimenti è (ci si arriva anche con la logica) la ricetta più nefasta. Questa crisi ha dimostrato inequivocabilmente il fallimento di questa ricetta: mentre l’Europa fautrice di tagli alla spesa è ancora immersa nella palude della crisi economica, gli Stati Uniti (culla della stessa crisi) nel 2013 hanno visto un +4,1% del Pil e i profitti delle imprese sono i più alti dal dopoguerra. In che modo si sono ottenuti questi risultati lo ha spiegato bene Federico Rampini: «Il presidente ottenne dal Congresso (quando ancora aveva la maggioranza assoluta) una corposa manovra di investimenti pubblici anti-recessione. Lasciò che il rapporto deficit/Pil salisse quasi al 12%, il triplo del limite massimo consentito nell’eurozona». Insomma, per rispondere all’opprimente crisi economica (crisi economica scaturita dal settore privato, e non dal settore pubblico come talvolta si vorrebbe far credere) si è deciso di spendere di più e con razionalità.
Investire massicciamente nell’istruzione, in ricerca e sviluppo, nelle tecnologie emergenti dove gli investitori privati non hanno né la voglia né il senso del rischio per investire significa dare vita a una crescita sana, robusta e duratura. Quasi tutte le tecnologie che ora assicurano miliardi di introiti alle aziende private (Internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi dei motori di ricerca, l’applicazione Siri, ma anche le principali scoperte del settore farmaceutico e le più importanti intuizioni nel settore delle energie pulite) esistono quasi esclusivamente grazie a consistenti finanziamenti pubblici erogati negli anni trascorsi.
Non è quindi la quota di debito pubblico a rendere un’economia pubblica competitiva e in crescita, quanto il modo in cui spende i suoi quattrini. L’Italia, ad esempio (secondo il Times Higher Education), ha 4,10 ricercatori ogni mille lavoratori mentre la Germania ne ha 7,74 e la Francia 8,87, senza contare l’abissale differenza di trattamento economico. Solo una coincidenza? Guardate il grafico qua sotto (riprodotto nel volume «Lo stato innovatore» di Mariana Mazzucato)

È un caso che le economie più floride siano quelle che spendono più denaro pubblico in ricerca e sviluppo mentre quelle più tartassate siano quelle che fanno meno finanziamenti di questo tipo?
Occorre uno Stato che inizi a investire nei settori rischiosi, innovativi, ma tali da garantire nel corso degli anni un notevole guadagno per tutti e una notevole competitività internazionale, favorendo nel contempo un settore privato onesto e non eccessivamente divorato da tasse e burocrazia.
Insomma, è necessaria una notevole, coraggiosa ed impegnativa revisione del rapporto tra lo Stato italiano e l’economia di mercato, anche a costo di produrre del debito (del resto, quale successo economico della storia mondiale è avvenuto senza contrarre del debito?). Un progetto che, in un Paese amministrato seriamente, renderebbe insonni i governanti.

venerdì 1 agosto 2014

DisSenato



Un luogo affollato, chiassoso e rissoso; un luogo dove l’unica attività è quella di urlarsi addosso, senza tentare alcun ascolto; un luogo dove nessuno capisce nulla, dove solo qualche sporadica persona tenta vanamente di trovare una logica in tutto questo (alla fine costretta ad arrendersi quando si ritrova sommersa da schiamazzi, strepiti, frasi sconnesse, neologismi, pugni e scarpe sbattuti con ferocia e determinazione). In mezzo a tutto questo fracasso si possono distinguere affermazioni grottesche come: «Presidente, Giarrusso ci ha sbeffeggiato facendo il gesto del canguro», «Ma sta scherzando? Oooh!», «Che emendamento stiamo votando?» e via di questo passo.
Non è un mercato ortofrutticolo della bassa padana, non è un asilo infantile, non è un fumoso locale del porto di Genova, non è una sagra dell’hinterland partenopeo, non è la sezione gibboni dello zoo di Roma. Stiamo parlando di quanto sta avvenendo in queste ore nel Parlamento italiano, espressione di sessanta milioni di cittadini, luogo addetto a decidere le sorti del nostro popolo, posto impregnato fino al midollo di storia del nostro Paese. Questo chiasso si sta svolgendo in mezzo ai banchi dove sono state sedute le figure più eminenti (e rimpiante) della nostra Repubblica.
Come se non bastasse, l’oggetto del contendere non è l’illuminazione stradale o l’allevamento delle telline. No, l’argomento affrontato è una riforma della Costituzione, è la revisione di alcuni aspetti determinanti della nostra democrazia. Questioni determinanti per il futuro del nostro Paese vengono affrontate nel modo più infantile e incredibile.
Maggioranza e opposizione si ritrovano divise da sostanziali questioni di merito, ma nelle questioni di metodo si fatica a distinguere l’una dall’altra: rifiuto totale verso ogni forma di ascolto, l’urlo, lo schiamazzo, la ferma convinzione che il proprio avversario sia in malafede. I «gufi» contro i «fascisti», gli «allucinati» contro gli «ebeti»: è con questi toni che si sta cambiando la colonna portante del nostro Stato, è questo il modo con cui probabilmente il Senato così com’è ora si congederà dopo settant’anni di carriera, è questo l’ultimo ricordo che ci lascia e che lascia alle future generazioni. In uno dei momenti più importanti della sua storia, in uno dei momenti in cui è più osservato a livello non solo nazionale; il potere legislativo, invece di trovare un guizzo di orgoglio, invece di emettere almeno un rivolo di dignità, preferisce abbandonarsi a tutta la bassezza e a tutta la mediocrità di cui è capace. Un dibattito in cui si dovrebbero citare Montesquieu e Marchesi finisce per essere l’imitazione delle guerre tribali che si svolgevano tra gli uomini delle caverne (che si siano volute riscoprire le origini del parlamentarismo?) in cui l’unico confronto possibile è quello di fare a gara a chi strilla più forte.
Sono tutti qui i frutti dell’antipolitica e del populismo: l’esibizionismo finalizzato alla popolarità mediatica, l’assenza di qualunque percezione storica, la mancanza di limiti, il menefreghismo verso i simboli, verso i luoghi, verso le istituzioni, verso la convivenza civile. Bastano queste immagini per capire quale sia l’unica «cultura» politica che riesce a fare breccia nel cuore degli italiani, è qui che si concentra l’anima propagandista dei vari Grillo, Renzi, Berlusconi e Salvini. Non è un caso che la profanazione del Parlamento sia cominciata negli anni in cui l’antipolitica si è innestata nella popolazione, e non è un caso che nei giorni attuali (in cui l’antipolitica è più forte che mai) scene del genere siano praticamente all’ordine del giorno. Ha spiegato il giornalista Filippo Ceccarelli: «Da una dozzina d’anni almeno il Parlamento ha cominciato a perdere l’antico, severo e polveroso decoro istituzionale a vantaggio di Mirabilandia, delle sue attrazioni e anche dei suoi brividi (…). Con qualche indispensabile semplicismo si può dire che il processo di autodegradazione spettacolare è cominciato con uno sventolio di magliette di calciatori in regalo, nascita di club di onorevoli tifosi, torte di compleanno e candeline, anche in aula, coccarde e fazzoletti policromi, concerti, riprese cinematografiche, mostre. E poi si sa come vanno queste cose, specie in Italia: il presidente Pera riceveva con tutti gli onori Totti e Miss Italia, il presidente Bertinotti accoglieva Zucchero e Claudio Baglioni, ai quali gli impiegati e i funzionari chiedevano l’autografo; sotto Natale il presidente Casini allestiva il presepio e subito c’era chi ci piazzava dentro Moana Pozzi e altre statuette gay; e così in men che non si dica alla Camera dei deputati, cioè il palazzo dove si costruisce il Nomos, la Norma, ha finito per fare il suo trionfale ingresso addirittura il Satiro danzante: come statua, ma pure come sintomatica e anche scomoda evocazione». Per concludere: «A poco onestamente è servito l’insediamento di uno “spazio di meditazione” interconfessionale. In aula i deputati e i senatori hanno continuato a puntarsi laser negli occhi, a regalarsi pupazzetti, a rifarsi il trucco o a ripassarsi il rossetto. Segnalata all’ufficio postale la vendita del “Gratta e vinci”. Presentato un libro sui Pooh. Agognata la visita di una celebre fisioterapista soprannominata “Scrocchia-Piera”. Lanciato il gioco “Fantaparlamento”. Sventato un furto di rame».
Così si è ridotta la nostra democrazia parlamentare, così si è ridotta la politica pur di risultare accattivante agli occhi dei cittadini. Calpestare ogni rispetto verso il Parlamento è diventato sintomo di schiettezza, anticonformismo, vicinanza al popolo; una pernacchia verso un luogo ritenuto desueto, inutile, simbolo della «Casta» e soprattutto odiosa barriera tra il leader e il suo popolo.
Affrontare riforme costituzionali in questo modo e in questo contesto appare veramente rivoltante: come può gente del genere affrontare argomenti come la Costituzione e la democrazia parlamentare? Eppure questa è la sorte che ci tocca, alternative non ce ne sono e non se ne vedono all’orizzonte. Nonostante ciò, un «vergognatevi» è il minimo che si possa rivolgere a queste persone.