mercoledì 30 luglio 2014

La parità mancata



Ora che abbiamo capito che la gran parte dei malumori verso la riforma costituzionale nasconde in realtà malumori più profondi riguardo la legge elettorale, sorprende come uno dei temi più scottanti che hanno accompagnato la discussione parlamentare sull’Italicum, ossia il tema della parità di genere tra i componenti dell’Aula, sia relegato e snobbato da tutti, compresi i più accaniti contestatori della riforma. I paladini dei diritti civili si sono ammutoliti, i pasdaran delle pari opportunità probabilmente si stanno godendo le ferie, una buona fetta degli oppositori delle riforme trova più chic proferire dogmi di sicuro impatto mediatico (il golpe, la svolta autoritaria etc.) piuttosto che dedicarsi a un tema come la parità di genere che potrebbe addirittura risultare troppo «renziano» per meritare la giusta attenzione. Nemmeno la cosiddetta «sinistra Pd», che dovrebbe fare dell’eguaglianza sociale il suo caposaldo d’azione, è troppo appassionata al tema. Qualche eccezione c’è: prendiamo il caso di Rosy Bindi, la quale nei giorni caldi del dibattito sul tema è arrivata a dichiarare: «La parità di genere sta nella Costituzione e nel Dna del Pd»; una presa di posizione ammirevole ma misteriosamente tardiva, dato che tale parità non è stata raggiunta nei gruppi parlamentari del Pd forgiati all’epoca in cui lei stessa era ai vertici del partito: attualmente le deputate dem sono il 37,5%, mentre le senatrici sono il 40,7%. Percentuali importanti, ma non ancora confacenti al principio della parità di genere; anzi, al Senato il MoVimento 5 Stelle è riuscito a fare di meglio, raggiungendo la quota del 47,8% di presenza femminile.
Il perché non si voglia rendere obbligatoria la quota minima del 50% è un mistero irrisolvibile: si denuncia la possibilità che una parlamentare venga scelta solo in base al sesso e non in base al merito, un problema in realtà inesistente visto che in tutti i paesi dell’Ue le persone laureate (o con un titolo di analogo spessore) sono in maggioranza donne. Scrive lo statistical editor Danilo Taino: «Eurostat prende il numero di uomini tra i 30 e i 34 anni che hanno un’istruzione terziaria e ne sottrae il numero di donne con le stesse caratteristiche: in ogni Paese, il risultato è negativo, cioè ci sono più donne laureate. Si va da meno 1,2 in Austria e meno 1,8 in Germania a meno 21,8 in Estonia e meno 24,8 in Lettonia. L’Italia, attorno a meno 10, è vicina alla media Ue (meno 8,4)». Maggiori competenze che in campo lavorativo si traducono in maggiore responsabilità: quasi tutti gli studi sull’argomento sono concordi nel ritenere che la presenza di donne permetta il conseguimento di migliori risultati aziendali. Tanto per fare un esempio, nel settore delle aziende familiari il Roe (l’indicatore della performance aziendale) è superiore del 5% rispetto alla media quando il cda è misto e l’optimum si raggiunge nelle realtà dove «le donne raggiungono una massa critica», ovvero siano almeno 3 (Arub 2013). Non solo, alcuni studi Istat rivelano che «i cittadini, sia maschi che femmine, vedono positivamente una maggior presenza delle donne nei luoghi decisionali. Le deputate interpretano un sentimento generale».
Nonostante tutto questo, le donne in Italia sono ancora soggette a una palese quanto inammissibile discriminazione, frutto malato della nostra storia: mentre i paesi scandinavi ebbero la loro prima regina già alla fine del XIV secolo, l’Inghilterra la ebbe nel 1553 e l’Olanda nel 1890, l’Italia conobbe solo sovrani maschi. Fu solo con la fine della monarchia che l’Italia approvò il voto alle donne, con un vergognoso ritardo di 29 anni rispetto alla Russia, di 40 anni rispetto alla Finlandia, di 53 rispetto alla Nuova Zelanda. E mentre nel mondo la prima donna ministro comparve nel 1924, nel nostro Paese bisognerà aspettare il 1976 prima di vedere una signora (Tina Anselmi) far parte di una squadra di governo e bisognerà attendere il 1979 per vedere Nilde Iotti ricoprire una carica istituzionale. Per non parlare di donne primo ministro: la prima a livello mondiale ci fu nel 1960, negli anni Novanta furono quattordici, tra il 2000 e il 2010 furono trentacinque. Da noi il nulla. Dei 125 governi che ci hanno accompagnati dall’Unità d’Italia nessuna donna ha mai ricoperto la carica di premier, figurarsi di Presidente della Repubblica: «Quando proposi di mandarne una al Quirinale, mi dissero: “Bravo, una intelligente provocazione”», rammenta Giuliano Amato, «manco se avessi proposto un coleottero!».
È vero che l’attuale governo è composto per metà di donne, è vero che in Parlamento le donne sono il 30,8% rispetto al 20,2% della scorsa legislatura, è vero che nei vertici delle aziende pubbliche qualche passo in avanti è stato compiuto, è vero che la parità di genere non è un tema esclusivamente italiano, ma la strada da fare è ancora molta. Anzi, moltissima.
L’occupazione femminile media in Europa è al 64%, in Italia siamo al 46% (terz’ultimi nel continente) e le ultime regioni europee per percentuale di donne occupate sono italiane: in Puglia le donne lavoratrici sono il 35,3%, in Calabria il 35,1%, in Sicilia il 34,7%, in Campania il 31,1%. Ciò significa che mediamente nel Mezzogiorno sette donne su dieci non lavorano; la situazione è migliore al Nord, ma il confronto con analoghe regioni europee come il Baden Württemberg tedesco o il Rodano-Alpi francese (regioni dove la percentuale veleggia intorno al 70%) è comunque impietoso. E così, mentre negli ultimi anni il resto dell’Europa (compresa quella mediterranea) si è data un gran daffare per risolvere la discriminazione tra i sessi, l’Italia ha solo peggiorato la sua quota di partecipazione femminile nel mondo del lavoro: nel 2013 le donne lavoratrici sono state 130mila in meno e il divario con la Germania è passato dal 16% del 2002 al 20% dei giorni attuali. Le donne che riescono a lavorare, inoltre, si ritrovano in situazione di cronico svantaggio rispetto agli uomini. Prosegue Taino: «Nonostante siano più istruite, le donne guadagnano molto meno. La statistica è interessante perché prende in considerazione il salario orario, il numero di ore lavorate e il tasso di occupazione della fascia di età 15-64 anni. Poi li mette assieme e calcola il gap salariale complessivo, cioè quanto portano a casa tutti gli uomini di un Paese e quanto tutte le donne. Il risultato è scioccante: in media, nella Ue, la differenza è del 37,1% a favore degli uomini. (…) In Italia, i maschi guadagnano nel complesso delle remunerazioni il 43,5% in più delle femmine: il salario orario non è troppo diverso, 14,82 euro contro 14,04 (il che spiega il 9% del gap del monte salari); più significativa la differenza del numero di ore pagate lavorate al mese, 166,7 contro 146,2 (il 23% del gap del totale delle remunerazioni)».
Questa situazione non è dovuta, come spesso si crede, alla mancanza di volontà delle donne (secondo alcuni sondaggi il 40% delle donne disoccupate sogna un lavoro), quanto a una chiusura mentale degli uomini e a una mancanza di welfare e agevolazioni da parte dello Stato. Se il primo aspetto necessita di decenni di educazione, per realizzare il secondo basterebbe molto poco e i risultati si vedrebbero subito: secondo alcune stime, se l’occupazione femminile raggiungesse la media europea il Pil aumenterebbe anche di sette punti e secondo la Goldman Sachs la parità di genere comporterebbe un incremento del Prodotto interno addirittura del 22%.
Cosa aspettano la politica e l’opinione pubblica a mobilitarsi per fare in modo che sia il Parlamento a dare l’esempio? Di cosa hanno timore? A cosa è dovuta questa timidezza? La paura della discriminazione può essere superata anche grazie a un paragone storico, ossia ricordando le battaglie per la «proporzionale etnica» condotte in Trentino da Silvius Magnano. La vicenda è così descritta dal cronista Gian Antonio Stella: «Dopo decenni di italianizzazione spinta della provincia, il gruppo tedesco aveva nel 1972, pur rappresentando i due terzi della popolazione, solo una fetta del 9% degli impieghi pubblici o para-pubblici nelle ferrovie o in comune o all’Enel e del 5% delle case popolari edificate dopo il 1935. Una sproporzione prepotente. Inaccettabile. E in quel contesto, come ogni italiano in buona fede deve ammettere, la pretesa di riequilibrare gradualmente le cose fu giusta. Giustissima». Orbene, l’attuale situazione delle donne in Italia non è analogamente inaccettabile da meritare un riequilibrio?

sabato 19 luglio 2014

Quando la magistratura si fa politica





La sentenza d’Appello che ha assolto completamente Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile ha sconquassato i tradizionali rapporti tra le varie forze politiche e il potere giudiziario: la destra che da sempre millanta congiure giudiziarie per liquidare il suo leader ora invoca il rispetto per il lavoro dei giudici, mentre la sinistra e i 5 Stelle che da sempre ritengono la magistratura un dogma da non mettere in discussione ora si lasciano scappare qualche borbottio sul modus operandi dei giudici che hanno assolto Berlusconi. Tutti si domandano come sia possibile che l’imputato, da spregevole pedofilo che sfrutta il suo potere per soddisfare i suoi interessi personali (come lasciava intendere la condanna di primo grado) sia diventato nel giro di qualche mese un impeccabile uomo di governo talmente apprensivo da aver gentilmente e amabilmente richiesto alla questura di liberare quella che a suo parere era la nipote (maggiorenne) di un capo di stato.
Un ribaltamento talmente vistoso da lasciare un sospetto più fondato del solito: è possibile che una delle due sentenze sia scaturita tenendo in conto precisi fattori politici? Un interrogativo senza dubbio molto pesante, ma considerando la lunga storia del rapporto tra il mondo giudiziario e il mondo politico appare ragionevole, pur nel rispetto di ambedue le sentenze. Lo scopo dell’articolo non è quello di decidere quale delle due sentenze sia stata emessa con motivi politici, ma mettere soltanto una pulce nell’orecchio per seminare il sospetto che, sì, la magistratura politicizzata è una realtà con cui dover fare i conti, senza scadere nelle assurdità e nei pregiudizi della destra berlusconiana. D’altronde soltanto pochi mesi fa una figura come Sergio Romano denunciava sulle colonne del «Corriere della Sera» che alcuni gruppi della magistratura hanno «programmi ideologici che lasciano trapelare una pericolosa contiguità con alcuni partiti politici». Una realtà difficilmente smentibile leggendo lo statuto di Magistratura Democratica, statuto nel quale si descrivono nel seguente modo i motivi della nascita di tale corrente: «All’inizio di quel decennio caratterizzato da tanti fermenti di rinnovamento inizia l’esperienza politica del centrosinistra, con il suo carico di speranze. E per quanto riguarda la giustizia è sicuramente Magistratura Democratica che si fa interprete dell’esigenza di un suo radicale cambiamento». Un passaggio della relazione dell’assemblea di Md del 1971 è ancora più chiaro: «La nostra fedeltà alla Costituzione impone una giurisprudenza alternativa da attuare attraverso l’utilizzazione di tutte le contraddizioni del sistema democratico-borghese, non per mediarle, al fine di una razionalizzazione del sistema, ma per valorizzarne gli elementi democratico-egualitari che possono portare al superamento del sistema stesso». Una relazione scritta nei giorni in cui tre magistrati propongono un documento dal titolo che non lascia spazio ai dubbi: «Per una strategia politica di Magistratura Democratica» il cui contenuto è un invito affinché Md diventi «componente del movimento di classe» con il compito di condurre una «giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese» applicando un’«interpretazione evolutiva del diritto». E in cosa consiste questa «interpretazione evolutiva» lo ha spiegato l’avvocato Mauro Mellini: «Dal punto di vista normativo-culturale, il concetto di “interpretazione evolutiva” per i magistrati rappresenta un modo indiretto per travalicare l’alveo della propria funzione giurisdizionale e per occupare uno spazio proprio della lotta politica e del potere legislativo. E sotto molti punti di vista, l’interpretazione evolutiva esprime una precisa tendenza del pm: quella di voler esercitare, in più circostanze, la propria attività di “supplenza”. E in questo senso, credo sia utile ricordare il passaggio di una risoluzione approvata dall’Assemblea Nazionale di Magistratura democratica il 4 aprile 1973. Quella in cui l’assemblea “osserva che le lotte e le conquiste popolari costituiscono sul piano della prassi giudiziaria e dell’interpretazione delle leggi le fonti di una nuova legalità” e indica le seguenti linee operative: necessità che Md costruisca un rapporto costante e articolato con le forze politiche e sindacali della Sinistra che consenta di ricercare obiettivi politici in un quadro strategico unitario inteso a battere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista».
È da queste premesse che una fetta di magistrati decide di intervenire attivamente nelle questioni politiche, provocando un danno collaterale di difficile rimedio: alcune forze politiche, private nel corso degli anni dei loro connotati ideologici, decidono di conferire all’azione del potere giudiziario il ruolo di collante del proprio elettorato. Insomma, non solo il giudice sfrutta il suo ruolo per combattere una battaglia politica, ma taluni partiti finiscono per far diventare il magistrato un vero e proprio supereroe. Lo ha spiegato bene l’ex magistrato Francesco Misiani: «La verità è che il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo è andato a crescere nel tempo grazie anche all’appoggio della sinistra e del Pci in primo luogo: che su noi magistrati o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione».
Ne esce quindi un rapporto di mutua assistenza tra una parte della politica e una parte della magistratura, un cordone ombelicale dimostrato dal fatto che nel corso degli anni una lunga sequela di magistrati sia addirittura entrata direttamente nel mondo della politica: basti pensare a Luciano Violante, Pietro Grasso, Giuseppe Ayala, Antonio Ingroia, Cesare Terranova, Massimo Russo, Giuseppe Di Lello, Giuseppe Lumia, Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Anna Finocchiaro, Michele Emiliano, Luigi De Magistris, Felice Casson, Gianrico Carofiglio, Alberto Maritati, Doris Lo Moro, Donatella Ferranti, Nicola Trifuoggi, Lanfranco Tenaglia, Gherardo Colombo e altri ancora.
Il requisito principale che dovrebbe appartenere a un magistrato, ossia la terzietà, non esiste più da tempo, e non è soltanto Berlusconi a dirlo. Si legga quanto dichiarava qualche anno fa un magistrato come Gherardo Colombo: «Una serie di motivi contingenti rende del tutto impraticabile e comunque soltanto apparente una prospettiva immediata di “ritorno alla terzietà”». Un’opzione addirittura da scartare, in quanto «il giudice si trasformerebbe in una specie di funzionario burocrate». Un’autentica noia, quella di rispettare rigorosamente la divisione dei poteri sulla quale si fonda una democrazia.
Alla luce di tutto ciò, sospettare che dietro una delle due sentenze del «caso Ruby» sia intervenuto un ragionamento di stampo politico appare sempre più concreto e preoccupante.

domenica 13 luglio 2014

Il 5x1000 potrebbe finire ai politici. Ecco come.



La compilazione del 5x1000 è indubbiamente il momento meno frustrante quando si affronta la dichiarazione dei redditi: ti dà sempre la sensazione di star facendo qualcosa di veramente giusto, di aiutare chi veramente necessita di soldi nel nostro Paese. Associazioni di volontariato per i malati, organizzazioni dedite alla ricerca della cura per malattie degenerative, enti dediti alla tutela di qualche villa rinascimentale (e via di questo passo) si possono sostenere con poche mosse e molta soddisfazione. Problemi non ce ne dovrebbero essere: un’organizzazione per essere inclusa nell’elenco dei beneficiari del 5x1000 deve superare una tortuosa via crucis composta da carte, scartoffie e burocrazia di ogni genere, tra cui addirittura un’autorizzazione del ministero competente. Basti solo pensare che da quando questa pratica è entrata in vigore (sono passati sette anni) le sono state dedicate ventuno leggi, tant’è vero che, per entrare nel famigerato elenco, bisogna munirsi di almeno due anni di pazienza.
Ma (c’è sempre un «ma» in queste storie, altrimenti non saremmo in Italia) la contorta burocrazia diventa magicamente più semplice in certi particolari casi. Facendola breve, il contribuente che col 5x1000 spera di non dare i propri averi in pasto alla vituperata «casta», corre il rischio di ottenere l’effetto contrario, ossia sovvenzionare uomini politici e istituzioni a cui i soldi non mancano di sicuro. Non solo: la semisconosciuta truffa del 5x1000 è un autentico finanziamento pubblico alla politica in grado di garantire discreti introiti senza dare troppo nell’occhio. Andiamo nel dettaglio.
La ormai decennale fondazione Magna Carta, sulla carta (poco «magna») si «dedica alla ricerca scientifica, alla riflessione culturale e alla elaborazione di proposte di riforma». Un proposito talmente nobile da garantire la possibilità di erogare donazioni da quasi cinque anni. Non tutti sanno che tale fondazione vede come presidente Gaetano Quagliariello, «saggio» nominato da Napolitano, ministro delle Riforme del governo Letta, uomo di punta del Pdl prima di diventare uomo di punta del nuovo partito di Angelino Alfano.
Oppure, come non fidarsi di una fondazione nata nel 2003 per «valorizzare e promuovere la cultura popolare, comunitaria, tradizionale e nazionale»? La fondazione si chiama Nuova Italia, il cui presidente, tale Gianni Alemanno (ex ministro dell’Agricoltura ed ex sindaco di Roma per il partito di Berlusconi), di «nuovo» sembra avere ben poco. Come se non bastasse, il segretario generale di Nuova Italia risulta un certo Franco Panzironi, finito per qualche congiunzione astrale al vertice della municipalizzata romana dei rifiuti. Nuova Italia, vecchi vizi.
Nel versante opposto, la fondazione Italianieuropei prevede la possibilità di ottenere sostegno dal 5x1000 nonostante sia capitanata da Massimo D’Alema e annoveri nel suo comitato la presidente della commissione Affari Costituzionali Anna Finocchiaro, l’ex presidente del Pd Gianni Cuperlo, il sindaco di Roma Ignazio Marino, l’ex sindacalista ed ex candidato al Quirinale Franco Marini, l’esponente Pd Luciano Violante, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e compagnia cantando. A prescindere da quale sia il giudizio che si abbia di queste personalità, non mi sembra si tratti di individui con problemi di bilancio familiare tanto da dover richiedere ai cittadini un aiuto. Insomma, se hanno voglia di discutere di politica, impresa ed europeismo lo possono fare benissimo di tasca propria.
Se invece siete attratti come i bambini di Hamelin dal dolce suono di un think-tank il cui proposito è «favorire lo sviluppo dei valori etici e politici del pensiero liberale laico e cattolico», conviene che facciate uno sforzo e vi tappiate le orecchie. La fondazione, il cui nome è Liberal, è proprietà di Ferdinando Adornato, nato come giornalista ma con l’andare del tempo finito per disquisire di «valori etici e politici» tra i banchi di Montecitorio da ben cinque legislature: prima con Alleanza Democratica, poi con Forza Italia, poi con l’Udc, poi con Scelta Civica e attualmente coi Popolari il nostro Adornato non ha mai smesso di pensare alla sua creatura. Dapprima «Cronache di Liberal» era un mensile (in passato ampiamente foraggiato dai finanziamenti pubblici alla stampa con un paio di milioni all’anno) il quale, nato nel 1995, divenne ben presto l’organo ufficiale dell’Udc prima di chiudere definitivamente i battenti circa un anno fa. Defunta la rivista, la fondazione a essa collegata è più viva che mai, ed è entrata nel novero degli enti a cui è possibile erogare il proprio 5x1000 fin dall’esordio di questa pratica, ossia fin dal 2006, figurando come ente dedito nientemeno che alla «ricerca scientifica» e superando addirittura il controllo del ministero dell’Istruzione.
Zitto zitto e quatto quatto, il poco noto ex europarlamentare (nonché pregiudicato) del Pdl Aldo Patriciello è riuscito a ottenere nel 2011 1,8 milioni grazie ai contributi del 5x1000 alla fondazione di famiglia, l’istituto neurologico Neuromed.
Sembra quasi impossibile che anche la fondazione San Raffaele di Don Luigi Verzè abbia avuto il via libera nel ricevere finanziamenti, e invece anche tale ente risulta beneficiario del 5x1000, e come se non bastasse c’è la possibilità di erogare fondi anche al San Raffaele romano della famiglia Angelucci. Un beneficiario di tutto rispetto, se si considera che nel solo 2011 riuscì a raggranellare quasi sei milioni di euro.
Non si tratta però di soli politici: il sottobosco di fondazioni dedite a raccogliere fondi tramite la dichiarazione dei redditi presenta anche categorie di altro genere. Tra queste la fondazione italiana del Notariato, la quale dal 2006 si prodiga nel «migliorare le qualità professionali e culturali dei notai italiani». Personalmente devo ancora capire cosa faccia concretamente, eppure nel 2011 è riuscita a incassare 800mila euro da soli 1.081 contribuenti (che professione svolgano questi contribuenti è facilmente intuibile).
Chi è dotato di profonda fede può invece erogare il proprio 5x1000 all’associazione Radio Maria la quale, spacciandosi per ente di «volontariato», ha messo in tasca nel solo 2011 2,1 milioni di euro.
Chi invece nutre maggiore fede verso il mondo dei sindacati può donare fondi all’Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo (Iscos) fondato nel 1983 dalla Cisl, oppure all’Associazione nazionale comunità sociali o sportive, legata a Confartigianato; dando vita in questo modo ad uno sfacciato conflitto d’interesse dovuto al fatto che i sindacati da un lato offrono assistenza fiscale per la dichiarazione dei redditi e dall’altro sono essi stessi beneficiari del 5x1000. Una paradossale situazione che, in passato, ha spinto l’Agenzia delle Entrate a intervenire «per rimuovere una specifica situazione che poteva influenzare la libera scelta del contribuente».
La punta di diamante è rappresentata però da una bizzarra Onlus, la fondazione Milan, fondata nel 2003 con il nobile principio di «fare qualcosa di buono per la collettività ed esprimere solidarietà con chi si trova in situazioni di disagio». Sembra strano che tutte queste dimostrazioni di solidarietà non le riesca a fare senza bisogno del contributo dei cittadini, visto il fatto che tale Onlus è presieduta dalla famiglia di Silvio Berlusconi, uomo che di certo non si trova in condizioni di chiedere denaro ai contribuenti e che di possibilità per dare sostegno alla collettività ne ha avute molte, dato che è un protagonista della vita politica italiana da vent’anni a questa parte.
Ma da quando si entra nell’elenco non ci dovrebbero essere una serie di controlli? Ufficialmente è così, il ministero del Lavoro dovrebbe controllare periodicamente i vari enti «segnalando eventuali posizioni da sospendere» ma, secondo la Corte dei Conti, le norme sono talmente ingarbugliate che tale pratica «risulta esercitata una sola volta». «Esemplare per l’incertezza delle disposizioni», proseguono i magistrati contabili, «la vicenda relativa alle fondazioni. All’origine, furono previste nella categoria del volontariato; nel 2007, furono escluse quelle non classificate come Onlus, a meno che non rientrassero nella tipologia della ricerca scientifica. Per gli anni 2007-2009, fu inserita una categoria specifica: le fondazioni nazionali di carattere culturale, peraltro, di difficile individuazione, essendo il requisito culturale di incerta qualificazione». Detto in soldoni, «la mancanza di una rigorosa selezione ha fatto crescere a dismisura il numero dei beneficiari» con tutto ciò che ne consegue.

venerdì 11 luglio 2014

Parentesi figurata

Talvolta basta un foglio a quadretti e una penna biro per poter trasmettere un messaggio politico. Ci ho provato pure io, con pochi tratti veloci, tanto dilettantismo e senza neanche uno scanner a disposizione. Non so se per eccessivo sadismo o eccessivo narcisismo ho deciso di condividere con voi le mie prodezze.

La Commissione Affari Costituzionali approva l'immunità per i futuri senatori

La Commissione decide che il nuovo Senato si occuperà anche delle leggi di bilancio


I "falchi del rigore" non vogliono sentire parlare di flessibilità nella gestione dei conti pubblici italiani


Il capogruppo del Ppe attacca Renzi dopo il suo discorso


La Bundesbank schernisce pesantemente il discorso di Renzi a Bruxelles


Nonostante le diffidenze della Bundesbank, della Csu, di Schauble e dei paesi nordici i rapporti tra Angela Merkel e Matteo Renzi sembrano ottimi

Il capogruppo del Pse Pittella dichiara che Juncker diventerà Presidente della Commissione europea soltanto se questi darà delle garanzie per quanto riguarda la flessibilità

Appena tornato in Italia, Renzi si incontra con Berlusconi

Il nuovo incontro tra Berlusconi e Renzi si svolge nella caffetteria di Palazzo Chigi


Il nuovo accordo con Berlusconi rende sempre più vana la speranza di un accordo tra il Pd e il MoVimento 5 Stelle sul campo delle riforme


Nonostante i malumori del suo partito, Berlusconi si rende conto che abbandonare il campo delle riforme significa condannare Forza Italia all'irrilevanza politica


Gran parte dei senatori di Forza Italia difende strenuamente l'elettività del Senato


Renzi si dimostra sempre più inflessibile nei confronti degli oppositori interni alla riforma del Senato


Il MoVimento 5 Stelle è diviso tra chi vuole proseguire le trattative col Pd e chi vuole interrompere ogni contatto


Quindici senatori chiedono a Pietro Grasso di rinviare il passaggio in Aula della riforma del Senato