giovedì 25 giugno 2015

L'identità non esiste



Il richiamo all’identità è diventato il nuovo tambur battente che annuncia la carica: al suo eco s’iniziano arringhe sulle trite e ritrite «radici del nostro popolo», s’iniziano a piantare chiodi sui muri pubblici al fine di appendere (in ossequio ad un provvedimento fascista) crocifissi da brandire a mo’ di marcatore del territorio, si mobilitano legioni di cittadini inermi al fine di alzare metaforici ponti levatoi oppure di erigere nuovi muri (in questo caso non sempre metaforici). Difficile trovare vocabolo così inebriante e al contempo talmente fumoso da poter essere considerato tranquillamente un’insensatezza. Da dove provenga questa «identità dei popoli» non si capisce di preciso; traballando pericolosamente sul sottile filo che separa dal razzismo biologico di stampo hitleriano, pare che ogni essere umano debba rimanere avvinghiato ad una determinata cultura la quale sarebbe arrivata in dono sulla base del suolo che si calpesta al momento della nascita e da cui, questo il ferreo quanto farneticante imperativo, non ci si può in alcun modo divincolare.
Il filosofo Tvetan Todorov («La paura dei barbari», Garzanti 2009, pag.90) dichiara: «Occorre superare la sterile opposizione fra queste due concezioni: da un lato l’individuo disincarnato e astratto, che esiste fuori dalla cultura; dall’altro l’individuo imprigionato a vita nella propria comunità culturale d’origine»? Tutte corbellerie!
Voltaire («Annales de l’empire», in «Oeuvres complètes», 1877-1885, t.XIII) conclude: «Ogni uomo nasce con il diritto naturale di scegliersi una patria»? Eresia pura!
Il sociologo Ernest Gellner (1997) arriva addirittura a disquisire attorno al fatto che è stato il nazionalismo a creare le nazioni e non viceversa? Affermazioni squinternate e senza possibilità di appello! L’identità è qualcosa di palese, indiscutibile ma, soprattutto, da difendere finanche con le unghie pur di non vederla inquinata dai flussi migratori in arrivo. Caso eclatante, quello della Cristianità. Il mantra (assolutamente bipartisan) è: noi italiani non possiamo non dirci Cristiani, del Cristianesimo è impregnata tutta la storia nazionale e, di conseguenza, dobbiamo preservare questa fede da qualsiasi interferenza.
Eppure sarebbe sufficiente girare per le vie di qualsiasi città per notare come i precetti Cristiani più visibili ad uno sguardo fuggevole vengano tranquillamente violati: dal consumo di alcolici alla frequentazione dei locali più ameni, dal vestiario succinto alla baldoria fino a tarda notte per giunta in giornate adibite alla meditazione qualunque Cristiano premuroso dovrebbe sobbalzare dalla costernazione.  Basta questa semplice contraddizione per comprendere le goffe insensatezze a cui va incontro l’ossessivo proclama dell’identità. Da un lato, la banale considerazione che la cultura di un popolo è perennemente soggetta a variazioni e manipolazioni al fine non solo di renderla consona alle società in evoluzione ma soprattutto di farla sopravvivere. Dall’altro, la consapevolezza che aderire o no ad una cultura è una scelta dell’individuo stesso, il quale ovviamente può essere indirizzato nell’aderire a questa o a quella tradizione (comunque si tratta di una scelta compiuta dalla famiglia o dalle istituzioni quali la scuola) ma di cui il suggello finale dell’appartenenza, almeno in una società libera, spetta solo all’individuo in prima persona.
Quest’ultimo aspetto vede nella Cristianità il caso più emblematico, visto e considerato che il decrescere dell’influenza delle parrocchie nella formazione dei ragazzi ha concorso in maniera straordinaria alla progressiva perdita della cultura Cristiana nel nostro Paese al punto tale che al giorno attuale sfido a trovare una porzione consistente di giovani in grado d’indicare la durata di una Quaresima oppure il significato di parole come «ostensione», giusto per fare due semplici esempi. Può davvero definirsi «dall’identità Cristiana» un Paese in maggioranza privo di queste basi conoscitive? Se la risposta è sottintesa, meno sottintesa è la conclusione che a influire sul corso di una cultura collettiva non sono i richiami di una tradizione considerata erroneamente indelebile. Sono le consapevolezze degli individui a fare la differenza, senza alcun bisogno d’inchiodare simboli religiosi nei luoghi pubblici (esigenza, fra l’altro, che non viene sentita negli altri Paesi tradizionalmente Cristiani a noi più vicini).
Ma torniamo ad un concetto già precedentemente abbozzato, ossia alla precisazione che le culture, per rimanere integre, devono necessariamente evolversi. Un processo evolutivo che si snoda lungo i millenni trascorsi e che proseguirà il suo affascinante cammino anche nei secoli a venire, facendo venir meno in questo modo l’assurdo paragone molto in voga delle «radici da preservare». Discettare attorno alla metafora della «radice» è assolutamente fuorviante alla luce del fatto storicamente incontrovertibile che le singole culture non germinano mai da un unico seme spuntato magicamente dal nulla. Non possiamo parlare di «radici Ebraiche», ad esempio, visto che anche gli ebrei stessi non sarebbero mai divenuti tali senza l’essenziale contatto con la cultura egiziana (a sua volta frutto dell’incontro di altre tradizioni preesistenti). Diviene assurdo parlare di «radici greche» se non consideriamo l’apporto che le popolazioni del Mediterraneo hanno fornito a questa peculiare cultura. E sebbene, rimanendo nell’affascinante arcipelago, la tradizione tramandata dalla mitologia ateniese vuole che gli abitanti del luogo fossero stati partoriti dalla terra dell’Attica, già gli antichi romani ammettevano non solo con disinvoltura ma anche con grande orgoglio la promiscuità da cui erano stati generati. Tito Livio («Ab urbe condita», 1, 8, pag.55) scriveva: «Dalle popolazioni vicine confluì una turba indiscriminata- non importava se fossero liberi o schiavi- gente bramosa di novità: questo fu l’inizio e il nerbo della futura grandezza». L’incontro delle tradizioni come embrione e premessa insostituibile di una cultura talmente grandiosa da essere stata oggetto di venerazione, non sempre fortunata, nel corso dei secoli a venire. Ad affermare oggi una cosa del genere ti pigliano per pazzo.
La vicenda assume connotati sempre più intriganti se si considera che l’impero, all’apice del suo fulgore, si sentì pesantemente minacciato da un culto mediorientale (a sua volta debitore di varie tradizioni pregresse e contemporanee) considerato estremista, intollerante e incompatibile con i valori romani al punto tale che parecchie menti sopraffine iniziarono a preoccuparsi seriamente di fronte alla prospettiva di una «grande sostituzione» di popoli. Gli adepti di quel culto esotico si facevano chiamare con un nome bizzarro: «Cristiani».
Solo grazie a continui mutamenti le culture sono arrivate ai giorni nostri; anche pratiche a primo acchito fortemente legate ad un’immutabile tradizione (come il Palio di Siena) sono sovente soggette a modifiche ed adeguamenti. Persino la democrazia, di cui si osservano costantemente le origini ateniesi, quasi nulla ha a che fare con le regole in vigore ai tempi di Pericle (epoca in cui la partecipazione era esclusa alle donne, agli schiavi, ai ragazzi, ai meteci e addirittura a chi aveva anche un solo ramo della famiglia estraneo alla polis).
Mutamenti, si badi il lato quasi ironico della vicenda, spesso figli d’interpretazioni assolutamente discutibili (la sanguinosa diatriba attorno al ruolo di Gerusalemme ne rappresenta il caso più lampante) o addirittura risultato di azioni arbitrarie prive a prima vista di qualsiasi valenza: sono rimaste nella memoria collettiva le atroci immagini del conflitto «identitario» intercorso in Ruanda tra le varie etnie. Non tutti sono a conoscenza del fatto che l’attuale ripartizione etnica deriva dall’esigenza dei coloni belgi, siamo nel 1930, di fornire un documento d’identità agli abitanti del luogo. Dovendo indicare l’etnia di appartenenza e non sapendo che parametro utilizzare, si applicò il possesso di un certo numero di capi di bovini come fattore al di sopra del quale divenivi a tutti gli effetti membro dei Tutsi. Gli odii che scaturiranno nei decenni successivi vedranno tra le basi fondanti questo banale atto amministrativo.
Per riassumere i concetti espressi, non resta che rievocare un gustoso racconto di Cicerone («De legibus», 2, 16, 40).
Trovandosi nell’insolvibile dilemma su cosa preservare delle generazioni passate, gli ateniesi decisero di spedire due rappresentanti della polis all’oracolo di Delfi al fine di farsi suggerire dagli dèi la risoluzione dell’enigma. L’oracolo decretò che andavano preservati i riti «conformi al costume degli antenati». Gli ateniesi appresero la risposta ma, dopo aver riflettuto ancora un po’, decisero di andare nuovamente a scomodare le divinità. Fu così che «vennero una seconda volta, e, affermando che il costume degli antenati era mutato molte volte, chiesero a quale costume dovessero specificamente attenersi fra i molti e diversi. L’oracolo rispose: “Al migliore”».
Questo semplice scambio riassume quanto gli antichi avevano già assimilato: le culture sono un oggetto in continua evoluzione e sta a noi scegliere quale sia la «migliore». Una particolarità che, sempre per rimanere nell’ambito della mitologia, si confà particolarmente all’Europa, continente che prende il nome da una fanciulla rapita da Zeus che partendo dall’Asia corre verso le coste dell’Occidente. Una metafora sublime e un perfetto riassunto di un continente caratterizzato dal continuo movimento e dall’inestricabile confronto delle tradizioni più disparate.
Al diavolo le radici. Al diavolo le identità.

sabato 20 giugno 2015

Schede impazzite



Solo qualche anno fa il politologo Ilvo Diamanti dava alle stampe un gustoso volumetto, «Gramsci, Manzoni e mia suocera» in cui s’ironizzava sul fatto che mentre i vari esperti cantavano in coro il requiem delle appartenenze politiche nella società, la ripartizione dei risultati elettorali dimostrava al contrario come il bacino di consenso delle diverse tradizioni culturali fosse collocato geograficamente in maniera quasi identica dai tempi della nascita della Repubblica.
L’insorgere a suo modo rivoluzionario del berlusconismo, con una carica populista refrattaria verso ogni struttura sociale ed eredità storica, non aveva quindi scalfito in maniera consistente l’equilibrio della Prima Repubblica tale per cui prender parte ad una categoria o abitare in una certa regione comportava quasi automaticamente l’appoggio di un determinato schieramento politico. Visto col senno di poi, si comprende come quello a cui abbiamo assistito nel primo ventennio della Seconda Repubblica era soltanto un accanimento terapeutico ben distante già da qualche decennio dalla tensione ideologica genuinamente onesta che, almeno a grandi linee, aveva caratterizzato il furore ideologico della cosiddetta «repubblica dei partiti».
Ora, comunque, ogni finzione si può dire definitivamente conclusa. Le recenti elezioni amministrative sono una prova talmente lampante (al punto da essere per molti traumatica) di come la società non si muova più secondo criteri tradizionali o quantomeno coerenti rispetto alle precedenti scelte elettorali.
La politica nel senso di partecipazione pubblica finalizzata al perseguimento di un progetto coerente e articolato è pressoché distrutta e sostituita troppo spesso da un fetido conglomerato che vede, talvolta contemporaneamente, l’imporsi del favoritismo personale, del tornaconto familiare, del profitto aziendale fino ad arrivare direttamente al voto di scambio. Una realtà che mostra tutta la sua evidenza nelle amministrazioni locali purtroppo tradizionalmente vincolate da antiche e ramificate ragnatele corruttive (la Campania in primis), ove nemmeno la gestione estremamente personalizzata delle più consistenti forze politiche (nello specifico il Pd renziano) riesce nell’obiettivo di mettere ombra allo strapotere dei signorotti del territorio. Anzi, finisce per galvanizzarli: l’incapacità (e comunque il totale disinteresse) a fornire dei chiari contenuti in termini d’idee fornisce il diserbante più efficace per essiccare una sincera partecipazione interna, un proficuo dibattito e, di conseguenza, una classe dirigente responsabile maturata dopo una strutturata gavetta.
Il trionfo dell’interesse personale nell’immediato periodo ha quindi comportato un tacito patto sociale grazie al quale l’amministrazione della cosa pubblica viene completamente delegata ad organismi esterni o per mera incapacità oppure in cambio di qualche prebenda spesso nemmeno troppo consistente. Emblematica, in tal senso, la sorpresa esplicitata da Salvatore Buzzi nel vedere la fila (la fila!) di esponenti politici capitolini disposti (anzi, desiderosi) a vendergli la gestione del bilancio locale pur di ottenere in cambio l’assunzione di qualche familiare quando non direttamente una percentuale (nemmeno troppo elevata) sui tanto ingenti quanto spregevoli traffici del dominus delle cooperative romane.
Casi di elevatissima portata ma non diversi nella sostanza rispetto ai cedimenti che i potentati alla stregua di De Luca elargiscono all’intricato intreccio d’interessi non solo necessario, ma ahimè indispensabile al fine di conseguire la vittoria elettorale.
L’indignazione pubblica e lo stracciarsi le vesti di fronte al malaffare della «casta» finisce per frenarsi bruscamente quando gli stessi membri della suddetta sono in grado di erogare privilegi personali riuscendo addirittura a far passare figure come De Luca o Emiliano o, se vogliamo, anche Raffaele Fitto come vera alternativa «vicina al popolo». E pazienza se vicinanza, in questo caso, diventi sinonimo di collusione. Del resto, l’indignazione popolare continua imperterrita a rivolgersi contro i «partiti», negando in tal modo l’evidenza rappresentata dal fatto non solo che ora tutti i partiti sono definitivamente scomparsi ma che questo deterioramento sia esso stesso la base dello scadimento della gestione amministrativa.
La spinta del «cambiamento», questa più sentita nelle scelte elettorali di tipo nazionale e (specie nei grandi territori) talvolta di tipo locale, assume quindi da tempo un significato distorto. Cambiamento a livello di facce, cambiamento spesso generazionale, cambiamento finanche disposto a portare una concreta e rinfrancante ventata di moralizzazione delle classi dirigenti (è il caso dei 5 Stelle) ma mai viene auspicato a livello sociale un reale cambiamento in grado di sradicare una volta per tutte le illegalità quotidiane che continuano a costellare la vita di buona fetta di elettorato, prima fra tutte l’evasione fiscale, tema che fatica a trovare un vero spazio in tutte le forze politiche, comprese quelle più sensibili al tema dell’onestà. A dirla tutta, il cambiamento così tanto efficace a livello elettorale è un cambiamento che si premura anzi di alleggerire ancor di più gli oneri personali, primo fra tutti le tasse.
Ed è proprio il tema fiscale uno di quelli più determinanti per capire come mai il Pd renziano, dopo aver perso la quota più ideologizzata del suo partito, non è riuscito ad attrarre a sé la quota di elettorato cosiddetto «moderato».
Lottare contro i corpi intermedi (in primis il sindacato), ridicolizzare la magistratura, offrire una leadership pronta a supplire il cittadino dal fastidioso onere della partecipazione politica e negare perciò ogni conflitto sociale non sono bastati al premier/segretario dem per implementare la propria percentuale all’interno di questa gigantesca opera di corteggiamento. Nonostante un consenso ancora sostenuto (tutto sommato non così sgradevole per un partito alla guida del governo da più di un anno) Renzi ha però fallito miseramente il suo obiettivo. I colpi di martello abbattuti contro ogni residuo d’intermediazione politica, necessari per forgiare il (per ora) superato partito della Nazione, sono stati dati per lo più a vuoto, colpendo istituzioni e organismi che poco scaldano il cuore del dibattito pubblico quotidiano, monopolizzato appunto dal fisco e dai flussi migratori; temi non a caso scippati con sfacciata disinvoltura dalla nuova fiamma dei cittadini, l’arrembante leader leghista Matteo Salvini, forte prima di tutto di un’ossessiva presenza televisiva (a maggio ben sette ore e un quarto di «tempo di parola» nelle sole reti generaliste) ahimè essenziale per ottenere un consenso cospicuo. E sebbene sarebbe ingiusto liquidare il voto leghista esclusivamente come sintomo d’ignoranza (in fin dei conti sull’immigrazione la linea del «rispettabile» Cameron non è molto diversa, senza parlare del concordo unanime sull’esigenza di trovare alternative abitative per i rom), sarebbe ancor più pericoloso inseguire l’elettorato di Salvini dando attuazione alle sue agghiaccianti parole d’ordine.
Invece, considerati gli interventi rilasciati dal premier negli ultimi giorni, sembra che almeno in parte la linea sarà proprio questa. Non vi è alcuna volontà di recuperare il terreno perduto finora, al contrario s’intende procedere con maggior attenzione nell’opera di accalappiamento dell’elettore «moderato», con il consueto tono ottimista distante anni luce da quello dell’altro Matteo, ma non per questo meno restio a lasciarsi avvolgere da un sentire popolare sempre più svogliato e a dir poco impermeabile verso ogni slancio verso la partecipazione e la condivisione. Lo sconcertante dato dell’astensionismo ne rappresenta la più palese, ma non l’unica, testimonianza.

giovedì 18 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte sesta)



Expo è un evento costoso, su questo vige una concorde unanimità. Secondo il sito web expoleaks, ogni singolo padiglione costa mediamente tra i 20 e i 25 milioni di euro, mentre il bilancio di sostenibilità 2013 e 2014 di Expo 2015 Spa. ammette che i quattrini pubblici sganciati per la manifestazione corrispondono a 1,3 miliardi, senza considerare ovviamente la mole spaventosa di fondi sottratti dai contorti giri di corruzione che da sempre trovano nelle Grandi Opere il terreno più fertile (anzi, a voler essere maliziosi l’ostinazione verso la preparazione di Grandi Opere e Grandi Eventi pare essere finalizzata appositamente a fornire piattaforme ideali su cui imbastire sempre più sofisticate pratiche criminali).
Considerando che secondo l’Onu (correva l’anno 2008) per debellare la malnutrizione dal pianeta servirebbero 30 miliardi di dollari all’anno non occorre grande acume matematico per comprendere che se effettivamente la sensibilità è rivolta alla nutrizione del globo certe risorse sarebbe stato preferibile adoperarle direttamente per quest’ultimo scopo.
Di fronte a queste banalissime osservazioni sono in molti però a ribattere che attorno ad Expo ruotano comunque altri aspetti (e molti padiglioni sembrano averlo capito benissimo) tra i quali spicca con evidenza la presentazione del proprio Paese ai cittadini stranieri. Anche l’Italia non ha mancato di fare la sua parte, e infatti in conclusione di questa rassegna di interventi su Expo non ci resta che analizzare in definitiva il tipo di Italia che emerge dall’evento. Come viene raccontata ma, soprattutto, come la si vorrebbe compiutamente realizzare.
«In assenza di correzioni, dietro l’angolo non c’è l’uscita dall’Europa, il rifugio in un’impossibile autarchia, ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra storia e della nostra arte». Leggere ai giorni nostri questa affermazione di Giuliano Amato (da Dino Pesole, «L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni» sul «Sole 24Ore» online del 30/04/2010) strappa un amaro sorriso: sono bastati poco più di vent’anni per trasformare un incubo da cui scappare ad un rifugio verso il quale correre senza obiezioni. Ridurre la nostra penisola ad un pittoresco cortile dove far svagare in piena libertà i grandi magnati internazionali è infatti una parola d’ordine ossessiva, seppur addolcita da formule di rito quali «attrarre investimenti stranieri», «puntare tutto sull’export» e, la più fortunata, «puntare tutto sul turismo». Frasi subdole e, specie l’ultima, a prima vista ineccepibili. Peccato solo per il fatto che trasformare le nostre città in giganteschi parchi divertimenti per turisti, meglio se facoltosi, ferisce mortalmente il tessuto connettivo di chi in quella città ci vive, sottraendo (e a farne le spese sono anche i turisti, almeno quelli più avveduti) una componente fondante di una comunità civile, ossia l’ambiente umano, la storia, le storie, gli incontri e i contatti di cui una città si nutre per poter essere definita tale. In una fredda parola il contesto, di cui un’opera d’arte o una bellezza naturale rimangono legate in uno splendido e insostituibile connubio.
A meno che, ed è questo il punto, la capacità attrattiva dell’Italia non la si voglia rivolgere esclusivamente verso chi dell’aspetto umano e sociale del nostro Paese ne fa volentieri a meno, principalmente i turisti «mordi e fuggi» la cui ambizione più sensazionale è contare i «mi piace» dei propri selfie di fronte alla torre di Pisa (il che, purtroppo, attualmente rappresenta la quota maggioritaria e più redditizia del settore turistico) oppure i turisti più facoltosi oppure, meglio ancora, le grandi istituzioni industriali/finanziarie. Non c’è nemmeno più bisogno di nascondersi per rendere palese questo progetto. Rimanendo nel settore alimentare propagandato da Expo, si provveda a leggere con attenzione le parole che il leader di Eataly Oscar Farinetti rivolge al giornalista Andrea Scanzi nel corso di un’intervista (il video lo si può rintracciare su YouTube sotto il titolo «Oscar Farinetti ospite da Andrea Scanzi a #Reputescion»): «Per me nel Sud c’è una roba da fare: un unico grande Sharm el-Sheikh, hai presente quella roba in Egitto dove ci va tutto il mondo in vacanza? [Il Sud, ndr.] è uno dei posti più belli del mondo: facciamo venire i turisti di tutto il mondo lì…E aprirei alle multinazionali di tutto il mondo che vengano a farlo, gli farei agevolazioni fiscali bestiali, non pagano tasse per dieci anni». Concetto ribadito in un illuminante convegno organizzato da Italiadecide e scaturito in un documento («Italiadecide, Il Grand Tour del XXI secolo») destinato a divenire una pietra miliare per capire cosa intendano fare dell’Italia determinate classi di potere, tra cui spiccano due istituzioni che abbiamo incontrato più volte nel nostro racconto: Autostrade per l’Italia (ossia Benetton) e Intesa Sanpaolo. Tra le pagine 155 e 169, Farinetti illustra la linea d’azione: «In poco tempo…dobbiamo censire i 5mila più impostanti paesaggi italiani. Sto parlando di piazze, strade, borghi, valli, viste, colline, montagne, pianure e mari. Ogni paesaggio va raccontato, descritto, spiegato nelle sue origini, nei suoi particolari, in tutta la sua bellezza. Il tutto si troverà sulla guida Italia Vera».
Sfogliando il documento, più volte ricorrono imperativi quali «semplificazioni burocratiche» (pag.253) e «revisione dei piani urbanistici» (pag.254) i quali, tradotto dal criptico linguaggio propagandistico, significano soltanto l’eliminazione di ogni vincolo nei confronti delle grandi imprese che vengono nel nostro Paese, primo fra tutto il via libera alla cementificazione più selvaggia. Tanto più in un periodo di crisi e preoccupante disoccupazione, la corsa condotta globalmente dai vari Paesi per accaparrarsi investimenti e turismo deve adoperare tutte le armi a disposizione (non è forse questo il fine della globalizzazione?) per rendere più appetibile il proprio territorio; dalla compressione dei salari alla massima libertà d’azione, gli Epuloni mondiali vanno coccolati in ogni modo pur di ricevere quantomeno la speranza che lascino cadere qualche briciola dal loro luculliano banchetto, al punto tale che lo storico d’arte Philippe Daverio arriva a proporre nientemeno che di «adottare un ricco». E se non possiamo materialmente cullare i grandi operatori internazionali, dobbiamo almeno garantire a questi un ambiente comodo alle loro speculazioni anche dal punto di vista delle libertà personali dei cittadini. Proseguendo nel rapporto di Italiadecide (pag.239) si ritiene infatti che il successo dell’operazione di attrazione verso l’Italia del capitale turistico straniero dipenda in misura determinante «dall’immagine fornita dal sistema paese, dalla sua credibilità, dal senso di sicurezza trasmesso ai potenziali visitatori, dall’idea di ordine e di organizzazione territoriale, sociale ed economica veicolata dai mass-media, dalle cronache quotidiane, dai social network». Avete letto bene. Gli italiani devono mettersi in riga come solerti camerieri, non solo senza fiatare, ma senza nemmeno la possibilità di sfogarsi liberamente su facebook.


















Nell'immagine qui sopra, la testimonianza di come la narrazione di Expo sia così pervasiva da arrivare a contagiare persino i foglietti distribuiti durante la Messa

Anche da questo punto di vista, Expo rappresenta la palestra e la prova generale di un mondo, e quindi anche di un Paese, ridotto a silenzioso sguattero dei grandi apparati finanziari. È sempre Philippe Daverio a chiedere se «per sei mesi proviamo ad abolire il diritto al mugugno», e d’altronde non ci si poteva aspettare posizione diversa da un signore attivo in prima persona nell’opera di svendita del patrimonio culturale italiano (appartiene infatti al Comitato Scientifico a libro paga del concessionario privato della Reggia di Monza, in un contesto dove i vertici di Italiana Costruzioni intendono destinare la parte Nord della Villa ad un albergo di lusso).
Potrà dispiacere a lorsignori, ma il mugugno è il minimo che si possa emettere a fronte di una gestione del patrimonio culturale finalizzata esclusivamente al profitto privato e sempre più proiettata verso la sindrome della cosiddetta «maledizione delle risorse», ove la spietata ricerca della rendita di un lucroso prodotto presente in quantità massiccia in un determinato paese (caso tipico quello del petrolio) finisce per sfociare, usando le parole dello storico Tomaso Montanari (ispirate a idee del sociologo Andrea Declich), «nella corruzione del rapporto tra pubblico concedente e privato concessionario, nella rinuncia a sperimentare economie alternative (come una vera economia pubblica del patrimonio: presente, per esempio, in Francia), nella monocultura turistica ossessivamente praticata dalle città d’arte più celebri, nella organizzazione di eventi che consentano di massimizzare i risultati economici in un brevissimo termini». Una distorsione che porta, prosegue Montanari, «a immaginare di spostare continuamente i Bronzi di Riace in eventi di grido, invece che trasformare la Salerno-Reggio Calabria in una vera autostrada che permetta ai cittadini e ai turisti di raggiungere il Museo di Reggio; o che spinge ad “arredare” l’Expo di Milano con inutili mostre di Giotto o Leonardo invece che a finanziare progetti di arte contemporanea con ricadute permanenti sui territori che ne avrebbero maggior bisogno».
Infatti, sebbene in pochi se ne ricordino, Expo ospita all’interno dei comodissimi spazi affidati per oscure congiunzioni astrali alla filo-governativa Eataly di Farinetti una raccolta di esemplari di arte italiana, agglomerato senza uno straccio di filo conduttore ove pezzi rilevanti del nostro patrimonio storico finiscono per diventare nulla di più di un marchio commerciale il cui fine dichiarato non è l’arricchimento personale e culturale, bensì la sponsorizzazione dell’impero farinettiano.
Un obiettivo, quello di sottomettere la cultura italiana alle esigenze di marketing di Eataly, che, come di consueto, non ha guardato in faccia a nessuno. Non ci si è fatti scrupoli nel saccheggiare opere di proprietà pubblica, come quelle presenti nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino oppure le otto monumentali statue presenti nel Battistero di Pisa (mai trasportate finora per la notevole fragilità delle opere) oppure il «San Paolo» di Masaccio custodito dal Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, ottenuto quest’ultimo grazie a coercizioni politiche nei confronti di una soprintendenza inizialmente riluttante nel concedere il proprio gioiellino.



Di fianco, la prova documentale dell'iniziale diniego della soprintendenza alla richiesta di utilizzare un'opera del Masaccio come vetrina di Eataly all'Esposizione




























A confezionare tutto ciò, si raggiunge dulcis in fundo l’apice del pacchiano con verybello.it, piattaforma web predisposta dal Ministero dei Beni Culturali per valorizzare il patrimonio culturale del Belpaese in occasione di Expo. Iniziativa non solo grottesca, ma per giunta copiata di sana pianta da verybella.it, «prima linea di make-up e style per bambine».
Avete capito bene: la presentazione al mondo della nostra storia è affidata ad un sito internet pesantemente ispirato alla cipria delle bimbe. Ridiamo per non piangere, sperando che almeno questo ci sia concesso.

mercoledì 17 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte quinta)



Eataly, Coop e Slow Food sono i vertici di un tenace triangolo comodo per perseguire i medesimi obiettivi dei grandi operatori dell’agro-industria con la differenza di suscitare l’ammirazione di un certo elettorato sedicente «di sinistra». Il rapporto fra i tre è talmente vincolato da diventare talvolta indistinguibile: se Eataly rappresenta «il principale sbocco commerciale per i prodotti dei Presidi» targati Slow Food (da Tommaso Venturini, «Il nostro pane quotidiano: Eataly e il futuro dei supermercati», pag.406), è anche vero che «a partire dal 2004, un gruppo di 4-5 persone di Slow Food comincia a incontrare i piccoli e medi produttori piemontesi e italiani per selezionare una rosa di nomi per Eataly» (Venturini, pag.82). E ovviamente a questo punto s’inserisce il terzo attore; prosegue Venturini (pagg.84-85): «Una volta individuato Slow Food come partner capace di fornire a Eataly la competenza enogastronomica, Oscar Farinetti [il guru di Eataly, ndr.] si mette alla ricerca di altri soci al fine di assicurare al suo progetto sostegno finanziario ed esperienza del settore della distribuzione alimentare…La scelta cade quasi inevitabilmente su Coop. Molte sono le ragioni che determinano l’esistenza di un’affinità elettiva tra Eataly e Coop…Per Eataly, Coop rappresenta dunque un alleato più che solido e per Coop, Eataly rappresenta un investimento importante in termini di visibilità e prestigio, ma in nessun caso un possibile competitor. Inoltre, da alcuni anni Coop ha stabilito una solida collaborazione con Slow Food nel recupero delle tradizioni gastronomiche italiane. In particolare, le cooperative Coop sono tra i principali sponsor di molti dei Presidi». Senza il consistente appoggio di Coop Liguria e Piemonte e Coop Adriatica (che arrivano ad acquisire il 40% di Eataly distribuzione) si può star certi che il nome di Farinetti sarebbe sconosciuto ai più. Ad ogni modo, la stima di cui gode Farinetti non si può certo definire unanime, soprattutto dopo le polemiche sul trattamento riservato ai suoi dipendenti (otto euro orari e abbondanza di perquisizioni) in cui risulta coinvolto anche Slow Food se si tiene a mente il fatto che è proprio quest’ultimo a occuparsi di una parte della formazione dei dipendenti Eataly.
Farinetti, comunque, rappresenta il prodotto migliore nella divulgazione del Verbo anti-egualitario dell’agro-industria. Se almeno i rappresentanti di Slow Food preferiscono nascondersi dietro un imbarazzato silenzio, il capo di Eataly non ha remore di alcun tipo, forte fra l’altro di un solido sodalizio, corredato da frequenti corrispondenze via sms, con Matteo Renzi (di cui Farinetti doveva originariamente diventare nientemeno che ministro).
I salari ridicoli? «Se lo Stato ci toglie un po’ di tasse e rende sexy assumere, allora possiamo anche aumentare gli stipendi». Lavoratori sottoposti a costanti perquisizioni? «Chi ha un reddito basso e non ha coscienza civica è spinto a rubare. Li abbiamo beccati» (peccato che a fornire il «reddito basso» sia lo stesso Farinetti). Le istituzioni pubbliche? Da distruggere. Proprio così: «Un terzo dei politici sono uguali a noi, un terzo meglio di noi e un terzo peggio di noi. Dobbiamo individuare quel terzo migliore di noi, che conosce anche la macchina amministrativa perché dobbiamo distruggerla, e per distruggerla bisogna conoscerla, hai capito?». Distruggiamo pure i servizi essenziali e gli ultimi tremolanti baluardi di eque possibilità per tutti. Ci penserà la grande imprenditoria di cui Farinetti rappresenta l’aedo più sfacciato a rimpiazzarlo con criteri facilmente intuibili.
Nel frattempo, la grande imprenditoria internazionale ha già provveduto a fornire plasticamente il modello perfetto di un mondo a sua immagine e somiglianza: Expo Milano 2015. Lo diceva anche Carlin Petrini, in un articolo dall’eloquente titolo, «Solo cemento sui campi dell’Expo» («La Repubblica», 12/07/2011): «Siccome al Bie [l’istituzione proprietaria del marchio Expo, ndr.] l’unica cosa che interessa sono le royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l’Expo, è chiaro che la sua visionarietà- e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro sottoscrivendo la sua pochezza- si riduce a quello: pecunia» e lo ribadisce spesso e volentieri, una volta (era il maggio 2014) arrivando a descrivere l’Esposizione come «senz’anima, il sito è una ferita sul territorio» (da Luca Zorloni, «Il Giorno» del 30/05/2014).
Un gran peccato che tra coloro che «sono andati dietro» ad Expo figuri anche lui, con un luminoso padiglione piazzato come conclusione del Decumano. Certo, lo fa aderendo ad Expo dei Popoli, una bizzarra associazione che mira a «rappresentare la complessità della società civile impegnata sui temi della sovranità alimentare, del diritto al cibo, all’acqua, alla terra e alle altre risorse, nel percorso che porterà verso Expo 2015 a Milano» (così sta scritto sull’apposito sito web). Certo, lo fa con una rivendicata funzione critica che, però, non traspare concretamente da nessuna parte.
E a fare compagnia in quest’opera di addolcimento della pillola di Expo provvede anche Cascina Triulza, «il padiglione espositivo della Società Civile» (i cui componenti sono stati attentamente scelti da Expo in base a un bando di gara) ove sul manifesto della Fondazione omonima compare l’impegno di realizzare «una società equa» e «uno sviluppo umano sostenibile». Tra i firmatari, Compagnia delle Opere (ossia Comunione e Liberazione), Confcooperative e Legacoop Lombardia. Alla faccia dell’equità…
All’Esposizione non manca ovviamente Eataly, con un poderosissimo padiglione ricco di ristoranti, né ovviamente potevano essere assenti Coop e Granarolo. Tutti compatti come un sol uomo a celebrare il mondo della massima diseguaglianza dove l’estrema degradazione del lavoro diviene uno dei punti fondamentali. Del resto, come asserisce ossessivamente Farinetti, per fare più giusto il mondo basta saperlo narrare bene, ed Expo in questo è un esempio di ammirevole efficacia; si osservi, ad esempio, come viene spacciato il lavoro gratuito per l’Esposizione sul sito web volunteer.expo2015.org: «Essendo parte del team di Volontari per Expo 2015…acquisirai competenze e conoscenze uniche…rendendoti partecipe di un contesto, internazionale, multiculturale e multilingue che sarà un percorso formativo e di crescita…un network di relazioni vere basato su entusiasmo, energia, talento, intraprendenza, voglia di fare ed esperienze diffuse, che potrà esserti utile anche nel tuo futuro». Non solo il volontario deve rinunciare a qualsiasi remunerazione, ma si trova addirittura a sostenere un costo (sia di alloggio, sia di pasto) pur di spaccarsi la schiena in nome di Expo.
Pagare per lavorare. Queste le nuove frontiere del lavoro nell’éra della disoccupazione dominante e dell’estrema precarizzazione. Lo ammise lo stesso governo Letta, definendo questo sistema «un modello nazionale». Con tanto di approvazione da parte dei principali sindacati.
Nonostante il confortante flop di questa iniziativa (se nel luglio 2013 si auspicavano 18.500 volontari, nell’ottobre 2014 a stento si raggiungeva quota 7mila), il trattamento a cui sono sottoposti i dipendenti remunerati di Expo (comunque non più di 3.738 nell’estate 2014, checché venga decantato l’evento come opportunità occupazionale) non si discosta molto dalla logica degradante.
L’urgenza dei lavori in vista dell’evento (la stessa urgenza che in Italia ha favorito più di ogni altra cosa mazzette e criminalità più disparate) ha spinto Cgil, Cisl, Uil ed Expo 2015 ad un accordo siglato il 25 luglio 2014 tra le cui clausole figurano: «Nessun limite sulla quantità di contratti a tempo determinato…che si possono stipulare per il personale di gestione dei padiglioni. Apprendistato breve per favorire l’occupazione giovanile. Una disciplina prestabilita per orari di lavoro, riposi, ferie e permessi. Infine, un armistizio sulle agitazioni sindacali: niente ricorsi al giudice né agitazioni “salvo i casi in cui siano in campo valori democratici e di dignità dei lavoratori”». Non solo. La disciplina prestabilita degli orari prevede infatti «che il riposo fra un turno e l’altro possa essere ridotto a 9 ore in particolari circostanze; le ferie dovranno essere godute fuori dal periodo dell’Expo e l’orario di lavoro, straordinari compresi, potrà essere elevato a 48 ore settimanali. Questo tipo di contratti potrà essere utilizzato fino al 31 maggio 2016».
I principali sindacati firmano e controfirmano, con una convinzione tale che (da Rita Querzè sul «Corriere della Sera» dell’11/11/2014) la Cgil di Bergamo si spinge addirittura a proporre nuove compressioni dei diritti dei lavoratori: «Per evitare il blackout dei trasporti pre-esposizione universale…niente scioperi in cambio di un tavolo aziendale che metta qualcosa in tasca a tranvieri e dipendenti degli aeroporti». Nonostante l’evidente prova d’affetto e generosità, i novelli «padroni» hanno però declinato la gentile offerta.
Questo per quanto riguarda il presente.
Ma da che mondo è mondo le Esposizioni universali servono a profilare le novità che ci prospetta l’avvenire, e lo svilimento dell’occupazione è uno snodo cruciale per i magnati dell’agroalimentare. Provvede Coop a mostrarci negli spazi espositivi di Expo il futuro che ci attende su questo versante, seguendo la logica che già da qualche anno viene imposta nelle direttive ai fornitori di passate: bisogna a tutti i costi garantire il «rispetto dei diritti dei lavoratori, anche passando attraverso un aumento della quota di raccolta meccanizzata, in particolare per quanto riguarda i pomodori» (da «Coop consumatori», edizione Reno, pag.24).
In altre parole, bisogna usufruire al massimo delle innovazioni tecnologiche non per migliorare la vita, bensì per ridurre il numero dei dipendenti e, di conseguenza, risparmiare ancor di più sui salari. Questa la prospettiva che emerge chiaramente dal Future Food District, il fantascientifico supermercato del futuro dove la spesa avviene con totale autonomia da parte del cliente.
Eliminare totalmente la voce «lavoro» dai costi aziendali è un sogno che Expo promette di realizzare nel giro di pochissimi anni.

martedì 16 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte quarta)



La Grande Distribuzione rappresenta l’anello finale, ma non per questo più debole, nella catena dell’industria agro-alimentare, acquisendo dagli anelli precedenti della filiera tutte le storture che ne garantiscono la sopravvivenza.
Il circolo vizioso è sempre quello: massimo profitto ottenuto dal monopolio de facto del comparto e di conseguenza possibilità di un abnorme potere contrattuale su quelle che sono le voci di costo, prima fra tutte il lavoro. La concentrazione di potere della Grande Distribuzione (in Italia da sola commercializza il 72% del totale nazionale dei prodotti freschi e confezionati) vede la sua rappresentazione più palpabile nella pratica del «trade spending», ove il fornitore finisce addirittura per pagare gli attori della commercializzazione (in un contesto dove chiaramente dovrebbe avvenire il processo opposto) pur di «supportare, promuovere, o semplicemente vendere» il proprio prodotto. Operazioni che, stando al poc’anzi citato rapporto Agcom («Indagine conoscitiva sul settore della Gdo», 2010-2013, pag.127) «rappresentano, nel loro complesso, un costo significativo per i produttori- incidendo mediamente dell’11% sui ricavi per la vendita dei prodotti- e, simmetricamente, una consistente fonte di guadagno per i distributori». Il solo fatto di essere pagati nel momento in cui si acquista un prodotto la dovrebbe dire lunga ai cantori delle diseguaglianze come perfetta incarnazione del «libero mercato», ma il paradosso raggiunge l’apice nel momento in cui la Grande Distribuzione arriva addirittura a pretendere pesanti sconti dai propri fornitori (operazioni che vanno a incidere all’incirca per il 16,6% dei propri ricavi) senza alcuna possibilità di vedersi rifiutate queste «pressioni» dal momento in cui la «mancata accettazione» da parte del fornitore, prosegue il rapporto Agcom, sottopone quest’ultimo «a precise ritorsioni, quali il delisting (cioè l’esclusione dalla lista dei fornitori), totale o solo per alcuni prodotti, oppure un ingiustificato peggioramento delle condizioni trattate nel periodo di fornitura successivo».
In situazioni del genere, dove la «rossa» Coop gioca il ruolo principale, ci si può solo immaginare quale sia il trattamento riservato ai lavoratori. A tal proposito, un’avvisaglia l’abbiamo avuta nel 2011, quando cominciò un’ondata di scioperi da parte dei dipendenti delle «cooperative che movimentano le merci in arrivo e in partenza nei magazzini e nei poli logistici di vari tipi di aziende, dalle catene dei supermercati della grande distribuzione ai corrieri privati, da piccole zone industriali ai grossi interporti» (da Mimmo Perrotta, «Condizioni e lotte dei lavoratori migranti della logistica», «Lo Straniero», giugno 2013). Cominciata da Ikea, l’onda a metà novembre è ben lungi dall’arrestarsi se è vero che, spiega l’articolo, «si apre una vertenza anche nei magazzini di Coop Adriatica ad Anzola Emilia, alle porte di Bologna. A generare la mobilitazione è la proposta di Coop di un cambio di appalto…che causerebbe tra l’altro un abbassamento dei salari, la richiesta ai lavoratori di versare nuove quote sociali alle nuove cooperative, nonché la possibilità di effettuare licenziamenti mascherati. Caratteristiche comuni a queste e alle molte altre vertenze sono: la presenza di dirigenti di cooperative e capireparto particolarmente invisi ai lavoratori, la durezza degli scontri- i picchetti dei lavoratori ai cancelli dei magazzini sono oggetto di dure cariche delle forze dell’ordine, ma anche, in alcuni casi, di gruppi di “mazzieri” assoldati all’uopo- il reclutamento di crumiri, i tentativi di corruzione da parte delle cooperative, l’emergere di leader sindacali di base, soprattutto migranti…il ruolo ambiguo dei sindacati confederali e l’opposizione frontale tra questi e il sindacato di base Si Cobas».
Coinvolta risulta anche Granarolo, struttura talmente importante da aver avuto almeno la sincerità di togliersi di dosso l’etichetta cooperativa dal momento che la sua holding risulta partecipata per il 19,78% da…Intesa Sanpaolo. Ancora loro. E del resto la logica alle spalle della gestione aziendale prevede sempre lo stesso copione: comprimere i salari (di circa il 35%) ai propri dipendenti in Italia puntando la vendita dei propri prodotti sul mercato estero.
La risposta del Presidente di Granarolo (nonché ex-leader di Legacoop Bologna) non poteva essere più eloquente: la protesta in corso «attacca i baluardi della vita e del confronto democratico» (da «La Repubblica», sezione bolognese, 17/12/2013, pag.9). Una parola d’ordine prontamente ripetuta dai suoi zerbini in Parlamento nel corso di un’interrogazione al governo proprio sulle controversie della Granarolo: «Rispetto delle regole democratiche» è quanto invoca il gruppo parlamentare del Pd.
Le responsabilità della Grande Distribuzione non finiscono qui. Secondo Coldiretti Bologna (da «Una filiera agricola tutta italiana») se «per ogni euro speso dal consumatore» all’agricoltore arrivano soltanto 17 centesimi, ciò avviene perché «il resto va all’industria, ai servizi e soprattutto alla grande distribuzione organizzata che schiaccia con il suo potere il resto della filiera». A tal riguardo, Sos Rosarno (da «Rosarno agrumicultura e Grande Distribuzione Organizzata», da www.sosrosarno.org) asserisce con maggior precisione: «Per poter ottenere prezzi imbattibili mantenendo alti tassi di profitto, la Gdo esercita il suo buying power per imporre bassissimi prezzi alla fonte e realizza sulla quantità economie di scala. Non c’è da stupirsi dunque che organizzazioni come la Coldiretti denuncino ormai da anni questa situazione. Salvo però il fatto che le stesse dimenticano sempre di menzionare la vittima principale di questo circuito infernale: i braccianti immigrati, siano sub sahariani, magrebini, bulgari o romeni».
E a tutto ciò si aggiunge quanto rilevato da un’analisi del 2010 della Cgia di Mestre: «Tra il 2001 e il 2009 ad un aumento di poco più di 21mila addetti nella grande distribuzione, nelle piccole botteghe commerciali si sono persi quasi 130mila posti di lavoro. Vale a dire che per ogni nuovo occupato nei centri commerciali, si sono persi sei posti di lavoro tra i piccoli negozianti».
Dinnanzi a cotanto sfacelo, indovinate contro chi scaglia tutto il suo peso in termini di opinion-maker il Carlin Petrini di Slow Food? Sul consumatore, ovviamente. A fronte d’interessi così radicati ed estesi a livello praticamente planetario la linea d’azione è: «Tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi [dove si svolge il più ignobile sfruttamento di manodopera, ndr.], e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie». Ecco, appunto. Il problema è che non tutti possono permettersi di «pagare di più», spesso a causa proprio di questi assetti che consegnano tutti i profitti agricoli alla filiera dell’agro-industria. Ma, del resto, cosa ci si poteva aspettare dal patron di un movimento che con la Coop stringe intese da anni? Scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food» (pag.40): «I primi contatti tra Coop Italia e Slow Food sono datati 1999…L’esigenza di Coop era anche quella di individuare prodotti nuovi, possibilmente di qualità più alta e più vicini al territorio. Ecco dunque che nell’aprile 2001 Coop Italia e Slow Food siglano un accordo per la salvaguardia delle produzioni dei Presidi».
Quello era solo l’inizio di un sodalizio, che vedrà nel corso degli anni non solo il concepimento di un altro attore, Eataly, ma una giostra sempre più opprimente dove a farne le spese sono ancora una volta i lavoratori. Fino all’apoteosi raggiunta da Expo.

sabato 6 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte terza)



La pacata narrazione di Slow Food, così semplice e così invitante per il mondo della sinistra (ovunque sia ora finita), è a suo modo paradigmatica per capire tante delle contraddizioni che hanno accompagnato l’universo progressista italiano nel suo irreversibile dissesto.
Lo racconta con illuminante sagacia un volume di recente pubblicazione, «La danza delle mozzarelle» ad opera di Wolf Bukowski, puntuale nel tracciare le tappe fondamentali di un percorso che passo dopo passo ha portato la sinistra italiana a lasciarsi ammaliare dai racconti dei vari guru Petrini e Farinetti senza rendersi conto (o magari facendolo di proposito) quanto quelle idee così apparentemente ricche di giustizia sociale e insofferenza verso le multinazionali fossero in realtà funzionali alla spietata logica anti-egualitaria degli interessi più forti. Interessi che, a ben guardare, sono onnipresenti nelle attività dei vari radical-chic dell’esofago, diciamo anzi che ne sono indispensabili per la loro sopravvivenza e che trovano nella partecipazione ad Expo il loro apice.
Basta una rapida occhiata sul sito www.fondazioneslowfood.it per scoprire, per esempio, quanto la Compagnia San Paolo (vale a dire Intesa Sanpaolo, ossia la banca di riferimento di Expo, la stessa che più di tutte partecipa alla mangiatoia delle infrastrutture di Expo, la stessa che fra le altre cose si è distinta in passato per una cospicua esportazione di armi) sia lodata dal movimento di Petrini per i lauti finanziamenti ricevuti in occasione di una ricerca su «casi virtuosi di commercializzazione diretta o di filiera corta». Ma le pratiche di copulazione tra la grande finanza e il punto di riferimento gastronomico della sinistra più schizzinosa sono ancora più evidenti se andiamo a leggere un comunicato stampa del 28 giugno 2014 dedicato alla presenza di Intesa Sanpaolo al Salone del Gusto: il gruppo bancario per l’occasione non manca di vantarsi di aver «scelto dal 2006 di essere partner di Slow Food, ne condivide gli obiettivi e promuove anche al proprio interno comportamenti improntati a evitare sprechi…Intesa Sanpaolo, che crede nell’eccellenza italiana del settore agroalimentare e la sostiene, assume un ulteriore impegno nella valorizzazione del made in Italy in qualità di Global Banking Partner di Expo Milano 2015».
Non sono parole di circostanza. Intesa Sanpaolo ha davvero le idee chiare su quale debba essere la direzione da seguire per valorizzare le eccellenze italiane, tant’è vero che non solo nel 2009 sigla accordi con Confagricoltura (l’unico sindacato agricolo smaccatamente a favore degli OGM), ma insieme a quest’ultima organizza nell’ottobre del 2013 un ciclo di conferenze il cui obiettivo è divulgare «una panoramica tra miti leggende e realtà che riguardano il tema delle biotecnologie, del cibo e dell’agricoltura, che ha evidenziato la importanza della comunicazione scientifica per contrastare una dilagante, preoccupante disinformazione antiscientifica» (da Lorella Pellis, «Settimana Europea delle Biotecnologie: ai Georgofili si è parlato di genetica e agricoltura», «Toscana Oggi» del 04/10/2013).
Molti a questo punto ricorderanno le veementi filippiche del gruppo di Carlin Petrini contro gli organismi geneticamente modificati che più di ogni altra cosa stanno lì a testimoniare la fiera posizione di Slow Food sull’argomento. Andando a scavare più a fondo, si va però a scoprire quante sfumature e quanti distinguo rendano ambiguo il movimento Slow in rapporto al tema delle biotecnologie.
Sfogliando ad esempio il volume scritto a quattro mani dallo stesso Petrini insieme a Gigi Padovani («Slow Food Revolution. Da Arcigola a Terra Madre. Una nuova cultura del cibo e della vita», pag.256) possiamo assistere alle seguenti affermazioni del divino Carlin: «Voglio chiarire che Slow Food con quella campagna a favore della biodiversità lanciata nel novembre 2004 ha semplicemente voluto affermare la necessità di avere regole certe e definite per la coltivazione di organismi geneticamente modificati in campo aperto…Ci siamo battuti per ottenere norme prudenziali a tutela di pratiche agricole contro quelle industriali. Non ci stiamo ad essere accusati di luddismo o oscurantismo. Siamo convinti che il vero superamento della questione possa avvenire soltanto con il tempo, attraverso un colloquio tra i saperi tradizionali, dei quali sono depositarie le comunità rurali, e la scienza ufficiale».
È semplicemente l’assenza di dispositivi di legge sulla materia a rendere scettici sulle conseguenze degli OGM, un pudore legalitario che emerge con nettezza in un comunicato di Cinzia Scaffidi («Slow Food Italia: OGM, necessario il rispetto della legalità in Friuli») risalente al giugno 2014 in cui si esplicita: «Qui non si tratta di ideologia, di pro o contro gli OGM. Con buona pace di tutti i sostenitori degli OGM, al momento esiste un decreto che vieta in Italia la coltivazione del MON 810 ed esiste anche una legge regionale che rafforza questo quadro. Non si può fare nessuna discussione se prima non si ristabilisce la legalità».
Sorge spontaneo il dubbio su cosa accadrà, un evento non così remoto, quando effettivamente la coltivazione degli organismi geneticamente modificati sarà pienamente legalizzata e operativa. Sarà bello capire a quel punto dove intende schierarsi Slow Food, e la risposta a tal riguardo diviene sempre più sospetta se si va a leggere cosa pensa Petrini di una figura come José Bové che non ci ha pensato due volte a far valere le sue idee (con tanto di trattore in azione per impedire l’edificazione di un McDonald’s) anche rischiando serie ripercussioni giudiziarie: «Quando passa all’azione, però, [Bové, ndr.] percorre strade e adotta strategie di aperto conflitto con le multinazionali che noi non intendiamo praticare» (da Carlo Petrini, «Slow Food, le ragioni del gusto», pagg.27-28).
L’opposizione praticata da Slow Food è quella che tira la fune stando però ben attento a non spezzarla, che si lamenta dei grandi guai del mondo senza però additarne chiaramente le cause e proporre radicali alternative di sviluppo. La sua opera più «rivoluzionaria» è quella di spiegare il sistema di sfruttamento degli uomini e delle risorse, non di volerlo combattere alla radice; e infatti la prima rivendicazione di Petrini è: «Iniziare assolutamente dalle scuole…Il richiamo alla realtà è per tutti: il sapere gastronomico deve essere recuperato e vanno posti i termini perché possa essere veicolato» (da Carlo Petrini, «Buono, pulito e giusto», pagg.150-151).
L’importante è non scontentare troppo lorsignori, gli Epuloni dell’industria agroalimentare che in misura massiccia compaiono tra i «Partner Strategici» della (costosissima) Università di Scienze Gastronomiche «nata e promossa nel 2004 dall’associazione internazionale Slow Food con la collaborazione delle regioni Piemonte ed Emilia Romagna», prima fra tutti Autogrill, emanazione della famiglia Benetton che costringe i suoi (seppur indiretti) dipendenti cinesi alla rinuncia di ogni libertà sindacale, che subisce nel 2004 una multa per violazione delle gare d’appalto da parte dell’autorità garante, che secondo un’indagine Labour Behind the Label è tra le più insensibili al tema delle paghe, che possiede il più grande latifondo della Patagonia argentina (900mila ettari) anche a costo di aver fatto sloggiare con ogni mezzo la popolazione Mapuche ivi residente da secoli e che, dulcis in fundo, gestisce anche il maggior latifondo italiano (Macarrese Spa., 3200 ettari nella zona di Fiumicino la quale fra l’altro, toh guarda la coincidenza!, risulta associata a Confagricoltura). Ma tra questi partner risultano anche Barilla, Ferrero, consorzio Parmacotto e finanche Ikea (per un approfondimento si legga «Slow Food. Buono, Pulito e Giusto?», Anticorpi.info, 06/01/2013).
E sull’idea che questi magnati possiedono della giustizia sul pianeta non persistono dubbi di alcun tipo. La diseguaglianza è la linfa che li tiene in vita, e di questo messaggio è impregnata indubbiamente anche l’attività di Slow Food: i prodotti che espone sono chiaramente disponibili solo per chi dispone delle risorse economiche necessarie per acquisirli. Delle classi disagiate di cui certa sinistra adora sciacquarsi la bocca non vi è la minima considerazione. Anzi, lo stesso marchio Slow Food finisce per divenire sinonimo di diseguaglianza se è vero che, come scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food» (pag.40), «i prodotti segnalati e valorizzati da Slow Food vedono incrementare il loro valore di circa il 30%».
Un tema, questo, su cui J.M. Hirsch («Slow Food must shed elitist label», Associated Press, 09/12/2008) fornisce un’ottima chiosa: «La mamma single che accumula più lavori part-time per dare da mangiare alla propria famiglia potrebbe anche adorare il gusto del Brie locale e biologico, ma è difficile immaginare che vada a comprarselo quando addirittura il prezzo del pane e del latte sono fuori portata».
Ma è sui rapporti con la Grande Distribuzione (altra indubbia protagonista di Expo) che sia Slow Food che il suo degno comprimario, Eataly, mostrano con maggiore nettezza il vero volto nascosto dietro la maschera di opposizione comoda alla grande agro-industria. Di questo sarà opportuno occuparsi a breve.

venerdì 5 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte seconda)



Se ad Expo diradiamo l’avvolgente nebbia di effetti speciali e ci premuriamo con cura di sbucciare tutte quelle che sono le promozioni turistiche dei vari Paesi (ci sono padiglioni incentrati esclusivamente su questo: Ecuador, Colombia, Uruguay, Polonia, Cile, Indonesia, Vietnam e qualche altro), si riesce a scorgere qualche idea su ciò che l’Esposizione intende disporre per «Nutrire il pianeta».
Il punto di vista, lo si nota già a qualche metro dall’entrata, è smaccatamente schierato: la parte del leone è giocata infatti dagli onnipresenti, ben posizionati e mai estranei alla vista padiglioni dei grandi sponsor, talvolta con la sfacciataggine di collocarsi nel cuore dei cosiddetti cluster il cui scopo è quello di offrire uno spazio espositivo anche alle nazioni con minori disponibilità (disponibilità che in totale sono ammontate comunque a circa 45 milioni).
In tal modo appena entrati ci ritroviamo sulla sinistra l’invitante banco di Casa Algida, pronta a sponsorizzare i prodotti dell’omonima azienda espressione di Unilever. La stessa Unilever che nella gestione della fabbrica Hindustan Lever Ltd. è stata sovente soggetta a procedimenti giudiziari da parte dell’India per i vari tentativi di estromettere qualsiasi forza sindacale, la stessa Unilever che acquista abbondanti quantitativi di olio di palma alla Wilmar (tristemente nota come tra le maggiori responsabili della deforestazione indonesiana, con tanto di pesanti intimidazioni verso le popolazioni locali), la stessa Unilever che costringe i lavoratori delle piantagioni indiane di tè a vedere costanti decurtazioni dei salari e segrega i braccianti del Kenya in «cubicoli» senza servizi igienici dove far vivere intere famiglie, la stessa Unilever che in Pakistan arrivò addirittura ad assoldare la polizia locale per costringere alcuni lavoratori a sottoscrivere contratti sindacali privi delle garanzie previste dalla legge e che, infine, talvolta rifila ai propri consumatori prodotti OGM.
Appena sulla destra, se si desidera un momento di ristoro, non resta che lasciarsi cadere sulle poltroncine offerte dalla Ferrero, non altrettanto generosa nei confronti dei contadini a cui i fornitori di cacao, olio di palma e tè sottopongono i loro dipendenti e nemmeno altrettanto con i loro cospicui consumatori, se è vero che, almeno secondo Greenpeace, si registra un singolare silenzio di fronte alla richiesta di non adoperare organismi geneticamente modificati nei suoi prodotti.
Proseguendo più avanti ecco il civettuolo store della Perugina, che non tutti sanno essere affiliata della Nestlè (la quale fra l’altro ad Expo gode di un iper-interattivo padiglione affiancato a quello della Svizzera) che non tutti sanno essere tra le responsabili dell’alta mortalità infantile in paesi come il Bangladesh in «virtù» dei consigli, spesso autentici raggiri, che invogliano le madri ad alimentare i propri bambini con latte in polvere dell’azienda. Verso i bambini la Nestlè ha una discreta bramosia, se è vero che sfrutta, in condizioni paragonabili alla schiavitù, centinaia di ragazzini nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. Senza considerare i gravissimi danni ambientali dovuti alle piantagioni illegali di caffè responsabili di pesanti deforestazioni o gli altrettanto atroci sospetti di coinvolgimenti dell’azienda sia in azioni squadriste condotte contro rappresentanti sindacali sia addirittura nel misterioso omicidio del sindacalista Luciano Enrique Molina.
Non manca ovviamente l’organizzatissimo padiglione della Coca-Cola, tanto disponibile nell’offrire bevande fresche ai suoi avventori (sperando che dentro l’intruglio non ci sia polvere di ferro, come denunciato nel 2006 da un consumatore giapponese) quanto spietato nelle più scellerate violazioni dei diritti umani (basti considerare che tra il 1990 e il 2008 nella sola Colombia dodici sindacalisti sono stati assassinati e 179 sono state le aggressioni). Né poteva mancare la gettonatissima McDonald’s, tra le prime responsabili della distruzione della foresta amazzonica al fine di lasciare spazio alle coltivazioni di soia.
Sono loro a forgiare buona parte dello spirito alimentare di Expo, a partire dall’acqua (venduta come merce qualsiasi dalla Nestlè) fino a redigere de facto di loro pugno la «carta di Milano», ossia quello che dovrebbe rappresentare il lascito moralmente più rilevante dell’Esposizione. A ispirare tale documento è infatti la Fondazione Barilla, legata strettamente all’omonima azienda responsabile (secondo Flai-Cgil) di licenziamenti mascherati, responsabile dello sversamento in atmosfera nel solo 2006 di 60 milioni di chili di gas serra e, dulcis in fundo, titolare di finanziarie collocate in Lussemburgo.
Le raccomandazioni, che trapelano dal documento ma in realtà filo conduttore di tutta l’Esposizione, finalizzate a sconfiggere la malnutrizione del pianeta si possono riassumere in (quelli che seguono sono estratti della «Magna Charta»): «Individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze», «creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari» e infine «che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori». Stando a quanto si prescrive, pare che la fame nel mondo dipenda soltanto da come si comporta il tipico consumatore occidentale con gli avanzi della sua cena: al posto di buttarli dovrebbe elargirli a chi ne ha bisogno.
Tale semplicistico (al limite del grottesco) modo di pensare non solo esime di ogni responsabilità i magnati dell’agro-industria e della grande distribuzione scaricando ogni colpa sul consumatore finale (il quale si ritrova sottoposto ad un autentico processo fin dal «padiglione zero»), ma ritiene perfettamente regolare sia la ripartizione delle ricchezze, economiche e naturali, sia l’iter di creazione e trasformazione del cibo che invece dovrebbero essere i protagonisti indiscussi di un dibattito sulla fame nel mondo. Nel mentre quindi i cittadini poveri sono trattati come dei cani da compagnia a cui riservare i rimasugli di ciò che resta sul tavolo quando i benestanti sono sufficientemente sazi e nel mentre si vede nell’obesità (affrontata alla stregua di un hobby) la visibile causa di cosa significa sottrarre risorse alimentari a chi non ne possiede (senza minimamente osservare che, più che la quantità, è la scarsissima qualità dei prodotti alimentari che i grandi colossi propinano a suscitare anomalie nella salute), della scandalosa concentrazione in pochissime mani di tutti i punti nevralgici dell’alimentazione, dalla terra alle fasi di trasformazione e commercializzazione (dove fra l’altro si concentra più di un terzo dello spreco, tra lo scarto di frutta non esteticamente perfetta e date di scadenza talvolta piazzate con notevole anticipo) si decide semplicemente di stendere un velo di silenzio.
Lo stesso comparto prettamente agricolo viene affrontato senza mai tenere conto di quanto ammonti effettivamente il terreno coltivabile sul pianeta: secondo la Fao abbiamo a che fare con 4,1 miliardi di ettari, quanto basta non solo per nutrire a piena sufficienza tutti i suoi abitanti, ma anche per disporre di materiale da costruzione, fibre da tessere e persino una superficie boschiva estesa trenta volte più dell’Italia. Ammetterlo però significherebbe riconoscere implicitamente l’aberrante gestione delle risorse agricole, a partire dagli allevamenti da carne arrivando fino alla recente moda del biocarburante, che da solo arriva a divorare un quarto della produzione statunitense annua di mais e frumento senza la presenza di autentiche garanzie di convenienza.
Si preferisce invece suscitare allarme su come fare per rendere più produttivo il terreno, e ambigui riferimenti alla «genetica» (specie nei padiglioni francese e tedesco, tra i pochissimi ad affrontare tematiche connesse all’agricoltura) lasciano presagire quale sia la strada imposta dai colossi agro-alimentari globali: gli OGM.
Se lo chiedeva con una sana dose di malizia Cinzia Scaffidi, membro di spicco del movimento Slow Food, in un articolo su «La Stampa» del luglio 2014: «Come mai tutto quest’agitarsi, proprio adesso e proprio qui, su questo tema [gli OGM, ndr.]? Per via del semestre italiano di presidenza europea, diranno alcuni…Ma il semestre italiano non è la sola ragione…Esso, infatti, finirà, e cederà il passo, pochi mesi dopo, a un altro grande appuntamento, l’Expo 2015, nel quale le aziende che producono semi gm per l’agricoltura saranno presenti e forse desiderano trovare un Paese meglio disposto, verso di loro, di quanto lo sia oggi. Questa specie di campagna stampa si spiegherebbe così con la necessità di offrire alle multinazionali un pubblico italiano meno critico rispetto agli OGM in agricoltura. O, semplicemente, già talmente stufo di sentirne parlare che si lascerà scivolare addosso gli slogan e i toni da crociata che oggi sembrano caratterizzare i sostenitori di quel tipo di biotecnologia».
Meritano un applauso solo solo per la schiettezza, affermazioni di questo tipo. Se non fosse che Slow Food del sistema Expo ne figura tra i protagonisti, pronta a dimostrare (insieme ai compari Eataly e Coop) un’opposizione di facciata ad uso e consumo dei medesimi colossi finanziari e industriali talmente potenti da manovrare non solo i contenuti dell'evento, ma addirittura la sua più influente contestazione. Questo sarà il prossimo argomento affrontato.

giovedì 4 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte prima)



Se le esposizioni universali hanno come scopo quello d’illustrare al mondo un assaggio di futuro, il mondo che propone (o meglio, impone) l’Expo di Milano suscita una cospicua dose di sconforto. In uno sfavillante, e spesso anche esteticamente assai gradevole, susseguirsi di padiglioni quasi tutti a rappresentanza di un’istituzione nazionale, gli allestitori delle varie strutture espositive hanno indubbiamente fatto il maggiore sforzo a loro concesso, anche a livello di mezzi economici, pur d’incantare il visitatore con effetti tecnologici dal grande impatto sensoriale (molto gettonata la sensazione della pioggia, senza parlare dell’assortita possibilità del touch-screen in ogni sua possibile declinazione).
Il problema, infatti, non sta nel modo in cui il visitatore viene «intrattenuto». Anzi, quest’obiettivo si può considerare pienamente raggiunto: che si tratti, giusto a titolo d’esempio, dell’esperienza 4D a chiusura del padiglione kazako oppure dell’incantevole bosco a rappresentante dell’Austria oppure ancora degli avvolgenti aromi del Marocco, esperienze di piacevole svago e relax riescono a soddisfare qualsiasi palato.
Un visitatore interessato ad una disquisizione di quello che formalmente doveva essere il tema portante dell’evento, «Nutrire il pianeta, energia per la vita», farebbe bene però a non liquidare l’Esposizione come un’occasione sprecata, come una presa in giro ove il tema della nutrizione viene rimpiazzato da una planetaria competizione di marketing. All’Expo non vi è infatti alcun fraintendimento: la nutrizione trasformata in spettacolo pacchiano a sola disposizione di chi si può permettere il biglietto d’ingresso non è nient’altro che l’esito naturale di un percorso dove la superficialità è un precetto religioso, la dimensione del presente l’unica concepibile e, soprattutto, il rapporto tra gli uomini si riduce esclusivamente a quello di fornitore-consumatore.
L’ingiustizia più profonda ricoperta da una mano di pittura ipnotica e accattivante è esattamente ciò che trasmette l’Esposizione, nel cuore dello sfavillante trionfo del mondo su misura di Epulone. Come nella parabola biblica, infatti, il mondo che trova in Expo la sua compiuta agiografia (nonché un perfetto modello a cui rifarsi) è quello dell’onnipotente bulimico che, intento a divorare il suo pasto abbondante, limitandosi a lasciar cadere qualche briciola dal suo tavolo riceve gli sperticati ringraziamenti dell’esercito di disgraziati accucciati ai suoi piedi ed interamente dipendenti dalla discrezionalità dell’ingordo signore.
Gli Epuloni del mondo non esitano a mostrarsi in Expo in tutta la loro boriosa sicurezza, con la spavalda rivendicazione di esserne i dominus incontrastati. Talmente incontrastati da tenere alle loro dipendenze, come vedremo più in seguito, anche la loro opposizione. E dove non si fanno vedere con maggior chiarezza, gli Epuloni sono comunque onnipresenti: si arriva a camminare letteralmente sopra il frutto del loro profitto e, addirittura, di tale frutto ci si ciba prima di partecipare all’evento e dopo averlo lasciato.
Parliamo del cemento, non solo quello che ricopre i cento ettari dell’esposizione vera e propria ma soprattutto il cemento delle tre Grandi Opere che grazie all’Expo hanno trovato il miglior pretesto per essere prontamente eseguite, per la grande gioia di speculatori e politici ad essi contigui che da almeno trent’anni aspettavano il momento giusto per seppellire 1090 ettari di terreno agricolo e 202 ettari di bosco (da Luca Martinelli, «L’Expo mangia la terra», Altreconomia, 05/05/2014) sotto le insegne della Pedemontana, della BreBeMi e della Tangenziale Est esterna a Milano. Almeno dieci miliardi di soldi pubblici allegramente serviti sul piatto degli Epuloni del cemento «a cui», aggiungono Off Topic e Roberto Maggioni in «Expopolis» (pagg.138-139), «andrebbero aggiunti quelli per strade di collegamento, parcheggi, raccordi e raddoppio di strade statali». L’ormai ex-ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi aveva stimato in 3,8 miliardi il costo pubblico delle infrastrutture connesse all’evento (costo momentaneo, questo è chiaro, dal momento che è assai difficile concepire quanto opere del genere costino effettivamente sul lungo periodo in termini ambientali e idrogeologici). La sicurezza l’abbiamo semmai su chi ha il maggior guadagno da questa speculazione. Un nome da tenere a mente, perché nelle vicende connesse all’evento ritornerà come un abile burattinaio pronto a tenere nello stesso momento la marionetta del personaggio buono e del personaggio cattivo, disposto addirittura a farli bisticciare tra loro nel bucolico spettacolo di un dibattito sull’agroalimentare italiano che pare acceso ma in realtà vede l’accordo di tutti. Ci si riferisce a Intesa Sanpaolo, colosso finanziario tra i più attivi nel sostenere le infrastrutture ruotanti attorno ad Expo nonché prima partner di Expo nonché istituzione a cui verranno affidate le chiavi di ciò che diventerà l’area che ospita l’evento dopo la sua conclusione. Superfluo immaginare come verrà adoperata quella zona (altro cemento), meno superfluo è raccontare come abbia fatto Intesa Sanpaolo a raggiungere tale monopolio sull’evento: tutto inizia quando la società pubblica che si occupa dei terreni per l’evento, Arexpo, necessita assolutamente di 220 milioni di euro. Pur di ottenerli, garantisce la totale discrezionalità in termini di cementificazione all’istituto di credito che si assume l’onere di sganciare i quattrini necessari il prima possibile. Nonostante ciò, la richiesta non incontra soggetti interessati; è a questo punto che, come descritto nel volume «Expopolis» (pagg.110-112), la giunta Pisapia «decide quindi di approvare una fideiussione di 55 milioni» a cui fa seguito, siamo nell’ottobre del 2012, l’apertura delle buste. Qui arriva la sorpresa, dal momento che «dentro c’è una sola offerta, quella di Banca Intesa. Che si aggiudica la partnership, ovviamente. Intesa diventa quindi la banca di Expo. Sul tavolo mette 23,2 milioni cash, 10,5 milioni di prestazioni bancarie e […] quella linea di credito da 180 milioni, una parte dei 220 chiesti nel primo bando andato deserto». Assai indicativo il fatto che all’epoca a guidare la Compagnia San Paolo, de facto la Fondazione che gestisce il pacchetto azionario di maggioranza della banca, sia Sergio Chiamparino, uno tra gli esponenti di maggiore spicco del Partito Democratico; restituendo di conseguenza l’ennesima immagine di un settore pubblico e di un settore privato ove la differenza d’interessi diventa talmente sovrapponibile da essere rappresentata dalla medesima persona.
Nutrire il pianeta? Di nutrimento si tratta sicuramente, ma sul beneficiario è lecito serbare qualche sospetto; tanto più se si tiene in mente quanto scriveva Greg Clark su un volume pubblicato solo pochi anni orsono («Cosa succede in città. Olimpiadi, Expo e grandi eventi: occasioni per lo sviluppo urbano», edito dal «Sole 24Ore», pagg.54-55): «Non ripeteremo mai abbastanza quanto sia importante sfruttare l’organizzazione di un evento come catalizzatore per programmi di sviluppo o di riqualificazioni esistenti».
Expo, quindi, come pretesto per proporre un nuovo (anche se tanto nuovo non sembra) modello di sviluppo. Basta questa frase per comprendere, e non solo dal punto di vista della speculazione ambientale, una delle anime fondanti dell’evento. A proposito, sapete da chi è firmata la prefazione del libro di Clark? Da Sergio Chiamparino.