martedì 16 dicembre 2014

Mafie in bagna cauda





La conseguenza più nefasta dell’assenza di autorevoli poteri strutturati, e di conseguenza della distanza sempre più siderale tra la cittadinanza e l’ordine legale si concretizza nel fenomeno del crimine organizzato, tanto più forte dove e quando sono più forti i sentimenti anti-istituzionali, anti-statali e anti-legalitari. Più vivo che mai, quindi, nei periodi di crisi economica e di sfiducia collettiva; e più vivo nelle aree dove il senso civico è storicamente più limitato, il Mezzogiorno in particolar modo. Ciò non toglie, comunque, che la portata del fenomeno mafioso raggiunga apici sbalorditivi lungo tutto l’asse della Penisola. Alcuni dati possono aiutare nella comprensione di questa vastità: la rivista «Fortune» stima un giro d’affari assimilabile a quello della Apple e della Bank of China sommate tra loro, con un guadagno netto di 104 miliardi nel solo 2011. Sos Impresa si spinge oltre, denunciando un business annuo oscillante intorno ai 138 miliardi (la General Motors gli fa un baffo) mentre gli economisti Michele Bagella e Francesco Busato sono giunti alla conclusione che il solo riciclaggio di denaro sporco abbia un valore di 200 miliardi, circa il 12% del Pil.
La vecchia immagine del mafioso con la coppola in testa e la lupara sulle spalle appartiene tutt’al più a qualche foto sbiadita e a qualche cimelio cinematografico. La realtà attuale del fenomeno mafioso è ben più camaleontica, trasversale, omertosa e onnipresente. Non conosce limiti né geografici, né affaristici nella sua spietata attività. Si serve della politica e la adopera a suo uso e consumo. Si serve della finanza e nel contempo la manovra a piacimento. E non da oggi. Già nell’estate del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi giorni prima di finire crivellato sotto i colpi di una mitragliatrice, affermò nel corso di un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca: «La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha grossi investimenti edilizi, commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere…». Si parlava già allora di «maggiori città italiane», senza troppe distinzioni tra le varie collocazioni geografiche. Di conferme in tal senso ne abbiamo, purtroppo, quasi tutti i giorni. Sperando di non urtare la sensibilità del governatore lombardo Bobo Maroni, è indicativo l’ascolto di alcune intercettazioni di membri della ‘ndrangheta (i «locali» non sono altro che le «succursali» del nucleo centrale operante in Calabria): «Siamo 500 uomini, Cecè, non siamo uno…Cecè, vedi che siamo 500 uomini qua in Lombardia, sono 20 locali aperti…». Secondo la relazione dell’Antimafia di «sedi» nella regione meneghina ce ne sono non meno di 26, tutte dotate «di autonomia affaristica, ovviamente su basi illegali e retti ognuno da un referente principale». Un’autonomia che arriva però soltanto fino a un certo punto e che bisogna inserire in un sistema a ragnatela di notevole complessità. In ogni caso, l’apertura di questi «sportelli» è sempre motivo d’orgoglio, tant’è vero che si svolse addirittura un brindisi (filmato da una videocamera nascosta) nella città della Madonnina a cui presero parte alcuni boss di primo piano della ‘ndrangheta lombarda con «alle loro spalle», secondo le parole del «Corriere della Sera», «una grande foto in bianco e nero» che «ritrae i giudici Falcone e Borsellino. Sono le 21.40 di sabato 31 ottobre 2009 a Paterno Dugano, hinterland di Milano. Nel circolo Arci intitolato ai magistrati trucidati da Cosa nostra, si svolge uno dei più importanti summit della ‘ndrangheta al Nord».
Bisognerà aspettare l’ottobre del 2013 prima di vedere lo scioglimento di un comune della Lombardia a causa delle contaminazioni mafiose. Si tratta di Sedriano, paese dove l’infiltrazione della ‘ndrangheta era così pressante da avere, secondo le accuse, fagocitato il gruppo Perego costruzioni, impresa dal respiro internazionale che costringerà la magistratura a vederci chiaro in ben 64 cantieri e, manco a dirlo, in molti appalti relativi all’Expo del prossimo anno. Solo il coraggio di una giovane giornalista, Ester Castano, ha permesso di scoperchiare questo vaso di Pandora. Altrimenti il sentimento prevalente è quello della più squallida omertà, testimoniata inequivocabilmente dal fatto che su 27.000 operazioni sospette denunciate a Bankitalia nel corso del 2010 solo 223 sono arrivate da soggetti esterni alle banche. «Quando ho iniziato a lavorare e a prendere in mano le redini dell’impresa», confessa un impresario edile del milanese, «avevo ben presente che era opportuno non entrare mai in conflitto con le aziende dei Papalia e con le imprese della famiglia Barbaro perché mafiose. Come ho detto, questa è la ragione per cui non vado a lavorare in certe zone…»
«Il mondo delle libere professioni e il mondo dell’impresa o non percepiscono i rischi oppure non li vogliono segnalare», concluse amaramente l’allora presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu. E nella caparbia volontà di non voler segnalare non concorrono soltanto la paura o il rischio di infangare il buon nome della propria città. Come ha spiegato durante un’audizione al Parlamento il prefetto di Padova Ennio Mario Sodano: «Esiste una scarsa consapevolezza dei rischi di penetrazione della mafia nell’economia in ragione del fatto che gli imprenditori ritengono ingenuamente di potersi servire dei mafiosi» per risolvere i mille problemi che le attanagliano in questi anni, finché «finiscono per rimanerne vittime con la perdita del controllo delle aziende», spesso con esiti di pesante drammaticità (si pensi al suicidio di molti piccoli imprenditori). Emblematica la vicenda della Blue Call, call center di Cernusco sul Naviglio gestito da due soci con quasi novecento dipendenti e 14 milioni di fatturato. Nel pieno dell’attività, dovendo riscuotere un credito, ben lungi dall’affidarsi nelle mani dell’odiata struttura pubblica, i soci si rivolgono alla cosca del Bellocco di Rosarno. Il prezzo di questo «servizio» sarà salatissimo: l’azienda finisce nelle mani della ‘ndrangheta, con la perdita del lavoro da parte di seicento lavoratori. I commissari antimafia noteranno: «Sorprende il grado di superficialità che caratterizza la scelta dei due imprenditori, convinti di poter convivere con la ‘ndrangheta e di potersene, all’occorrenza, liberare, ripagando le quote e dandole il benservito» senza capire il reale proposito dell'organizzazione, la quale «al momento opportuno, lungi dall’abbandonare la compagine sociale, mostra il suo vero volto imponendo all’imprenditore, questa volta con i metodi propri dell’agire mafioso (pestaggi sanguinari e coltello puntato alla gola), la cessione del pacchetto di maggioranza delle quote societarie» utili alla ‘ndrangheta per usufruire dell’azienda come macchina per il riciclo di denaro sporco.
La situazione non è tanto migliore nelle altre regioni settentrionali: la Liguria, zona dove la presenza delle ‘ndrine ha una tradizione che risale addirittura al dopoguerra, viene descritta dall’Antimafia come «paradiso dove poter riciclare le ingenti ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere con sistematicità le più proficue attività di estorsione e usura, il tutto all’ombra del paravento legale offerto dal casinò di Sanremo». Ma anche il Piemonte, dove due consigli comunali sono stati sciolti per mafia nel corso del 2012 e dove sono stati scoperti otto «sportelli» della ‘ndrangheta. E che dire dell’Emilia-Romagna? I locali del gioco d’azzardo della Riviera romagnola a detta dei Ros sarebbero monopolio della camorra e Reggio Emilia sarebbe talmente infetta d’interessi della mafia calabrese da essere definita dallo studioso Enzo Ciconte «enclave in terra nemica». Poi c’è il Veneto. Per quest’ultimo caso suonano assai eloquenti le parole dell’affiliato al clan dei Casalesi Mario Crisci: «Abbiamo scelto di concentrare le nostre attività nel Nord-Est, in particolare a Padova, perché qui il tessuto economico non è così onesto. Il margine di guadagno era buono, perché la gente non ha voglia di pagare le tasse…Avevamo la disponibilità di commercialisti e notai compiacenti…» utili anche per superare il primo impatto con gli imprenditori «perché chiaramente», prosegue Crisci, «non sarebbe stato utile far vedere immediatamente la massa di meridionali con quelle facce; ci serviva ed era utile una persona del Nord-Est, che comunque parlava la lingua del cliente».
La cappa  criminale che avvolge e stritola il Paese da Vipiteno a Pantelleria conosce mille storie, mille intrecci, mille affari, mille sostegni e altrettante protezioni. Perché il «mondo di mezzo», in realtà, è un pianeta estremamente onnivoro e dotato, ahimé, di pochi ostacoli.

mercoledì 10 dicembre 2014

I Gramazio e il dilemma della classe dirigente



«Er pinguino», viene affettuosamente soprannominato Domenico Gramazio. Affiorato dal sottobosco paludoso del neofascismo romano e noto per la sua assidua familiarità con gli ambienti missini e finiani, viene lautamente ripagato di questa prestigiosa carriera con un’onorifica poltrona parlamentare alla quale «Er pinguino» rimarrà avvinghiato per quattro mandati parlamentari, due volte da deputato e due volte da senatore, per poi passare all’ancor più remunerativo incarico di consigliere regionale del Lazio. Qui s’insedia per tre mandati. Il tutto condito da una formidabile gavetta nei sindacati che lo porterà, da semplice dipendente dell’Inps, a raggiungere gli apici della Cisnal (quella che tutt’oggi viene chiamata Ugl).
Alla fine di questo faticoso peregrinare arriva finalmente la meritata (doppia) pensione: 4982 euro al mese di vitalizio in qualità di ex-parlamentare e 5895 euro al mese di vitalizio in qualità di ex-consigliere regionale, per un totale di 10877 euro mensili. Una parte della quale, possiamo starne certi, donerà quale lascito al figlio insieme alla poltrona che, come impone la tradizione di certi ambienti, è già stata ereditata nel 2013: Luca Gramazio, infatti, ricopre dal 2013 l’incarico di consigliere della Regione Lazio nel gruppo di Forza Italia. «Non percepirò il vitalizio», ammette sconsolato il giovine Gramazio, riferendosi alle disposizioni seguite agli scandali di Batman&co., «ma sono figlio del vitalizio. Sono stato meno fortunato». Una sfortuna destinata a perseguitarlo, considerato il suo coinvolgimento nello squallido putridume dell’inchiesta sulla criminalità mafiosa nella Capitale. Gramazio jr., ascoltato in varie intercettazioni, pare essere legato a doppio filo alla Cupola della sperimentata ditta Carminati-Buzzi in un traffico di mazzette finalizzato alla compromissione del regolare esito delle elezioni regionali. Il suo seggio, questa l’accusa, sarebbe il frutto di una vera e propria manomissione delle schede elettorali. Altro che popolo sovrano, limitandoci a questa vicenda si evince che l’organigramma della Regione Lazio non è altro che il figlio diretto dei desiderata ben sovvenzionati di un manipolo di terroristi neri, ex-picchiatori, cafoni, nefandi e magari pure con qualche mese di galera alle spalle. Talmente insinuati in un intrecciato gioco di favori e «ringraziamenti» da essere diventati essi stessi i burattinai non solo di una classe politica mediocre e succube compiacente, ma dell’intera gestione della cosa pubblica in una Regione come il Lazio e, ancora più agghiacciante, in una città come Roma, al tempo stesso capitale dell’Italia, capitale religiosa, città d’arte, metropoli e città più popolosa della penisola.
Le avventure della famiglia Gramazio non terminano però qui: coloro che possiedono una discreta memoria delle cronache politiche ricorderanno Domenico Gramazio come il senatore che nel gennaio 2008, festeggiando nell’Aula di Palazzo Madama la caduta del governo Prodi, stappò senza pudore una bottiglia di spumante brandendola in aria e barrendo a gran voce la sua euforia.
Le vicende di questa famiglia sembrano una perfetta metafora di tutti i difetti della classe dirigente italiana: l’avidità, il nepotismo (o il clientelismo, a seconda dei casi), l’asservimento verso ambigui «gruppi» di pressione, il disprezzo per la legalità e il dissapore verso i valori della democrazia parlamentare.
Se ascoltassimo le parole del cittadino della strada, basterebbe estirpare la gramigna infestante dell’attuale classe politica e i problemi del Paese si risolverebbero con uno schiocco di dita. Semplice, lineare, di un’elementarità imbarazzante: se la politica rappresenta il tumore cresciuto in un corpo sano come quello del nostro Paese, estraiamo il tumore e tutti gli organi dovrebbero ritornare forti e sani come ai bei tempi. L’antipolitica, in fin dei conti, non va molto oltre questo schema: superiamo tutte le strutture che possono in qualche modo rappresentare un impiccio per il compimento della «pulizia» (via i partiti, via il Parlamento, via lo Stato; si affidi il tutto ad una singola figura carismatica e si proceda ad avviare il liberismo più sfrenato) e i problemi si risolvono senza eccessive scosse e, soprattutto, senza provare a sfiorare i propri personali interessi.
Basterebbe un po’ di memoria storica per comprendere che è proprio l’assenza (e non l’eccessiva presenza) di una guida politica accreditata, strutturata e frutto di una formazione specializzata (come ha fatto notare Sabino Cassese in questi giorni: se non esistono dei partiti solidi e definiti, quale sarà la gavetta per i futuri esponenti della classe dirigente?) ad aver favorito l’insorgere dei peggiori mali della nostra società. Mali, questi, che non appartengono solo alla classe politica come se questa fosse infetta da una specie di pandemia che attacca solo coloro che raggiungono certe cariche: sono mali intrinseci ad una società che si è sempre ritrovata totalmente priva di punti d’appoggio legali e di conseguenza priva di un’autorità statale in grado di fornire un esempio di autorevolezza, autonomia e credibilità. La Chiesa Cattolica, l’unica autorità ad essere sempre stata presente in ogni angolo della penisola e in grado di condizionare con la forza della sua dottrina amplissimi strati della popolazione, ha abdicato dal suo ruolo educativo almeno dai tempi della Controriforma, epoca in cui le gerarchie ecclesiastiche hanno scelto coscientemente (e vergognosamente) di perseguire un indottrinamento fondato sull’esteriorità, sul simbolismo spiccio e sulla forma superficiale degli aspetti quotidiani al posto di dedicarsi a piantare i semi della cultura del rispetto reciproco, del benessere collettivo e della responsabilità nei confronti del mondo circostante.
La continua invocazione popolare (tanto comprensibile quanto contestabile) di una generalizzata minor presenza della politica, di un generalizzato minor intervento pubblico e di una generalizzata soppressione degli aspetti sia formali che sostanziali della vita istituzionale non sono la risposta agli attuali problemi socio-economici, ma ne rappresentano la causa primaria e scatenante. Le imperterrite richieste che arrivano dalla società, ben lungi dall’essere il diserbante dell’attuale classe dirigente, ne rappresentano il miglior concime per mantenerla robusta e in salute. Non dimentichiamo che la famiglia Gramazio proviene dalle fila di Forza Italia, una formazione politica nata esattamente per assecondare queste antiche pulsioni popolari. Cerchiamo di non ripetere l’errore: non affidiamo il nostro futuro nelle mani di formazioni politiche che ne seguono l’esempio.  

venerdì 5 dicembre 2014

Beppegrillo.it e la lotta all'ultimo click



Massimo Artini, l’ultimo in ordine di tempo tra i parlamentari pentastellati ad essere finito sul plotone d’esecuzione della Rete degli iscritti, ha descritto nel seguente modo l’ultimo approccio tentato col leader maximo Beppe Grillo: «Beppe ci ha detto che il movimento va bene così, portando come prova i contatti avuti sul sito. Io ho cercato di fargli capire che il successo di un progetto politico non si misura dai clic su Internet». Non sappiamo se il racconto sia veritiero, né se l’enfasi della rabbia abbia offuscato la memoria di questo giovane deputato, fatto sta che una dichiarazione del genere, se unita ad altri tasselli, contribuisce a rendere più chiaro il motivo di tante scelte e di tanti misteri che aleggiano attorno ai 5 Stelle: i click contano, contano molto. Perché molte visualizzazioni significano molta pubblicità per gli inserzionisti che imbottiscono il blog degli annunci più disparati. Più pubblicità significa più guadagno per gli inserzionisti stessi. E se gli inserzionisti hanno un ottimo ritorno il prezzo da pagare per godere di un posto ad ottima visibilità sulle piattaforme a 5 Stelle inizia a lievitare, a tutto guadagno della Casaleggio Associati, che di queste piattaforme ne rappresenta il dominus assoluto.
Fa quasi sorridere leggere le parole di Grillo (che fra l’altro ha già dei trascorsi nel campo della pubblicità) quando asserisce che «la Rete è francescana e anticapitalistica», oppure quando l’esperto di marketing digitale e suo compare Gianroberto Casaleggio si abbandona a frasi come: «Credo che Internet apra all’umanità per la prima volta l’era della partecipazione e della conoscenza. La democrazia diretta si diffonderà in futuro grazie all’aumento dell’informazione libera dovuto a Internet». Quanta ingenuità in affermazioni che paiono dimenticare la realtà di un pianeta dove, al contrario, i grandi padroni della Rete hanno offerto negli ultimi anni lo spettacolo del capitalismo più sfrenato e predatorio. Un pianeta dove, tanto per dare un’idea, i listini della borsa vedono Facebook valere il triplo della Philip Morris e Google valere sette volte più della Nike. Come si fa a vedere il francescanesimo e il baluardo della libertà in una Rete dove il vero obiettivo dei grossi papaveri del web è quello di captare ogni singolo esercizio della nostra vita quotidiana e di catturare ogni nostro desiderio al fine di piazzarci i messaggi commerciali più consoni a noi ma, soprattutto, più remunerativi per le imprese private? È vero, non si possono negare le infinite possibilità che offre la Rete in termini di confronto, divulgazione e scambio d’idee, ma sulle reali potenzialità di aggregazione e di informazione che lo strumento offre c’è ancora moltissimo lavoro da fare: per come stanno le cose adesso, secondo uno studio commissionato dalla Hewlett-Packard, il quoziente intellettivo di alcuni professionisti (professionisti!) distratti dal leggere una mail precipita del 10% (tanto per dare un’idea, la marijuana ottiene una diminuzione del 5%). Il giornalista Federico Mello ha descritto nel seguente modo cosa avviene alla nostra psicologia mentre siamo connessi: «Se siamo sempre impegnati a capire se sta arrivando una nuova notifica, se la gratificazione immediata di una nuova mail (non il suo contenuto, ma l’arrivo della mail stessa) ci distrae da un articolo interessante che stiamo leggendo, se i nostri occhi partono sempre a cercare informazioni che ci riguardano direttamente, vuol dire che nel solo fatto di navigare online la nostra memoria di lavoro è già in buona parte impegnata. Di conseguenza la nostra capacità di pensare quando siamo connessi risulta ridotta. Siamo deboli, insomma, sul web; con un cervello esposto e seminudo».
Un cervello distratto, «esposto e seminudo» pare davvero il requisito più odioso per chi desideri imbastire un autentico luogo di scambio o di coordinamento virtuale. Eppure la gran parte delle volte che navighiamo succede proprio questo: la capacità di concentrazione cala sensibilmente, la riflessione della lettura è in genere assai ridotta (Tony Haile, amministratore delegato di Chartbet, una delle più importanti aziende che produce contenuti per il web, ha stimato che la durata media del 55% degli utenti che accedono alle sue piattaforme è di appena 15 secondi, mentre «Socialmedia today» avverte che uno status con meno di 70 caratteri riceve in media un terzo in più di «mi piace» rispetto a uno più lungo di 141) e se la capacità d’analisi si assottiglia così tanto, i contenuti da cui si viene attratti sono quelli più frivoli, inconsistenti e focalizzati sulle sensazioni più immediate: rabbia, gioia, sgomento e poco altro ancora. Basta che provochi sentimenti «di pancia» ed eviti di far funzionare il cervello. Il «click-baiting» si basa proprio su questo: ottenere il maggior numero di visualizzazioni del proprio sito suscitando reazioni tanto viscerali quanto destinate a consumarsi nel giro di qualche istante, giusto il tempo di accorgersi quanto sia stato inutile aprire quel link. Agli strateghi del «click-baiting» (il cui giro d’affari è stimato attorno ai 200 milioni di dollari) importa poco altro. L'importante è che quel sito sia stato visualizzato, chi se ne frega se per cinque secondi o per cinque minuti.

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La Casaleggio Associati si occupa proprio di questo: lo scopo primario dell’azienda è esattamente quello di far attirare ai suoi clienti quanti più click possibili adoperando tutti i mezzi a disposizione e senza guardare in faccia a nessuno. Un esempio: quando si capì che il giornale «Il Fatto Quotidiano» poteva essere un progetto di buon successo, ci si pose il problema di dare vita a un sito web adeguato e inizialmente l’editoriale pensò proprio a Casaleggio per fargli risolvere la questione. Tutto andò a monte a causa del fatto che il manager pretendeva di decidere cosa andava pubblicato, come andava pubblicato e addirittura pretendeva che il sito web pubblicasse materiale prodotto da persone esterne alla redazione.
Un caso isolato? Niente affatto. Anche il sito web de L’Italia dei Valori venne gestito per un periodo di tempo da Casaleggio; la collaborazione s’interruppe sia per i problemi finanziari del partito, sia a causa dell’invadenza del manager. Un militante la racconta così: «Volevano decidere tutto loro. C’erano questi ragazzi dello staff che facevano e disponevano: cosa andava pubblicato, come, dove, quando. Di fatto era come se la linea del blog la decidessero loro».
Il caso più interessante è però un altro: la Casaleggio Associati nel 2011 aveva iniziato ad occuparsi del sito web della casa editrice Chiarelettere. Una piattaforma di questo tipo dovrebbe garantire prodotti di prima scelta e pregni di contenuto: è ovvio che i metodi demagogici e commerciali di Casaleggio sono i meno adatti e difatti, nonostante il successo di visualizzazioni, nel luglio 2013 avviene la rottura. Vanity Fair osserva come «nel mirino dei dirigenti Mauri Spagnol sono finite anche la gestione dei social network, ritenuta approssimativa, e la “bontà” dei pur numerosissimi accessi registrati dal portale cadoinpiedi.it [la piattaforma web di Chiarelettere, ndr]. Molte delle visite quotidiane a cadoinpiedi.it proverrebbero da link originati dal circuito beppegrillo.it. Gli articoli più visitati non sarebbero quelli a firma degli autori Chiarelettere, ma quelli scritti dai collaboratori della Casaleggio Associati e incentrati sul gossip».
Beppegrillo.it, il prodotto di punta della Casaleggio Associati, rappresenta l’esempio più eclatante di questo modo di fare comunicazione: brevi slogan di grande impatto emotivo e assolutamente carenti di contenuti di spessore. Tutto pare finalizzato ad attirare il massimo numero di visualizzazioni facendo guadagnare gli inserzionisti che quotidianamente imbottiscono il sito web dei più disparati banner pubblicitari.
È un caso che quando Grillo ha intrapreso ufficialmente la carriera politica ha imposto il suo sito web come unico punto di riferimento del nuovo movimento politico? Anzi, per essere precisi beppegrillo.it è divenuto esso stesso il movimento politico, comparendo addirittura nel simbolo ufficiale. Il non-statuto parla chiaro: il «“MoVimento 5 Stelle” è una “non Associazione”. Rappresenta una piattaforma e un veicolo di confronto e di consultazione che trae origine e trova il suo epicentro nel blog www.beppegrillo.it (…) La “Sede” del “MoVimento 5 Stelle” coincide con l’indirizzo web www.beppegrillo.it. I contatti con il MoVimento sono assicurati esclusivamente attraverso posta elettronica all’indirizzo MoVimento5stelle@beppegrillo.it». Più chiari di così non si può essere.
È assai interessante porre l’attenzione su un particolare sottodominio di beppegrillo.it, ossia «Tze-Tze», presenza fissa nella colonna destra (quella su cui casca subito l’occhio) del blog di Grillo. Si tratta di una sorta di giornale online, il cui scopo è «promuovere l’informazione indipendente in Rete svincolandosi dai mainstream media e pubblicare notizie in funzione dell’importanza attribuita dai loro utenti». Già il fatto che un giornale selezioni le notizie in base alla loro popolarità e non in base a dei precisi criteri d’importanza la dice lunga sul modo di Casaleggio di vedere il mondo dell’informazione, ma la cosa più sconcertante è il modo in cui sono redatti gli articoli. Oltre al fatto che i post sono soltanto finalizzati a fare propaganda in favore dei 5 Stelle (altro che «informazione indipendente»!), la piattaforma si distingue per il pietoso modo di erogare notizie (non a caso a breve finirà a giudizio per diffamazione).
Un post, ad esempio, afferma in pompa magna: «Di Maio asfalta il deputato Pd in diretta. Luigi Di Maio ridicolizza il deputato Pd Matteo Richetti. Guarda il video…». Si apre diligentemente il video (con pubblicità annessa) e si scopre una serie di frammenti di un dibattito dove i due deputati si affrontano in maniera molto pacata.
Un altro articolo titola: «Vergognoso attacco al M5S. Ecco cosa ha detto Laura Boldrini…Vergognoso! La Boldrini viene intervistata. Quello che state per leggere è sconcertante, ecco cosa ha detto». Apri diligentemente il link e scopri alcuni stralci di un’intervista in cui il momento più polemico del confronto è quando la Boldrini afferma che il 5 Stelle «poteva dare un apporto determinante per il cambiamento e invece non l’ha fatto». Non so voi, ma temo che il «vergognoso attacco» lo veda solo Casaleggio.
Oppure: «La rivelazione della Lorenzin in diretta. Sconcertante. Ecco cos’è successo alle elezioni europee». Clicchi sopra e vedi il ministro della Salute affermare che «la mia è una candidatura di servizio».
Un’altra volta il titolo è: «Ultim’ora- denunciato Matteo Renzi: clicca qui». Clicchi diligentemente e scopri che il Codacons ha annunciato l’intenzione di avanzare un esposto alla Corte dei Conti nei confronti del premier. Da qui ad affermare che Renzi è stato «denunciato» di acqua ne scorre.
Ancora: «L’onorevole vuota il sacco in diretta tv. Una confessione sconcertante. Guardate cos’è successo» promette il titolo di un articolo dove si riprende la seguente dichiarazione di Andrea Romano (Scelta Civica): «Prima di entrare in Parlamento io lavoravo».
Passare dai titoli mirabolanti alle bufale vere e proprie il passo è breve: grazie a «Tze-Tze» scopriamo che un vasaio indiano possiede un frigorifero che «funziona senza corrente», scopriamo che per «distruggere le cellule tumorali» la soluzione è data da «iniezioni di sale» e arriviamo nientemeno a sapere che il succo di melograno è «l’alimento che combatte il cancro».
Un metodo spudoratamente finalizzato solo e soltanto ad ottenere click (spesso mettendo in anteprima immagini sessiste). Una vera e propria truffa nei confronti del lettore. Un modo di agire adoperato anche da Grillo stesso; qualche mese fa egli stesso scriveva su Facebook: «Dati truccati! L’hanno fatto veramente! È una cosa assurda: clicca qui. Ci prendono in giro» con tanto di foto dell’allora premier Letta insieme al ministro Saccomanni. Apri il link e ti ritrovi un articolo del blog in cui s’informa che la Commissione Europea utilizzerà nuovi parametri per calcolare il Pil. «Dati truccati»? «Cosa assurda»? Ma quando mai. Questo è un puro e semplice raggiro per garantire visualizzazioni e far guadagnare gli inserzionisti. La domanda sorge spontanea: sono questi gli avamposti di conoscenza e partecipazione via web di cui parla Casaleggio? Spero proprio di no.

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Grillo ha cercato più volte di smentire che il suo blog abbia finalità d’interesse economico e per tal motivo ha più volte evidenziato come il fatturato della Casaleggio Associati non sia molto elevato (anzi, nel 2011 era addirittura in perdita).
Peccato che il comico si dimentichi di spiegare che il valore delle aziende digitali non dipende dal fatturato. Twitter, ad esempio, nel 2012 aveva un passivo di 79 milioni di dollari; l’anno successivo entrò in borsa e venne valutato 31 miliardi di dollari.
Sapete quanto fatturato ottiene Instagram? Zero virgola zero. Eppure nel 2012 il popolare social network di foto venne acquistato da Zuckerberg per la sbalorditiva cifra di un miliardo di dollari. Una pazzia? Un’ingenuità? Una truffa? Nient’affatto, si tratta semplicemente del modo in cui vengono valutate le aziende digitali, un modello economico che prende il nome di «zero revenue model» («modello a zero incassi») consistente nel principio che una start-up di recente nascita non viene valutata in base agli incassi, ma in base agli utenti che coinvolge. Gli incassi in genere sono molto lenti ad arrivare: anche Google e Facebook hanno vissuto per anni senza vedere il becco di un quattrino pensando solo ad incrementare il proprio traffico. Attualmente, comunque, beppegrillo.it non se la passa male: si pensi ad esempio che il blog è nella categoria top site degli AdSense di Google; ciò significa che gli inserzionisti devono pagare una cifra superiore alla norma per poter inserire il proprio banner pubblicitario su beppegrillo.it. E non è un caso che la Casaleggio Associati ha visto il suo fatturato raddoppiare nel corso del 2013: si è passati magicamente da 1,2 a 2 milioni di euro…