venerdì 10 luglio 2015

Gli intellettuali e il riflesso razzista contro la Grecia

Se Matteo Salvini se ne esce affermando che i profughi vengono alloggiati in hotel di lusso e si ritrovano vezzeggiati come rampolli di famiglie reali la reazione va dalla risata di commiserazione al disgusto verso chi alimenta senza scrupoli le ingenue paure di certe fasce sociali per incrementare applausi e consensi. Quando invece lo stesso impasto di razzismo, pregiudizio e ignoranza viene scaricato sui cittadini greci la reazione pare essere meno accorta.
Eppure gli slogan infarciti sono composti dai medesimi ingredienti, lo sfogo verso un branco disumanizzato di presunti nullafacenti mantenuti a spese del Nord operoso riprende anche a livello lessicale gli stessi refrain che sgorgano dai raduni di Pontida, con la differenza di un’inaudita acclamazione da parte di buona fetta degli apparati mediatico, politico e culturale i quali, lo si può affermare con quasi certezza, con la vicenda greca iniziano l’opera di raschiamento di un fondo del barile che sembrava già essere stato toccato da tempo.
Nell’autentica opera di diffamazione a cui viene sottoposto il popolo greco emergono con particolare fragore vari elementi che caratterizzano il dissesto di un certo modo di fare politica e di fare opinione che non possono soltanto essere racchiusi nel servilismo, pur presente, verso determinate linee editoriali o interessi da salvaguardare per mantenere il proprio spicchio di ribalta.
Riguarda la demagogia, specie da parte di certi «intellettuali» e opinion makers, che pur proseguendo a condizionare le classi politiche hanno definitivamente abdicato al loro ruolo di guide autorevoli e informate dei cittadini per trasformarsi, passando all’estremo opposto, in schiavi del sentire comune, in traduttori su carta e su schermo delle pulsioni di pancia, in accreditanti delle voci uscite dai bar domenicali. Una deriva intuibile in un Paese in cui lo sfaldamento di tutte le strutture di partecipazione e tradizione hanno lasciato totale campo aperto alle regole di mercato: che si tratti dei leader politici o dei sedicenti uomini di cultura, l’inseguimento di un «cliente» peraltro sempre più restio a pratiche di lettura e informazione si svolge senza esclusione di colpi. Ogni mezzo è lecito se, per esempio, dalla sola vendita di copie dipende la propria sopravvivenza economica. E se l’obiettivo è raggiungere un successo di massa è fortemente controproducente esprimersi con serietà (ormai tra i giornalisti, specie nell’attività sui social network, seminare spiritosaggine è divenuto lo scopo primario) e con completezza su argomenti di particolare tortuosità come le speculazioni della finanza globale nella vita di tutti i giorni.



Molto più facile riempire pagine per affermare che il debito pubblico è causato da pingui dipendenti pubblici che passato le mattinate a bivaccare piuttosto che spiegare i contorti meccanismi di una finanza che presta una montagna di denaro fittizio a nazioni democraticamente deboli al fine di condurre astruse speculazioni impacchettando, spacchettando, vendendo e ricomprando su chissà quale «piazza» il debito stesso contratto dagli Stati, nel frattempo costringendo questi ultimi ad un pesante salasso (che a sua volta non casualmente produce altro debito) causato dall’esosità dei tassi d’interesse applicati arbitrariamente sui titoli (attualmente il bilancio di Grecia e Italia, senza questi interessi, avrebbe il segno più; ma non diciamolo troppo forte).
Molto più facile inventare di sana pianta numeri sull’età media pensionabile dei greci (cinquant’anni, cinquantatre, cinquantasette; ogni giorno da questa ripugnante tombola della menzogna sbuca un nuovo numero), in totale spregio degli studi Eurostat secondo cui attualmente non solo il paese mediterraneo si colloca su questo versante nella media europea, ma proporzionalmente la Germania spende di pensioni quattro volte tanto.
Molto facile dimenticare di affrontare quanto pesanti, ingiuste e antidemocratiche siano state le vessazioni della cosiddetta Trojka sul popolo greco negli ultimi cinque anni e per converso risulta di gran lunga più semplice scaricare le colpe su un ministro col vizio di girare in motorino (con casco o senza casco? Il livello delle disquisizioni macroeconomiche di certi giornali si ferma qui).
Molto più facile indicare come via d’uscita dalla recessione una formula magica di pronto effetto: «riforme». Eppure è proprio la Grecia a dimostrare come il Paese che ha fatto più «riforme» tra quelli della zona euro (lo dice l’Ocse) non solo non ha visto l’economia ripartire ma ha visto un brusco innalzamento del debito.
Troppo complicato spiegare che se attualmente la stabilità economica della Grecia dipende dagli altri Stati europei ciò lo si deve ad una vera e propria partita di giro tale per cui le banche, specie tedesche e francesi, per non fallire hanno scaricato sui contribuenti europei il frutto malato della propria spietata speculazione (privatizza gli utili e socializza le perdite è un mantra che trova nel contesto greco un inoppugnabile conferma).
Ma, soprattutto, l’operazione più semplice è raccontare la favoletta secondo cui dobbiamo tutti aver paura di questo pericoloso sovversivo ateniese. Dobbiamo terrorizzarci e unirci saldamente alle forze di governo di fronte all’incubo di forze politiche estranee agli assetti politici attuali (del resto Le Pen e Tsipras più o meno sono la stessa cosa, come ha affermato il mese scorso Enrico Letta in un’intervista a «Der Spiegel»).
Perché Tsipras è un Belzebù ambulante su cui è legittimo sfogare accuse di ogni tipo. Da Sergio Rizzo che sull’editoriale del «Corriere» del 9 luglio pare accusarlo di tutti i guai del continente (dopo una sequela di colpe europee, dallo sbattere «la porta in faccia a un migliaio di rifugiati» a soffocare i cittadini di «regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile» a «un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto», la domanda retorica a cui segue questo elenco è: «Tsipras ci pensa?») ad un improbabile scrittore greco, tale Doxiadis, che sulle colonne dello stesso quotidiano tiene una specie di diario ove si dichiara pronto a tutto pur di cacciare il tirannico governo in difesa della democraticissima Trojka («Da studente ho lottato contro la giunta dei Colonnelli, e sono pronto a scendere in piazza ancora una volta, da padre di famiglia di mezza età, per combattere un nuovo golpe, se sarà necessario», scrive sull’edizione del 4 luglio). Un’accusa, quella di antidemocraticità, che ritorna spesso anche a dispetto dei palesi dati di fatto non solo di un referendum ma anche della totale assenza di legittimazione popolare delle misure oppressive imposte dalle istituzioni europee.
Ci prova il comico-leader di To Potami, piccola formazione greca, che in un’intervista al «Corriere» dell’8 luglio blatera sul «tipo di democrazia controllata» che «piace moltissimo» agli uomini del governo greco, aggiungendo inoltre come essi siano «autocratici» e di credere, udite udite!, «di dover applicare le loro idee a forza». E prima di lui ci aveva pensato il tal economista Baverez secondo cui, in un colloquio pubblicato sul «Corriere della Sera» del primo luglio, «Atene si è allontanata dalla ragione, cioè da Pericle, per andare verso la follia della demagogia e la fine della democrazia, cioè Alcibiade».
Sarebbe troppo complesso analizzare le ricadute sugli assetti democratici dei dogmi ideologici che professano la totale concentrazione di ricchezza nelle mani di un manipolo d’istituti finanziari senza scrupoli; basti dire che gli studiosi più accorti e indipendenti non esitano a parlare di «Colpo di Stato di banche e governi» (questo il titolo di un recente volume del sociologo Luciano Gallino), di «Deux traités pour un coup d’État européen» (Raoul Marc Jennar su «Le Monde diplomatique» del giugno 2012), di «Financial Coup d’État in Europe. Government by the Banks for the Banks» (reperibile qui) oppure, più indirettamente, di «Crisi rinviata del capitalismo democratico» (ottimo libro di Wolfgang Streeck stampato nel 2013).
E difatti i veri antidemocratici populisti non sono Tsipras e la sua coraggiosa squadra. Ad abbandonarsi alla più squallida propaganda contro la democrazia stuzzicando la pancia dell’elettorato sono stati i circuiti mediatici, di cui un pezzo apparso sullo «Spiegel on line» a firma di Roland Nelles ne rappresenta l’apice in termini di chiarezza: «Se qualcuno aveva ancora bisogno di una prova di quanto siano pericolosi i pronunciamenti popolari è servito. La Grecia mostra una volta di più che i referendum, ossia la registrazione contingente della volontà popolare, non producono automaticamente i migliori risultati».
Questo è il vero populismo che incombe.

Nessun commento:

Posta un commento