giovedì 10 marzo 2016

La svolta del sultano

Anno 2013. In occasione del G20 di San Pietroburgo il dominus turco Erdoğan chiede al dominus russo Putin di mettere una buona parola nelle trattative per far accedere Ankara al Gruppo di Shanghai, non prima però di aver chiesto alla compagnia cinese Cpmiec – sottoposta a sanzioni statunitensi – la costruzione del suo primo sistema di difesa antimissilistico a lungo raggio. La scelta di campo appare palese, e l’ostilità reciproca con la Casa Bianca pare suggellare la definitiva collocazione di Ankara nell’asse Russia-Cina-Iran.
La bandiera turca
 Nel giro di qualche anno il permanere della diffidenza con gli Usa non riesce però a nascondere un quadro che appare notevolmente mutato: ad esempio in occasione di un altro G20, quello di Antalya, la Turchia pensa bene di arrivare al meeting con la notizia fresca dell’annullamento del contratto con le compagnie cinesi sul sistema antimissilistico che tanto aveva scosso i partner della Nato. Nello stesso torno di tempo e nel medesimo contesto si collocano la concessione agli Stati Uniti della – corteggiata da tempo – base aerea di İncirlik, i tentativi di legittimazione agli occhi della stessa Nato, un’imbarazzante visita in Turchia di un Angela Merkel col cappello in mano, la riscossione di tre miliardi di euro generosamente elargiti dalla Ue al fine di trattenere i profughi siriani dall’attraversamento del mar Egeo, un alleggerimento del sistema dei visti per i cittadini turchi nel contesto comunitario, la ripresa dei colloqui per entrare nel novero dei paesi membri dell’Unione Europea e quotidianamente nuovi esosi tentativi di scambi (estremamente vantaggiosi per Ankara) con vari organismi occidentali.

Specialmente a partire dalle non trionfali elezioni legislative dello scorso sette giugno, pare insomma che il sultano turco intenda con accanita tenacia legarsi al campo occidentale, costringendo i riluttanti partner di tale schieramento ad assecondare le sue smanie imperialistiche e i suoi calcoli elettorali interni.
A fronte di una deludente gestione delle pratiche mediorientali che gli ha alienato peraltro buona parte del consenso del mondo arabo non meno che di quello occidentale  (secondo la Fondazione turca per gli studi economici e sociali, tra il 2011 e il 2013 i cittadini mediorientali sostenitori della politica turca sono passati dal 56 al 37%) e dopo aver incassato lo smacco di trovarsi i suoi fedeli servitori - specie della Fratellanza musulmana - perseguitati in Egitto, male armati in Libia e incapaci di spodestare al-Asad in Siria, per la Turchia inserirsi forzosamente nel campo occidentale pare essere la strada più redditizia sia dal punto di vista del consenso interno, sia dal punto di vista del perseguimento dei suoi scopi geopolitici, primo fra tutti poter bombardare con disinvoltura le forze curde al fine di esercitare un controllo sempre più efficace su fette consistenti del territorio siriano.
Una politica che può implementarsi senza troppi intoppi per la consapevolezza di trovarsi in una posizione di forza.

Il presidente turco e il presidente russo


Anzitutto la strategia del mantenimento del caos mediorientale perseguita da Obama costringe quest’ultimo a trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco di evitare che lo Stato Islamico assuma una posizione troppo rilevante nello scacchiere mediorientale. Vista l’assoluta volontà della Casa Bianca di non spedire soldati a stelle e strisce nelle sabbie mobili mediorientali, la necessità di milizie sunnite sul campo si fa sempre più impellente per Washington, spingendo la Turchia a offrirsi come indispensabile alleato nell’operazione. Ben sapendo che le milizie curde disturbano il sonno dei dirigenti di Ankara molto di più di quanto facciano gli spietati jihadisti del Califfato, gli Usa sono
inizialmente propensi a temporeggiare di fronte a questa richiesta, prediligendo magari le stesse – più efficaci – forze curde come partner principale nell’opera di contenimento dello Stato Islamico.
I turchi dapprima impongono la propria collaborazione offrendo la base aerea di İncirlik, ma di fronte alla scusa addotta dalle forze occidentali secondo cui gli stretti rapporti di vicinanza con Mosca impediscono ad Ankara di ritenersi un alleato a pieno titolo dell’Occidente, ecco giungere la clamorosa sortita dell’abbattimento di un aereo militare del Cremlino. Con la consueta arroganza e l’abituale enfasi tracotante, la Turchia dimostra con plateale evidenza la propria fedeltà al campo occidentale, spazzando via con un colpo quasi teatrale ogni recalcitranza alla collaborazione da parte soprattutto degli Usa, ottenendo la rottura tra Washington e i combattenti curdi soprattutto dello Ypg e causando il repentino cambio di approccio di una Washington fino a qualche giorno prima considerata da Ankara troppo condiscendente nei riguardi delle operazioni russe in Siria (viste come una minaccia esistenziale per l’influenza turca nella regione).

Schema riguardo l'abbattimento del Su-24 russo da parte delle forze turche, dall'archivio del Corriere della Sera


Con un gesto tanto clamoroso quanto semplice, gli Usa sono costretti obtorto collo a vedere la Turchia come partner essenziale, chiudendo ambedue gli occhi di fronte alla disinvolta politica autoritaria (e smaccatamente anti-curda) condotta da Erdoğan e adottando una postura più dura nei confronti del dittatore siriano al-Asad.
Il jet russo abbattuto
Ma il sultano ha anche un’altra arma a disposizione da scagliare contro l’Unione Europea al fine di piegare quest’ultima ai desiderata di Ankara: una massa biblica di profughi bramosi di varcare la porta del Vecchio Continente.
Con l’inconsapevole complicità di una Germania che nel corso del solo 2015 ha accolto al proprio interno qualcosa come 1,1 milioni di profughi, la Turchia ha ben capito che l’azzardo morale di scaricare sull’Europa la massa in fuga rappresenta un formidabile strumento di pressione per spingere le istituzioni comunitarie (disposte a tutto pur di evitare una situazione di caos sul proprio territorio) a ingoiare qualsiasi rospo. Come scriveva qualche mese fa il prof.Germano Dottori:

«Per convincerci ad abbandonare al-Asad al suo destino, agevolare il trionfo dell’islam politico in Medio Oriente e farci contribuire a una sistemazione della Siria corrispondente ai suoi desideri e alle sue ambizioni, Erdoğan potrebbe aver scelto di emulare le vecchie pratiche del Colonnello Gheddafi, lasciando che ai nemici profughi siriani [in quanto curdi, ndr.] diretti a Lesbo o a Kos si aggiungano altre persone non gratae, come gli afghani e i pakistani […].
Il dato è questo: l’Europa si è trovata all’improvviso stretta in una tenaglia, controllata a un estremo dai turchi, che vogliono la testa di al-Asad» avendo «a disposizione masse di disperati con i quali gettarci nel caos».


Di fronte a queste azioni disgustosamente spregiudicate, la linea adottata dal Paese traino dell’Europa (manco a dirlo la Germania) pare essere quella di piegarsi al ricatto di Ankara conferendo anzitutto a quest’ultima denaro sonante e ricercando una difficile solidarietà europea nella distribuzione dei disperati. Nella speranza che il canto di alcune sirene nord-europee secondo cui sarebbe legittimo trasformare le nazioni mediterranee in giganteschi campi profughi (alla stregua di quanto avveniva con la Libia di Gheddafi) rimanga soltanto un'irricevibile boutade.

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