domenica 3 agosto 2014

I falsi miti sulla spesa pubblica

La totale assenza di un reale e concreto progetto per rilanciare l’economia da parte del governo sta in questi giorni portando le sue prime conseguenze: l’Italia continua ad annaspare, il prestigioso commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli è in procinto di prendere il largo, l’Europa e gli investitori internazionali guardano il nostro Paese con crescente scetticismo. La fragilissima ripresa che si intravedeva, dovuta a motivi internazionali (scarsa affidabilità delle economie emergenti e conseguente ritorno degli investitori nel Vecchio Continente), va consumandosi senza che nessuno l’abbia agguantata per trasformarla in una crescita duratura. L’unico aspetto economicamente positivo per l’Italia è la stabilità del governo, ma esso da solo rappresenta soltanto il fondamento sul quale costruire l’edificio delle riforme: è chiaro che le fondamenta diventano inutili e ininfluenti se nessuno ci costruisce sopra qualcosa.
Una delle priorità di Matteo Renzi doveva essere quella di redigere un serio, concreto, articolato e approfondito programma economico, dalla riforma della giustizia alla riforma del mercato del lavoro: avrebbe avuto notevolmente più credibilità di fronte alle istituzioni europee, avrebbe creato meno ambiguità e malintesi con i gruppi parlamentari e avrebbe dato un volto e un’identità (tuttora latitante) al suo partito. Invece ha preferito rifugiarsi nella superficialità, nell’hashtag, nello slogan, nella frase ad effetto, nel detto e non detto e nella facile promessa generica: questa carenza di contenuti gli ha garantito un invidiabile consenso sia tra i cittadini che tra i «pezzi grossi», ma evidentemente la politica (soprattutto in queste circostanze) non la si fa con l’esibizionismo mediatico. Ha sentenziato molte cose giuste, ha sicuramente superato molti tabù della politica e del suo partito in particolar modo, ma è tutto rimasto sulla superficie e si è consumato nel giro di qualche minuto, giusto il tempo di un retweet; una superficialità a dir poco deleteria in un Paese dove, al contrario, la primaria necessità è quella di dare vita a riforme profonde e di lungo termine.
Il caso di Cottarelli è emblematico in tal senso: l’irrinunciabile revisione della spesa pubblica rischia di diventare un inutile esercizio se dietro questa revisione non c’è alcun progetto che chiarisca come e in che misura sarà utilizzato il denaro recuperato. Il rischio è quello che i fondi trovati con grande fatica da Cottarelli vengano sperperati in decine di micro-progetti tanto utili alla propaganda quanto inutili per far ripartire l’economia nazionale: tanto vale rinunciare, ha giustamente pensato il commissario. Come se non bastasse, molti capitoli di spesa sviscerati da Cottarelli vengono beatamente snobbati o considerati dei talismani intoccabili (si pensi al dossier sui costi della politica, stranamente tenuto ben nascosto in un cassetto).
La gestione della spesa pubblica invece dovrebbe meritare un’attenzione particolare in quanto è da lì che deve partire la crescita dell’Italia. Gran parte degli opinionisti dei principali quotidiani internazionali diffonde il teorema che le nazioni mediterranee abbiano una spesa pubblica abnorme, fuori controllo e colpevole di aver portato il debito pubblico a livelli esorbitanti, con la recessione che n’è seguita. La conclusione che ne traggono è che lo Stato nell’economia può solo essere un intralcio per lo sviluppo dell’iniziativa privata, può essere solo foriero di corruzione e incompetenza. Si auspica quindi che lo Stato si faccia da parte lasciando che il mercato proliferi e si sviluppi senza eccessive regole e pedanterie da parte dei governi.
Un po’ di verità, inutile nasconderci dietro un dito, esiste: la legislazione italiana sembra studiata apposta per impedire ad un imprenditore onesto di poter competere e ottenere profitto senza rubare e senza scendere a patti con il mondo della politica. Lo Stato appare sempre più spesso come un lupo affamato, pronto a fare carne da macello verso chiunque occupi il suo territorio: il giurista Sabino Cassese ha stimato che in Italia siano presenti 150mila leggi pronte a regolare (quasi) ogni aspetto della nostra esistenza contro le 10mila di Germania e Francia; se vuoi aprire una bottega devi adempiere 118 procedure, e se sei riuscito ad aprirla devi perdere 269 ore annue per pagare una lunga sequela di tasse che arrivano a divorare il 65,8% dei profitti (e guai a sbagliare: ci si può ritrovare con i beni sequestrati e un tasso d’interesse spesso calcolato in modo sbagliato). E guai a incappare in qualche guaio: se vuoi recuperare un credito devi attendere la giustizia italiana qualcosa come 1210 giorni. E guai a fare credito verso lo Stato: bisogna penare mediamente 450 giorni per vedersi ritornati i propri soldi. Tutto ciò avviene mentre lo stesso Stato si impegna a mantenere municipalizzate, fondazioni e aziende pubbliche la cui esistenza troppo spesso serve soltanto per piazzare parenti e amici della classe dirigente nazionale.
Stanti questi presupposti, dicevamo, molti economisti ed opinionisti ritengono che la cosa migliore sia ridurre la spesa pubblica, ridurre la presenza dello Stato nell’economia in modo da ridurre il debito pubblico e lasciare che l’imprenditoria sia libera di confrontarsi con il mercato. Ci si concentra spasmodicamente sul debito ricordando che l’Italia (dati di febbraio forniti da Eurostat, espressi in milioni) ha la bellezza di 2.068.722 di euro di debito pubblico, ma nessuno ricorda che la più efficiente economia del nostro continente, quella tedesca, ha un debito pubblico (sempre in milioni) di 2.126.832 euro.
Evidentemente non è la quota di debito quella che fa dell’Italia un Paese disastrato, quanto il rapporto debito/Pil che in Germania è del 78,4% mentre in Italia sfiora il 133%. Di conseguenza, non è il debito troppo alto, ma è il Pil troppo basso il fattore che non fa crescere l’Italia. E per far aumentare il Pil tagliare la spesa pubblica senza fare nuovi investimenti è (ci si arriva anche con la logica) la ricetta più nefasta. Questa crisi ha dimostrato inequivocabilmente il fallimento di questa ricetta: mentre l’Europa fautrice di tagli alla spesa è ancora immersa nella palude della crisi economica, gli Stati Uniti (culla della stessa crisi) nel 2013 hanno visto un +4,1% del Pil e i profitti delle imprese sono i più alti dal dopoguerra. In che modo si sono ottenuti questi risultati lo ha spiegato bene Federico Rampini: «Il presidente ottenne dal Congresso (quando ancora aveva la maggioranza assoluta) una corposa manovra di investimenti pubblici anti-recessione. Lasciò che il rapporto deficit/Pil salisse quasi al 12%, il triplo del limite massimo consentito nell’eurozona». Insomma, per rispondere all’opprimente crisi economica (crisi economica scaturita dal settore privato, e non dal settore pubblico come talvolta si vorrebbe far credere) si è deciso di spendere di più e con razionalità.
Investire massicciamente nell’istruzione, in ricerca e sviluppo, nelle tecnologie emergenti dove gli investitori privati non hanno né la voglia né il senso del rischio per investire significa dare vita a una crescita sana, robusta e duratura. Quasi tutte le tecnologie che ora assicurano miliardi di introiti alle aziende private (Internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi dei motori di ricerca, l’applicazione Siri, ma anche le principali scoperte del settore farmaceutico e le più importanti intuizioni nel settore delle energie pulite) esistono quasi esclusivamente grazie a consistenti finanziamenti pubblici erogati negli anni trascorsi.
Non è quindi la quota di debito pubblico a rendere un’economia pubblica competitiva e in crescita, quanto il modo in cui spende i suoi quattrini. L’Italia, ad esempio (secondo il Times Higher Education), ha 4,10 ricercatori ogni mille lavoratori mentre la Germania ne ha 7,74 e la Francia 8,87, senza contare l’abissale differenza di trattamento economico. Solo una coincidenza? Guardate il grafico qua sotto (riprodotto nel volume «Lo stato innovatore» di Mariana Mazzucato)

È un caso che le economie più floride siano quelle che spendono più denaro pubblico in ricerca e sviluppo mentre quelle più tartassate siano quelle che fanno meno finanziamenti di questo tipo?
Occorre uno Stato che inizi a investire nei settori rischiosi, innovativi, ma tali da garantire nel corso degli anni un notevole guadagno per tutti e una notevole competitività internazionale, favorendo nel contempo un settore privato onesto e non eccessivamente divorato da tasse e burocrazia.
Insomma, è necessaria una notevole, coraggiosa ed impegnativa revisione del rapporto tra lo Stato italiano e l’economia di mercato, anche a costo di produrre del debito (del resto, quale successo economico della storia mondiale è avvenuto senza contrarre del debito?). Un progetto che, in un Paese amministrato seriamente, renderebbe insonni i governanti.

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