sabato 9 agosto 2014

Sotto questo sole



In un’estate piovosa come non capitava da decenni a questa parte, affrontare un tema come l’energia solare può sembrare come minimo fuori luogo. Eppure ci tocca farlo, non fosse altro che per l’informazione distorta diffusa in molti canali d’informazione riguardo alcuni recenti provvedimenti governativi in materia. La vicenda in poche parole è questa: nel decreto Competitività il governo (pur di ridurre il costo della bolletta energetica per famiglie e piccole imprese) ha deciso di allungare il tempo di rimborso degli incentivi alle energie rinnovabili da 20 a 24 anni. Un piccolo passetto a scapito dei produttori di energia solare che ha sollevato il prevedibile pandemonio: banche, poteri forti, lobby del fotovoltaico (anche il «Wall Street Journal» si è scagliato contro il provvedimento), ambientalisti duri e puri, ecologisti da salotto, barricaderi dei social network, grillini e figure di quella sinistra che ha trovato nella difesa miope dell’ecologia il suo punto di riferimento si sono tutti uniti per gridare alla «morte delle rinnovabili». Il problema in realtà andrebbe spiegato con maggiore cura, partendo da lontano.
Siamo nel 1999, al governo c’è Massimo D’Alema e l’Italia decide di dar vita all’ambizioso progetto «20-20-20» (poi adottato dall’intera Unione Europea), il quale prevede che entro il 2020 il 20% dell’energia debba arrivare da fonti rinnovabili. Un piano sicuramente partito con le migliori intenzioni per risolvere il dilemma titanico dei cambiamenti climatici.
C’è però un problema: il denaro erogato ai produttori di energia pulita (per lo più solare) proviene dalle bollette energetiche di famiglie e imprese. Con l’andar del tempo questo torrente di denaro finisce per diventare un fiume in piena: i grossi speculatori del fotovoltaico si ingozzano a dismisura dei quattrini provenienti da bollette energetiche che di anno in anno diventano sempre più pesanti per i cittadini (e non potrebbe essere altrimenti: un chilowattora ottenuto dal gas costa 7 centesimi, mentre un chilowattora ottenuto dal sole ne costa 35). In particolare la situazione inizia a precipitare alla fine del 2010 quando un emendamento (firmato da Filippo Bubbico del Pd ma appoggiato da tutti i partiti) infilato per chissà quale ragione nel decreto «salva-Alcoa» porta gli incentivi al fotovoltaico dai 900 milioni del 2010 ai 4 miliardi del 2011, destinati a diventare 6 miliardi nel 2012 per poi stabilizzarsi (grazie a un altro decreto) a 6,7 miliardi nel 2013. Nel solo 2012 gli incentivi al fotovoltaico consistevano in 313 euro a megawattora, contro i 162 della Germania e i 160 della media europea.
I risultati a livello ecologico sono encomiabili: l’Italia (unico tra i grandi Paesi dell’Ue) ha ampiamente superato il traguardo del 20% e attualmente ben il 35,1% dell’energia consumata nel Belpaese proviene da energie rinnovabili, contro il 20% della Germania e il 12% della Francia. Ma il prezzo di questa situazione è assolutamente inammissibile: secondo Assoelettrica l’elettricità nel nostro Paese ha un costo maggiore del 25% rispetto alla media dei Paesi europei (Daniele Manca, sul «Corriere della Sera», stimava anche un 30%) e ogni cittadino italiano deve pagare mediamente 200 euro di bollette energetiche (complessivamente si parla di 40 miliardi). Nel solo 2012 il costo della luce è stato superiore dell’11,2% rispetto agli altri paesi europei.
Insomma, sovvenzionare a dismisura la produzione di energia solare ha finito per consegnare un fardello immane a famiglie e piccole imprese, e ha sempre di più scoraggiato gli investitori internazionali ad aprire impianti nel nostro Paese; il tutto condito da una beffa: il 45,4% dei fondi destinati al fotovoltaico proviene da commercianti e piccole imprese che rappresentano però soltanto un terzo dei consumi. Ciò significa che le imprese di grosso fatturato vedono un costo dell’energia notevolmente minore (circa la metà) rispetto alle piccole imprese, una situazione paradossale spiegata in questo modo dal presidente di Assoelettrica: «Un utente domestico con potenza impegnata di 3 kW e un consumo che non supera i 3-4mila kWh annui paga il chilowattora circa 19 centesimi tutto compreso. Lo stesso consumatore che chiede l’allaccio a 6 kW e che consuma la stessa quantità di energia paga, sempre tutto compreso, quasi 30 centesimi. E ciò che si può affermare, anche soltanto a grandi linee, è che a subire il peso maggiore delle bollette sono proprio quelle piccole e medie imprese che costituiscono l’asse portante del tessuto industriale italiano, unitamente alla crescente platea di consumatori domestici che risultano oggi penalizzati per aver voluto rivolgersi alle più avanzate tecnologie di efficientamento. E la mia esperienza nel settore mi porta a credere che gran parte della responsabilità di queste sproporzioni sia da imputare alla spaventosa crescita delle rinnovabili in Italia».
Una crescita che non conosce limiti: la produzione di energia solare nel 2013 ha visto un balzo del 16,4% e dal 2011 c’è stato un aumento del 50% di impianti installati (attualmente è stimata la presenza di circa 550mila impianti). Al giorno d’oggi (complice anche la drastica diminuzione dei consumi di energia dovuta alla crisi economica) ci troviamo nella bislacca situazione di produrre troppa energia solare e, dovendo adoperarla a tutti i costi, lo Stato è costretto a ridurre al minimo l’energia proveniente da altre fonti: nel 2013, a fronte di un aumento del 20,1% di produzione di energia solare, la termoelettrica è precipitata del 14,1% (gli impianti di energia termoelettrica sono costretti a lavorare al minimo, talvolta sotto la soglia di redditività).
Il motivo di questo abnorme consumo di soldi per il fotovoltaico lo spiega così Mario Pirani su «La Repubblica» del 30 giugno 2014: «Qualche economista sprovveduto o ben sovvenzionato pensò che queste concessioni avrebbero favorito l’industria italiana dei pannelli fotovoltaici e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche necessarie per farli funzionare, ma niente di questo avvenne e oggi l’Italia praticamente non ha industria che produce pannelli o apparecchiature elettroniche». Sempre secondo Pirani, l’unico vero risultato di questi finanziamenti è stato «una tumultuosa crescita della speculazione finanziaria alimentata con valenza ventennale da capitali che il governo italiano tra il 2008 e il 2011 ha elargito a chi copriva di pannelli le nostre campagne, con una suddivisione che vedeva tedeschi e cinesi fornire la tecnologia mentre noi assicuravamo la bassa manodopera ed i terreni. Gli incentivi erano garantiti per ben 20 anni, prelevati dalle tasche delle famiglie e delle imprese attraverso le bollette elettriche. Ogni anno complessivamente quasi 7 (sette) miliardi di euro vanno così a riempire i conti bancari dei proprietari di questi impianti. Quasi un punto di Pil».
Anche sull’impatto ambientale dei pannelli fotovoltaici è lecito nutrire dei dubbi: la totalità degli impianti di pannelli solari ha sottratto una quantità di terreno fertile pari alla grandezza dell’intero Molise spodestando ecosistemi, limitando la nostra eccellente produzione agricola, impoverendo il terreno, impedendo che si compia il ciclo dell’anidride carbonica e deturpando il paesaggio. Senza contare il mistero che aleggia intorno alla destinazione dei pannelli esausti.
Insomma, gli unici che ci guadagnano veramente da questa mangiatoia (e che ora tremano di fronte alle pur modeste azioni governative) sono banchieri e speculatori; lo spiega lo stesso Pirani: «Innanzitutto l’installazione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico è difficilmente annoverabile tra le attività industriali. Non si corre il minimo rischio, lo Stato, attraverso il Gse (gestore dei servizi elettrici) garantisce l’acquisto dell’energia elettrica prodotta. Poi, ad eccezione di qualche lavoratore extracomunitario utilizzato per il lavaggio dei pannelli solari un paio di volte l’anno, l’occupazione è nulla. Gli investimenti finanziari al netto delle tasse risultano superiori al 20%, con punte del 30%».
Viviamo quindi in un Paese dove la speculazione fa ampi profitti sulla pelle delle piccole imprese, una speculazione che trova un potente scudo nei tanti pregiudizi energetici amplificati dai media e ben innestati nella mentalità dei cittadini: di fatto ogni energia che non sia la solare o l’eolica viene percepita come dannosa per la salute o per l’ambiente o per l’ecosistema o per chissà quale altro aspetto. Ad esempio, la Puglia che si oppone strenuamente ai rigassificatori, che si oppone strenuamente alla Trans adriatic pipeline e che si erge a paladina dell’ambiente, vede un impianto di energia fotovoltaica ogni 106 abitanti. Siamo sicuri che le convenga?
La migliore conclusione per questo articolo la offre un brano di Camillo Langone pubblicato su «Il Foglio» del 3 dicembre 2013: «La nazione che esporta più pomodori è diventata l’Olanda. Seguono il Messico, la Spagna, la Turchia, la Francia (il mio fruttivendolo cerca sempre di piazzarmi pomodori francesi ma io, patriota, resisto). L’Italia, il paese d’ ‘o sole, non pervenuta. Perché oggi la produzione di pomodori da insalata anche in riva al Mediterraneo è conveniente solo in serra e le serre sono affamate di energia e l’energia in Italia costa uno sproposito siccome gli italiani, a differenza degli olandesi e degli altri, sono signorini schizzinosi che non vogliono centrali nucleari né a carbone, non tollerano trivellazioni né in terra né in mare, e si oppongono strenuamente a termovalorizzatori e rigassificatori. Ovvio che i nostri pomodori siano fuori mercato. Con i costi dell’energia che ci troviamo ormai possiamo produrre solo rape. Che dovrebbero diventare l’ortaggio nazionale: il simbolo della nostra idiozia».

Nessun commento:

Posta un commento