mercoledì 15 aprile 2015

Salvini, Tosi e l'oro di Mosca



Sembravano tramontate da almeno un paio di decenni le voci su generose elargizioni di denaro in partenza dal Cremlino e dirette a qualche forza politica italiana. Ha fatto ora a crollare il Muro di Berlino, a salire sulla ribalta internazionale la figura di Putin, a comparire un’Ucraina in guerra ed ecco ricapitati gli stessi traffici, a metà tra la geopolitica e l’esigenza di un po’ d’ossigeno per le casse dei partiti, con la sostanziale differenza del colore esposto sulle bandiere dei destinatari: dal rosso vermiglio del compagno Secchia al nero goffamente celato di madame Le Pen. Fino al verde, quello dei padan-nazionalisti (grottesco paradosso) della Lega Nord che a malincuore si addice pure alla situazione patrimoniale dei suoi bilanci, più al verde che mai. Un verde tendente, quale blasfemia!, ad un rosso sempre più marcato se si va a considerare che al momento dell’ascesa di Matteo Salvini alla segreteria il saldo era di meno 14,5 milioni di euro, risultato fra gli ultimi eventi (meglio stendere un velo pietoso su diamanti, lingotti, lauree e forzieri vari) dell’arrembante campagna elettorale di Bobo Maroni per la presidenza della Regione Lombardia costata, almeno secondo quanto riportato dal «Fatto Quotidiano», la bellezza di sei milioni.
L’abolizione di ogni finanziamento pubblico ai partiti sarà pur raffazzonata e ricca di molte controverse opacità, ma rappresenta una grana non indifferente per le formazioni politiche, peraltro assai traumatizzante se si ricorda l’aspetto di paradisiaca cascata che il «rimborso elettorale» alle formazioni politiche ha assunto fino a qualche mese fa. Complice un referendum, dai tratti peraltro fortemente demagogici, l’unico modo che le formazioni politiche hanno per disporre di un budget che sopperisca quantomeno alle più basilari necessità di coordinamento è quello di girare umilmente con la tazza della questua nella speranza che qualche facoltosa istituzione si degni di aprire il portafoglio. Attività tortuosa e inevitabilmente foriera di pesanti mutazioni genetiche: come se già la situazione attuale non fosse abbastanza scandalosa, ci toccherà assistere al degradante spettacolo di forze politiche sempre più modellate ad immagine e somiglianza dell’ente finanziatore, unico depositario della possibilità di decretare la stessa esistenza della formazione in questione. L’attività di finanziamento assumerà di conseguenza una rilevanza sempre più ingombrante all’interno della vita dei partiti, andando anche a decidere le sorti dei suoi programmi e dei suoi vertici. In realtà non ha senso esprimere queste perplessità guardando al futuro, visto che il presente della Lega Nord offre di per sé un caso di scuola per quanto riguarda la prepotenza della disponibilità finanziaria su ogni altra considerazione politica.
Flavio Tosi, infatti, sindaco di Verona e da un po’ di tempo volto istituzionale di una Lega ipoteticamente «di governo» (contro la Lega «di lotta» di Salvini) si è trovato recentemente fuori dal partito. A Tosi non garbava la linea estremista del segretario, è vero. Tosi non gradiva che tutte le attività del partito venissero fatte piovere unilateralmente dalla segreteria milanese, è vero. Ma l’aspetto più determinante della vicenda è stato tenuto accuratamente nascosto, almeno fino a quando i giornalisti Paolo Madron e Luigi Bisignani in un volume ancora fresco di stampa («I potenti al tempo di Renzi», Chiarelettere editore) non hanno strappato il sipario ampliando lo sguardo e concentrandosi sul vero campo di battaglia, che non è la casa di Giulietta, che non è la politica nazionale, ma bensì la ben più vasta tensione strategica tra Europa e Russia, dove quest’ultima pare disposta a giocare ogni carta pur di veder indebolite le istituzioni comunitarie. L’asso nella manica è il lauto finanziamento delle forze politiche anti-europeiste con più possibilità di far tremare i palazzi del potere. Tra queste la Lega nostrana, specie dopo la svolta profondamente radicale imposta da Salvini, il quale però si è ritrovato nella scomoda situazione di voler accaparrarsi una posizione privilegiata nel rapporto con Mosca senza però l’appoggio di un pezzo da novanta come Antonio Fallico, decisamente più legato a Flavio Tosi.
Fallico è uno di quei personaggi tanto sconosciuti quanto indispensabili, specie in periodi ove la politica si è dimostrata irreparabilmente inetta e incompetente. Fallico ci ha passato praticamente una vita in Russia, visto che da circa quarant’anni ricopre l’incarico di plenipotenziario di Banca Intesa in quel paese. Una specie di pioniere, arrivato fra i primi nel paese sovietico con il preciso proposito di creare una rete di credito, all’epoca sotto le dipendenze della Banca cattolica del Veneto, poi risucchiato nel Banco Ambrosiano e poi in Banca Intesa, finendo per ricoprire l’incarico di presidente della Zao Bank, nonché di console onorario di Russia (onorificenza ottenuta a seguito della buona riuscita degli affari italo-russi su Gazprom, di cui Fallico era immancabilmente il rappresentante in Italia), nonché ex-coordinatore del Comitato italo-russo per il disarmo dei sottomarini, nonché docente all’Università di Verona. Carriera invidiabile, al punto tale che oggigiorno praticamente ogni uomo politico intento ad ottenere qualche contatto con Mosca (anche strategico, anche industriale, anche politico e finanche religioso dato che in passato ha persino mediato l’incontro tra il patriarcato ortodosso e l’ordine francescano) deve prima o poi fare i conti con lui, l’uomo-camaleonte a cui la fede comunista (ha militato per lungo tempo nel Pci e ancora un paio d’anni fa, intervistato da «Sette-Corriere della Sera», non esitava a dichiararsi «comunista convinto») non impedisce una solida amicizia col conterraneo Marcello Dell’Utri. Amicizia nata sui banchi di scuola (ambedue sono siciliani), ma coadiuvata probabilmente dai favori che Fallico elargì nei confronti dell’imprenditore Silvio Berlusconi, quando mosse tutti i canali a sua disposizione affinché Publitalia, siamo verso la fine degli anni Ottanta, disponesse della concessionaria esclusiva per la pubblicità di tutte le imprese europee sugli schermi televisivi statali dell’intera Unione Sovietica.
Alla luce di questo curriculum, si può ben capire il dramma che Salvini prova ogniqualvolta deve constatare che Fallico sta nell’orbita del suo (ex) principale avversario nel partito. Il segretario ha compreso quanto sia importante portare Fallico sotto le sue insegne, è ben a conoscenza dei tentativi di questi di accreditare agli occhi dei vertici russi Flavio Tosi come unico interlocutore leghista col Cremlino, probabilmente gli è anche giunta voce del fatto che Fallico non esita a spargere zizzania contro Salvini ed è probabilmente grazie alle influenze del banchiere plenipotenziario se continua a venir rimandato un bramato prestito da parte di una banca russa nei confronti del partito.
Queste sono le premesse della guerra tra Salvini e Tosi. Non è da poco tempo che il segretario, non riuscendo (almeno per ora) ad accaparrarsi Fallico, tenta in ogni modo di arginare lo strapotere di quest’ultimo erigendo un alternativo gruppo di pressione nei confronti della Russia, alla cui testa è stato collocato Gianluca «Gianlu» Savoini, partito con la lancia in resta nel corso del 2014 con la promozione di un appello a favore di Putin. Ma procediamo con calma. Savoini non ha nulla in comune con Fallico, non ne possiede gli agganci, non ne possiede l’esperienza e non ne condivide per nulla le fedeltà ideologiche: se Fallico è comunista, Savoini espone orgogliosamente sulla sua scrivania un busto di Benito Mussolini. Appassionato di storia del nazismo, giunge per la prima volta alle cronache quando viene nominato capo ufficio stampa della Regione Lombardia guidata da Maroni. La carriera sembrava definitivamente compromessa quando il governatore decise di sostituirlo con la più fidata, e più avvenente, assistente Isabella Votino relegando il povero Savoini dentro una società vicina alla Regione, Europolis. Fino a quando, appunto, Salvini non gli conferisce il delicato incarico di creare un cordone ombelicale tra Mosca e via Bellerio.
Tenere testa a Fallico è impresa assai ardua, di conseguenza Savoini si fa sostenere da un lato da una ciurma eterogenea di artigiani e piccoli commercianti succubi della guerra di sanzioni tra Occidente e Russia (riunitisi a Milano sotto le bandiere della neo-costituita associazione Lombardia Russia) e dall’altro dall’eurodeputato veronese Lorenzo Fontana, figura di sempre maggior rilievo nella Lega di Salvini (gli è sempre a fianco durante i soggiorni all’estero), accanito appassionato dell’Hellas Verona, della Nutella e di Vittorio Feltri, responsabile del primo incontro tra il segretario (ancor prima che divenisse tale) e Marine Le Pen ma particolarmente apprezzato soprattutto per il pronto voltafaccia riservato a Flavio Tosi, a cui teoricamente era debitore in virtù di una mansione garantitagli alla Fiera di Verona.
Quest’armata Brancaleone, con pochi mezzi ma un obbiettivo consistente, ha se non altro concepito il più formidabile tra gli stratagemmi in grado di attirare l’attenzione del manipolo di oligarchi russi: una donna, bionda per giunta. Stiamo parlando di Irina Osipova, laureata in Scienze politiche a Roma, ben inserita nell’ambiente nell’ambasciata russa in Italia e guida del Rim, movimento di giovani italo russi, il suo nome sui media è legato per lo più alle dichiarazioni di estasiato fervore putiniano che rilascia ad ogni giornalista che le capita nei paraggi. Tanto più con l’incarico delicatissimo affidatole dalla Lega, la sua vita ormai si svolge per metà in Italia e per metà nei più influenti circoli della capitale russa (arriva addirittura ad accompagnare gli esponenti della Lega durante i loro viaggi in Russia e in Crimea).
Salvini-Savoini contro Tosi-Fallico. Lo scontro è in pieno svolgimento e potrebbe dar luogo ad insospettabili sbocchi. La posta in palio è bella grossa: innanzitutto l’oro del Cremlino, succulento boccone, ma anche la conseguente intestazione della battaglia politica filorussa nel Belpaese.

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