sabato 18 aprile 2015

Hanno scippato il riformismo



Dichiararsi riformisti significa a rigor di logica chiedere degli interventi strutturali in grado di sconvolgere gli assetti costituiti e di rendere fruibile un autentico cambio di rotta rispetto alle direzioni intraprese sinora dalle classi dirigenti. Chi, in Italia, non se la sentirebbe di condividere un approccio simile? Quale persona ritiene che, stanti così le cose, tutto sia perfettamente in regola? Tutti invocano a gran voce il cambiamento, e «riforme» è la formula magica che da praticamente quarant’anni traduce nel linguaggio amministrativo questa spinta unanime.
Matteo Renzi è probabilmente il personaggio politico che più di tutti ha fatto dell’esigenza delle «riforme», in questo fortemente incoraggiato dall’esigenza di «riforme strutturali» richiesta ad ogni piè sospinto dalle istituzioni economiche sovranazionali, la propria cifra propagandistica e l’inappellabile giustificazione verso ogni scelta governativa. Le riforme sono divenute in questi ultimi anni un’indiscutibile mantra, che va oltre ogni scelta politica ed ogni legittimazione di consenso fino ad arrivare al punto che nell’estate scorsa il numero uno della Bce Mario Draghi era arrivato a proporre una momentanea cessione di sovranità popolare apposta per portare a termine questo processo legislativo. Perché non ci sono alibi che tengano, le riforme vanno fatte. Il che è vero, ma il fatto stesso che l’invocazione delle riforme veda d’accordo ogni categoria sociale, dal finanziere al pensionato, dal gelataio al grande imprenditore, significa che in realtà la parola «riforme» è arrivata a significare un po’ di tutto, come una massa liquida che finisce per adattarsi ad ogni contenitore in cui viene posta. Insomma, un vocabolo dotato di una fumogena inconsistenza buona per tutte le stagioni e, di conseguenza, perfettamente consono alla vacua e accomodante comunicazione politica del renzismo.
Galleggiando in balia delle onde e sospinta dai flutti delle più disparate istanze sociali, la battaglia del riformismo ha finito però per assumere sempre di più un significato preciso, totalmente snaturato rispetto alla sua accezione originaria: l’esigenza delle riforme, infatti, si è trasformata nella bandiera della più retriva e caparbia perpetuazione delle politiche globali perseguite con costanza e coscienza da fin troppi decenni a questa parte. Una parola scippata al suo utopistico significato di cambiamento e redistribuzione per divenire al contrario il simbolo dell’iniquità rincorsa semplicemente con mezzi più rapidi. Chi, specie negli organi d’informazione, con maggior convinzione insiste sulle «riforme» e sul «cambiamento» non ha in testa un rinnegamento delle scelte governative fatte finora, al contrario le valorizza lamentandosi semplicemente che la dose di medicinale non è stata abbastanza corposa a causa di quei maledetti orpelli, di quegli odiosi «lacci e lacciuoli» (un simpatico vezzeggiativo rivolto ai corpi intermedi, specie il Parlamento e i sindacati i quali, pur non esenti da responsabilità, vengono additati dai riformisti come la causa di tutti i guai del mondo) che secondo tale retorica impediscono, e magari lo facessero con effettiva efficacia!, un reale rinnovamento del Paese.
Il sentiero luminoso indicato dai sedicenti riformisti si concretizza in nient’altro che nella concentrazione della ricchezza, frutto e obbiettivo massimo di un’economia fondata sulle più scellerate e contorte operazioni finanziarie: nella bramosia di ottenere rendimenti annui non inferiori al 20% (alcuni fondi specializzati nella gestione dei patrimoni privati promettono rendimenti minimi addirittura del 30%) a fronte di una crescita mondiale annua che non supera mai il 5%, i grandi operatori finanziari possono solo condurre due operazioni: «1) Una redistribuzione a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale; 2) La crescita del capitale in forza di un rendimento più elevato è soltanto un’espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una inflazione dei titoli finanziari, a una bolla» (da K.-H. Brodbeck, «Die Globale Herrschaft der Finanzmärkte», pag.219). È soprattutto il raggiungimento del primo aspetto quello che si sono prefissate le istituzioni pubbliche, tutte sedicenti riformiste, negli ultimi decenni. Sotto l’ipnosi abilmente manipolata delle indifferibili esigenze riformiste, si è provveduto di conseguenza ad una sistematica spoliazione dei beni pubblici, riducendo lo Stato a nulla più di un «regolatore» inginocchiato dinnanzi ai desiderata della grande finanza. E dato che le riforme sono oggettive e prescindono da ogni considerazione politica, non ci si sorprenda se ad inaugurare la stagione riformista in Italia sia stato un governo tecnico, quello Amato-Ciampi, e sia proseguita senza intoppi lungo tutti gli esecutivi successivi, sia quelli di destra che quelli di sinistra, divisi nel soddisfacimento delle richieste corporative dei propri gruppi di riferimento ma assolutamente complementari nel disegno anti-egualitario tracciato dai sempre più ingombranti padroni della finanza globale. L’esigenza riformista di un’istituzione scolastica finalizzata esclusivamente alla formazione di competenze specialistiche in un’ottica meramente aziendale partì col pacchetto Berlinguer del periodo dell’Ulivo per venir poi seguita dai ministri berlusconiani Moratti e Gelmini. L’esigenza riformista di un mercato del lavoro il più possibile sregolato viene propugnato da seguaci di Marco Biagi che pullulano in ogni schieramento politico. L’esigenza riformista di una legge elettorale illiberale portò ad un Porcellum redatto dal centrodestra sul modello del sistema elettorale regionale della Toscana monopolizzata dal centrosinistra. L’esigenza riformista della proprietà intellettuale, dettata dagli accordi Trips, venne calorosamente accolta da tutto l’arco parlamentare. L’esigenza riformista delle privatizzazioni è proseguita senza tentennamenti in tutto l’arco dell’ultimo ventennio. L’esigenza riformista di smantellare la garanzia pubblica di una pensione adeguata venne ideata all’inizio degli anni Novanta dagli ambienti contigui al centrosinistra per venir poi pedissequamente completata dai successivi governi. E si potrebbe continuare a lungo, attraverso anche i più diversi versanti come la gestione inumana degli immigrati (iniziata con la legge Turco-Napolitano del centrosinistra e proseguita con la legge Bossi-Fini del centrodestra) o l’intralcio verso la lotta alla corruzione e alla criminalità.
In fin dei conti, si può dire che i vari governi tecnici, di larghe intese e di strette intese (che culmineranno nel «partito della Nazione» sognato da Renzi?) susseguitisi dal 2011 hanno quantomeno posto alla luce del sole la quasi totale convergenza di vedute tra i due principali schieramenti politici al potere in Italia dagli anni Novanta. Una convergenza attuata in nome di riforme il cui stampo neoliberale non viene nemmeno più messo in discussione: anche attualmente il più ascoltato leader della minoranza dem, Pierluigi Bersani, nel rispondere all’accusa renziana di pigrizia riformista replica snocciolando l’elenco di liberalizzazioni il cui chiaro scopo era quello di sottrarre al controllo giuridico pubblico un ricco arcipelago di professioni.
Anche a livello istituzionale il riformismo, checché ne blateri la retorica renzista, gode di una sua storia, fra l’altro nemmeno troppo disonorevole se paragonata agli sfaceli del riformismo economico. A dispetto della logica delle «riforme mai fatte», basterebbe rammentare che nel 1988 vennero emanate prima una legge sulla Presidenza del Consiglio e poi una norma che de facto aboliva il voto segreto, nel 1990 ebbe luogo una revisione dei poteri locali, nel 1991 si svolse il referendum che sancì la fine della preferenza plurima, nel 1993 un altro verdetto popolare lasciò il sistema proporzionale alle spalle e dichiarò illegittimo il finanziamento pubblico ai partiti, sempre nel 1993 venne emanata la legge elettorale marcatamente maggioritaria per gli organi di governo amministrativo, nel 2001 arrivò la riforma costituzionale del Titolo V finalizzata all’inseguimento del federalismo, nel 2005 fu la volta dell’approvazione del Porcellum corredato da una corposa riforma della Carta rigettata senza tentennamenti dal referendum confermativo dell’anno successivo. Sorprende come lo stesso Renzi paia dimenticare inoltre uno strumento a suo modo rivoluzionario nella dialettica politica a cui il giovane premier deve gran parte delle sue fortune: l’adozione delle elezioni primarie nel centrosinistra, anch’esso fondamentale passo in avanti nell’«aggiornamento» della pratica politica.
Fuor di dubbio che, sia a livello economico che a livello istituzionale, di un’autentica spinta riformista c’è un bisogno sempre più impellente. Una spinta in grado di rigettare le ricette imposte con cieca (ma interessata) determinatezza negli ultimi decenni al fine di perseguire l’obbiettivo di un Paese più giusto, più democratico e più equo. Nulla a che vedere, insomma, col riformismo cialtrone e raffazzonato di un esecutivo il cui ossessivo inseguimento del consenso impedisce un’analisi acuta e una linea programmatica autenticamente dirompente. 

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