sabato 3 ottobre 2015

Non è la precarietà a rendere forte la Germania

L’immaginario collettivo sulla Germania oscilla con singolare disinvoltura tra l’ammirazione verso un’economia diligentemente immersa in uno sviluppo esemplare e il disprezzo verso un neo-impero sfruttatore ed egemonico. Ambedue le visioni contengono al loro interno qualche germe di fondatezza soprattutto in un periodo ove i pesanti scandali automobilistici risultano quasi offuscati, ad esempio, da una disoccupazione che nonostante la crisi economica si è persino ridotta passando dall’8,5% registrato nel 2007 al 5% registrato nel 2014 (si veda R. Romano sul «manifesto» dell’01/10/2015).
Questa straordinarietà teutonica rispetto al contesto europeo ha contribuito non poco a giustificare
Secondo il governo è la precarietà a portare occupazione
agli occhi dell’opinione pubblica la logica che sorregge la liberalizzazione del mercato del lavoro incoraggiata dai vari Jobs Acts
che l’attuale governo italiano ha emanato fin praticamente dal suo insediamento dato che, appunto, la Germania figura tra le nazioni in cui si è provveduto con maggior solerzia ad adeguarsi con intima convinzione e determinata volontà ai precetti che vedevano nello sradicamento degli spazi pubblici la soluzione per garantire una società giusta ed equilibrata. Ridotto praticamente alle regole del commercio, della competizione, del massimo individualismo e della più totale monetizzazione qualsiasi servizio sociale ed ogni barlume di sistema previdenziale l’esito più naturale non poteva che essere rappresentato dal ridurre il lavoro, quindi una parte fondamentale dell’identità e della formazione dell’individuo, a null’altro che un grigio scambio fondato esclusivamente su basi monetarie (si veda G Standing, «Labour Recommodification in the Global Transformation» nella pubblicazione a cura di A. Buğra e K. Ağartan «Reading Karl Polanyi for the Twenty-First Century. Market Economy as a Political Project», Palgrave MacMillan, New York 2007, da pag.67 in poi; ma si veda anche L. Gallino, «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità», Laterza, Roma-Bari 2007), oltretutto da rendere il più possibile fragile, insicuro e da consumarsi spesso nel giro di poche ore non solo in ossequio alla banalità che più il lavoro è succube e più le condizioni imposte diventano attuative, non solo con la finalità d’impedire la creazione di stabili strutture organizzative in grado di coalizzare le rivendicazioni delle maestranze, bensì soprattutto per adeguare ogni azione dell’impresa alla schizofrenica volatilità (da un luogo all’altro, da un settore all’altro, da un investimento all’altro) del mercato finanziario, unica «piazza» degna di considerazione se s’intende incrementare il valore azionario, e quindi il profitto, dell’impresa (si veda L. Gallino, «Vite rinviate- Lo scandalo del lavoro precario», Laterza, Roma-Bari 2014; ma anche R.A. Walker, «Putting Capital in Its Place: Globalization and the Prospects for Labor», working paper, Department of Geography, University of California, Berkeley 1999).

Il feroce astio anti-germanico che trapela nei mezzi d'informazione


1. La liberalizzazione del capitale come preludio della «flessibilità» del lavoro
I magnati del mondo finanziario, coadiuvati dagli accademici di riferimento e dalle squadre delle burocrazie ministeriali dei paesi più avanzati si premurarono enormemente fin dagli anni Settanta di
La Cancellieria tedesca Angela Merkel
persuadere, talvolta senza farsi scrupoli nell’adoperare mezzi spicci, i singoli governi ad attuare 
legislazioni che andassero nella direzione dapprima di una liberalizzazione di qualsiasi movimento di capitale finanziario, e successivamente nella conseguente necessità di «flessibilizzare» il mercato del lavoro. Tra gli strumenti più autorevoli per iniettare gli interessi della finanza nel cuore pulsante delle democrazie più solide un ruolo di particolare rilievo è stato assunto da organizzazioni sovranazionali tra i quali si distingue l’Ocse (si veda D. Howarth e T. Sadeh, «In The Vanguard of Globalization. The Oecd and International Capital Liberalization» in «Review of International Political Economy», XVIII, dicembre 2011, n.5, pagg.622-645), ente che fin dalla sua fondazione vede tra i propri punti di riferimento il «Codice di liberalizzazione dei movimenti di capitale» in cui già dal primo articolo si stabilisce che 

«i membri aboliranno tra loro, in accordo con le indicazioni dell’Articolo 2, le restrizioni sui movimenti di capitale nella misura necessaria per una efficace cooperazione economica» (da Ocse, «Code of Liberalization of Capital Movements», Paris 2013). 

In tale contesto di portata globale, ove alla crisi di sovrapproduzione del sistema manifatturiero la grande impresa vedeva a ragione nello scambio finanziario il circuito più redditizio, la Germania fu tra le nazioni più attive nell’eliminare ogni briglia e ogni orpello alla gestione del
capitale- questa intensa attività vede il suo esordio addirittura nel 1969- in particolar modo nell’esecuzione di una torrenziale valanga di provvedimenti in materia adottati dal 1990 in poi. Un rapporto della Rosa-Luxemburg-Stiftung (S. Steinborn, «Regulierung der Finanzmärkte in Deutschland unter Berücksichtigung der Rahmensetzung durch die Eu», Rosa-Luxemburg-Stiftung, Berlin 2009) ne annovera la bellezza di 95 nel solo periodo 1990-2009, fra cui spiccano quattro leggi sulla promozione dei mercati finanziari, due leggi finalizzate all’allargamento del campo di attività degli istituti di credito, una legge che incoraggia le acquisizioni e le fusioni delle imprese, un provvedimento del 2003 che facilita il ricorso alla cartolarizzazione dei crediti e, come ciliegina sulla torta, l’abolizione nel 1996 della tassa patrimoniale (persino il «falco» Wolfgang Schäuble fu costretto ad ammettere nel febbraio 2013 l’avventatezza di simile apertura indiscriminata). Un cocktail micidiale che mostrerà l’acme della propria pericolosità con l’insorgenza della prevedibile crisi del settore creditizio che fra le altre cose si prodigherà di mostrare con evidenza l’estrema fragilità del sistema bancario tedesco, costretto ancora agli inizi degli anni Duemila a sopportare il peso (ben presto scaricato soprattutto sulle spalle dei contribuenti) di crediti difficilmente esigibili per l’ammontare di 300 miliardi di euro (si veda L. Müller, «Bank Räuber. Wie kriminelle Manager und unfähige Politiker uns in den Ruin treiben», Econ, Berlin 20103, pagg.31-33) oltre ad un volume di cartolarizzazioni passato nel solo periodo 2003-2006 da tre a 42 miliardi (si veda R. Ricken, «Verbriefung von Krediten und Forderungen in Deutschland», Hans Böckler Stiftung, Düsseldorf 2008, pag.47, fig.12). 

Il tasso di cartolarizzazioni degli istituti bancari tedeschi (fonte)

Una condizione a cui evidentemente una politica cocciutamente convinta di  proseguire sulla strada giusta fingeva di non prestare attenzione se è vero che ancora nel 2003 i principali partiti del Parlamento tedesco siglarono un patto di coalizione il cui terzo punto affermava che 

«uno dei presupposti più importanti per l’economia e la crescita dell’occupazione è una “Piazza finanziaria Germania” che sia più competitiva sul piano internazionale», dove «le innovazioni di prodotto [finanziario, ndr.] e le nuove vie di distribuzione [dei prodotti finanziari, ndr.] debbono venire fortemente appoggiate […] Tra queste rientrano l’introduzione di fondi d’investimento immobiliare e l’ampliamento del mercato delle cartolarizzazioni». Dulcis in fundo: «Leggi esistenti, prescrizioni e altre forme di regolazione sono da sottoporre a verifica per stabilire se raggiungono il loro scopo a basso costo o se sono ancora necessarie» (da «Gemeinsam für Deutschland. Mit Mut und Menschlichkeit. Koalitionsvertrag von Cdu, Csu und Spd», Berlin 2009, pagg.86-87).

2. Modalità ed esito dell’attacco al lavoro
Il diritto del lavoro fu tra le vittime più illustri di questa irrazionale deregulation, e tra gli influenti propagatori dell’idea che un lavoratore con troppi diritti inibisca l’impresa a effettuare assunzioni troviamo ancora una volta l’Ocse, per la precisione una sua voluminosa raccolta del
1994 intitolata «Jobs Study» immediatamente adottata come libro sacro nella stesura di normative sempre più umilianti per la classe lavoratrice. Un discorso valido ovviamente per l’Italia a partire fin dal 1997 (il tasso di protezione del lavoratore è passato dagli anni Novanta al 2010 da 3,5 a 1,8 punti), ma anche per gli altri paesi sviluppati, in particolare ancora lei, la Germania, fautrice di leggi (quelle Hartz) cui già il nome si rifà al modus operandi della grande industria (Peter Hartz era capo del personale alla Volkswagen).
Nel mentre il profitto degli apparati industriali e finanziari s’impennava in misura sbalorditiva portando la disuguaglianza della ricchezza tedesca a un livello tale per cui il 10% della popolazione dispone di oltre il 60% della ricchezza netta totale (se estendiamo la platea ci accorgeremmo che il 20% arriva a possedere l’80% della ricchezza) e il più consueto indice di misura delle disuguaglianze arriva a sfiorare lo 0,8 (da H.-J. Bontrup, «Durch Umverteilung von unten nach oben in die Krise», Friedrich-Ebert-Stiftung, Bonn 2010, pag.17; si ricordi che l’indice 1 significa che un solo individuo possiede tutta la ricchezza disponibile) il contesto sociale andava registrando la presenza di oltre 7 milioni di «minijobs» (salari di 450 euro mensili), crescenti divergenze salariali tra Germania Est e Germania Ovest e soprattutto una quota di lavoratori poveri, quelli con un salario inferiore al 60% della media, superiore al 20%.
In compenso però i fiorenti studi a difesa della «flessibilità del mercato del lavoro» (ancora nel 2013 la Commissione Europea si scagliava contro millantatati lavoratori «pesantemente protetti», colpevoli di non sentire la pressione dei disoccupati «per moderare le pressioni salariali o cambiare le pratiche lavorative per accrescere la produttività»; si veda «EEAG Report on the European Economy 2013», pag.93) hanno avuto modo di affermare quanto la disoccupazione del paese teutonico abbia subìto un notevole calo, dimentichi del fatto che nel corso dell’ultimo decennio persino l’Ocse, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale hanno dovuto ammettere che nonostante anni di sfegatata propaganda non vi è alcuna assodata evidenza che giustifichi la teoria secondo cui la minor protezione del lavoratore comporti una crescita dell’occupazione (un’ottima chiosa la forniscono E. Brancaccio e M. Passarella in «L’austerità è di destra», Il Saggiatore, 2012, pag.28). Si è avuto modo di appurare non solo che a tanti paesi in cui la messa in discussione dei diritti ha coinciso col calo della disoccupazione ve ne sono altrettanti in cui si è sortito l’effetto opposto ma anche che i dati
Puntare sull'export è il modo migliore per addolcire la pillola
della decurtazione salariale
a sostegno di questa tesi fossero viziati (oltre che da un palese pregiudizio) da eccessi di aggregazione per paesi e settori.
Se c’è un aspetto apparentemente positivo provocato dall’abbattimento dei salari è quello di aver favorito le esportazioni, in un contesto in cui da un lato i prodotti hanno un costo inferiore e dall’altro un mercato interno incapacitato a spendere non riesce ad assorbire la produzione. Un meccanismo, questo, che oramai rappresenta l’unica solida base d’appoggio per affermare la necessità di una «moderazione salariale» nonostante in realtà proprio la recessione presente in tutte le nazioni europee renda questo teorema, oltre che politicamente ingiusto, economicamente fragile (se all’interno dell’Ue tutti producono ma nessuno ha i soldi per acquistare la situazione diviene critica).

3. Innovazione, ricerca e formazione come segreti del successo economico
Come spiegare, allora, la forza dell’economia tedesca? Il suo segreto si fonda sull’assunto (questo sì storicamente provato) che nessun paese è mai cresciuto senza corposi investimenti in istruzione, ricerca e formazione del capitale umano. La tedesca Siemens riesce a vincere appalti in tutta Europa non per lo sfruttamento delle maestranze bensì per la capacità delle tanto vituperate istituzioni statali di fornire un sostegno capillare e costante ai settori innovativi tramite il braccio di strumenti quali la banca d’investimenti pubblica KfW e la rete d’istituti di ricerca della Fraunhofer prodiga di preziosi raccordi tra scienza e industria. La riconosciuta leadership di Berlino nello sviluppo delle energie rinnovabili lo dimostra con limpida chiarezza, a partire dall’ammirevole sforzo profuso a partire dal 1989 (si parla di 2,2 miliardi di dollari di fondi pubblici) per dar vita a 100 MW di energia eolica a cui si aggiunsero ben presto programmi di tariffe di riacquisto e crediti d’imposta del 70% per i piccoli produttori (si veda V. Lauber e L. Mez, «Renewable Electricity Policy in Germany, 1974 to 2005», 2006, pag.106).

Quanto spendono alcune nazioni in ricerca e sviluppo stando a quanto afferma l'Ocse


4. Conclusioni

I dogmi che auspicano una crescente precarizzazione del mondo del lavoro vanno dunque inquadrati in una logica politica in cui qualsiasi sensibilità verso «le ragioni dei disoccupati, dei metalmeccanici e dei pensionati» viene arbitrariamente etichettata come «maledetta vocazione al minoritarismo permanente», «nullismo politico», «astratte scomuniche ideologiche». Così si esprime una delle più
L'editorialista Ernesto Galli della Loggia
 prestigiose firme dell’apparato informativo italiano (si tratta di E. Galli della Loggia sul «Corriere della Sera» del 27/11/2014), superba espressione degli interessi del grande capitale talmente influente ai giorni odierni da essere riuscito a imporre sulla ribalta politica un figuro come Matteo Renzi, a tal punto prostrato verso le istanze dei suoi abbienti sostenitori («sto dalla parte di chi crea ricchezza», ebbe modo di affermare orgoglioso, intravedendo in altra occasione nell’imprenditore «il vero eroe dei nostri tempi») da vedersi fregiata la qualifica di rappresentante dello «spirito del paese» e supremo tedoforo dell’«idea capace di unire e di portare in salvo». Il soggetto non è chiaro, ma lo si può agilmente intuire: ad essere non solo portato in salvo ma anche coccolato, vezzeggiato e adulato è il profitto garantito dal capitale anche col mezzo di una pesante degradazione del lavoro.

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