lunedì 15 febbraio 2016

Quanto è amara la risata al potere

Il MoVimento 5 Stelle è una specie di armata Brancaleone in cui – sotto le insegne del più sguaiato «vaffa» - trovano conforto tutte le tradizionali polemiche anti-politiche rivisitate sotto una redditizia chiave apocalittica seguendo le collaudate regole dell’acchiappa-click più spietato.

Esempio lampante di articolo acchiappa-click fornito dalle piattaforme della Casaleggio Associati


L’anti-politica (ormai dominante su ogni versante parlamentare) rappresenta una peculiare forma di potere che permette la più ampia libertà da vincoli, opportunità politiche e spesso anche regole del più basilare bon-ton istituzionale: sfoggiando con orgoglio la propria distanza da qualsiasi prassi di controllo politico, di responsabilità democratica e di rispetto di una struttura dirigente (interna o esterna alla formazione) temi come ad esempio la contaminazione continua e quasi inscindibile tra interesse aziendale della Casaleggio Associati Spa. e scelte politiche del MoVimento risultano non solo quisquilie di poco conto ma addirittura contesti di cui farsi vanto. Trovare rifugio negli uffici milanesi di Casaleggio rappresenta infatti una valida giustificazione per affermare la totale inutilità di strumenti quali il finanziamento pubblico. Il risparmio per i cittadini è assicurato, e se questo comporta degli indubbi cedimenti nei riguardi delle pressioni dell’azienda (a questo punto depositaria del potere di vita o di morte sul MoVimento) non vi è motivo di preoccupazione dal momento che se il disprezzo verso le istituzioni rappresentative rappresenta l’unico parametro di giudizio, ogni scelta che va nella direzione opposta – sebbene lesiva per l’autonomia e il controllo democratico dei militanti – viene obbligatoriamente salutata con fervore e proposta come esempio di buona prassi politica.

Senza una struttura autonoma e priva di un autentico spazio di confronto e mediazione (che parola blasfema!) il MoVimento non poteva che andare assumendo i caratteri di un agglomerato dai contorni vaghi, ove la normale amministrazione di fronte alle incombenze dell’attività parlamentare si trovava necessariamente ad essere delegata al trascinatore delle piazze, a quel profeta del «vaffa» a
metà strada tra Masaniello e Guglielmo Giannini che risponde al nome di Beppe Grillo.
Nei primi mesi di presenza parlamentare Grillo rappresenta l’alfa e l’omega del MoVimento, non tanto per scelta consapevole quanto per essere l’unico punto di riferimento di quella compagine per lo più svogliata di elettori che si riversa a votare questo nuovo simbolo nell’azzardo (speranzoso o rassegnato) d’imprimere un punto di rottura nell’establishment politico qualunque esso sia. In questo esercito di elettori raro è lo stimolo ad una partecipazione democratica alla vita del MoVimento. Anzi, quel «vaffa» abbracciato come liberazione si rivolge anzitutto proprio verso le strutture e le garanzie che permettono l’esercizio della rappresentanza (Parlamento, partiti, sindacati anzitutto) producendo come esito il più naturale degli sviluppi: chi rifiuta di esercitare il controllo democratico crede per converso alle virtù demiurgiche del leader, e in questo caso il ruolo non poteva che essere svolto dal comico. Il comico, appunto, il cui rozzo messaggio sprezzante nei riguardi delle istituzioni rappresenta in realtà quanto di più caratteristico e «conservatore» vi possa essere per un Paese che dalla fine della Prima Repubblica conosce quasi esclusivamente una politica imperniata sulla compressione della rappresentanza democratica (non a caso il linguaggio e la retorica dei 5 Stelle vennero discretamente sostenuti dagli apparati mediatici) con la differenza quasi unica della professione svolta dal suo leader: non un politico (anche questo vocabolo blasfemo) bensì un comico.

Se la commistione tra interesse aziendale e lista politica non rappresenta di certo un inedito nella politica italiana, mai ci si sarebbe immaginati di avere la più numerosa forza politica sul territorio nazionale capeggiata da un uomo di satira. Un evidente contraddizione, dal momento che la satira rappresenta per definizione l’opposizione al potere costituito: come ci si comporta se la satira diventa potere costituito (o almeno parte di esso)? Già all’epoca del primo V-Day Daniele Luttazzi si era posto il problema affermando sulla rivista «Micromega» (correva l’anno 2007):

«Grillo si guarda bene dallo sciogliere la sua ambiguità di fondo: che non è quella di fare politica, ma quella di ergersi a leader di un movimento politico volendo continuare a fare satira. È un passo che Dario Fo non ha mai fatto. La satira è contro il potere. Contro ogni potere, anche quello della satira».

Il conflitto d’interesse diviene lampante: lo sberleffo assume significato solo se condotto dal basso verso l’alto, dall’oppresso all’oppressore, dal sottoposto al superiore. Luttazzi, del tutto ignaro di quanto sarebbe successo sette anni più tardi, proseguiva il suo intervento:

«Scegli, Beppe! Magari nascesse ufficialmente il tuo partito! I tuoi spettacoli diventerebbero a tutti gli effetti dei comizi politici e nessuno dei tuoi fan dovrebbe più pagare il biglietto d’ingresso. Oooops!»

Senza sollevare grande sdegno, in occasione delle Europee 2014 il leader in realtà avrebbe dato esatta attuazione a questo sottinteso divieto, percorrendo in lungo e in largo l’Italia e rivolgendo inviti a votare per il MoVimento esclusivamente dietro pagamento di un biglietto; per giunta iniettando nello spettatore accorto il dubbio atroce se le millanterie rovesciate in maniera torrenziale da parte di questo atipico comico andassero derubricate nell’ambito di un reale impegno elettorale oppure fossero funzionali alla scorrevolezza di uno spettacolo il cui scopo primario è (o almeno dovrebbe essere) il puro intrattenimento. 

Manifesto pubblicitario riguardante il tour di comizi a pagamento del leader 5 Stelle
A descrivere questa ambiguità ha comunque provveduto in maniera egregia un altro acuto satirico, Vauro Senesi, scrivendo una lettera a Dario Fo sulle colonne del «Fatto Quotidiano» circa il V-Day del settembre 2013:

«Nelle mie orecchie le tue parole si erano perse, coperte dagli strilli di un pagliaccio. Dovrei dire di un ex pagliaccio. Perché, a differenza di te e di me che pagliacci siamo e siamo rimasti, quel pagliaccio si è fatto capo. Il giullare che si fa re. Quando il giullare si fa re la magia della satira svanisce. Le stesse parole che dalla bocca del giullare hanno il suono triste e allegro dello sberleffo e del pernacchio, nella bocca del re assumono quello perentorio e arrogante dell’autorità. Arlecchino danza con la morte, certo, e nella sua danza c’è tutta l’ostinata e gioiosa irriverenza verso ogni forma del potere. Se invece di Arlecchino è il re che balla con la morte non c’è più l’irriverenza ed è solo una danza macabra. Non mi sono mai piaciuti i capipopolo, quelli che parlano “alla pancia della gente”. Mi piacciono ancora meno quando hanno dismesso il costume colorato di Arlecchino per indossare l’armatura cupa del condottiero infallibile».

Il «direttorio» (anche questo soltanto ratificato ma mai sottoposto al dibattito dei militanti) da un anno a questa parte pare svolgere un ruolo di supporto al leader; ma nonostante questa oscura
I parlamentari del MoVimento
investitura il carisma del comico pare ancora essere determinante per le sorti del MoVimento. Necessario anzitutto come volto da spendere mediaticamente, nel maldestro tentativo di fornire una verniciata di spensierata goliardia al click-baiting senza scrupoli della Casaleggio Associati e occultare le manovre di un MoVimento che si trova a fare i conti con molteplici ambizioni e difficoltà amministrative. Ma necessario anche per garantire una patina di «immunità» sulle parole pronunciate: senza erigere un muro divisorio tra il ruolo della satira e la dialettica politica, il comico può permettersi di dispensare diktat (talvolta umiliazioni) senza suscitare grandi clamori.


Del resto, Grillo è pur sempre un comico. O no?

Nessun commento:

Posta un commento