martedì 16 dicembre 2014

Mafie in bagna cauda





La conseguenza più nefasta dell’assenza di autorevoli poteri strutturati, e di conseguenza della distanza sempre più siderale tra la cittadinanza e l’ordine legale si concretizza nel fenomeno del crimine organizzato, tanto più forte dove e quando sono più forti i sentimenti anti-istituzionali, anti-statali e anti-legalitari. Più vivo che mai, quindi, nei periodi di crisi economica e di sfiducia collettiva; e più vivo nelle aree dove il senso civico è storicamente più limitato, il Mezzogiorno in particolar modo. Ciò non toglie, comunque, che la portata del fenomeno mafioso raggiunga apici sbalorditivi lungo tutto l’asse della Penisola. Alcuni dati possono aiutare nella comprensione di questa vastità: la rivista «Fortune» stima un giro d’affari assimilabile a quello della Apple e della Bank of China sommate tra loro, con un guadagno netto di 104 miliardi nel solo 2011. Sos Impresa si spinge oltre, denunciando un business annuo oscillante intorno ai 138 miliardi (la General Motors gli fa un baffo) mentre gli economisti Michele Bagella e Francesco Busato sono giunti alla conclusione che il solo riciclaggio di denaro sporco abbia un valore di 200 miliardi, circa il 12% del Pil.
La vecchia immagine del mafioso con la coppola in testa e la lupara sulle spalle appartiene tutt’al più a qualche foto sbiadita e a qualche cimelio cinematografico. La realtà attuale del fenomeno mafioso è ben più camaleontica, trasversale, omertosa e onnipresente. Non conosce limiti né geografici, né affaristici nella sua spietata attività. Si serve della politica e la adopera a suo uso e consumo. Si serve della finanza e nel contempo la manovra a piacimento. E non da oggi. Già nell’estate del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi giorni prima di finire crivellato sotto i colpi di una mitragliatrice, affermò nel corso di un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca: «La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha grossi investimenti edilizi, commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere…». Si parlava già allora di «maggiori città italiane», senza troppe distinzioni tra le varie collocazioni geografiche. Di conferme in tal senso ne abbiamo, purtroppo, quasi tutti i giorni. Sperando di non urtare la sensibilità del governatore lombardo Bobo Maroni, è indicativo l’ascolto di alcune intercettazioni di membri della ‘ndrangheta (i «locali» non sono altro che le «succursali» del nucleo centrale operante in Calabria): «Siamo 500 uomini, Cecè, non siamo uno…Cecè, vedi che siamo 500 uomini qua in Lombardia, sono 20 locali aperti…». Secondo la relazione dell’Antimafia di «sedi» nella regione meneghina ce ne sono non meno di 26, tutte dotate «di autonomia affaristica, ovviamente su basi illegali e retti ognuno da un referente principale». Un’autonomia che arriva però soltanto fino a un certo punto e che bisogna inserire in un sistema a ragnatela di notevole complessità. In ogni caso, l’apertura di questi «sportelli» è sempre motivo d’orgoglio, tant’è vero che si svolse addirittura un brindisi (filmato da una videocamera nascosta) nella città della Madonnina a cui presero parte alcuni boss di primo piano della ‘ndrangheta lombarda con «alle loro spalle», secondo le parole del «Corriere della Sera», «una grande foto in bianco e nero» che «ritrae i giudici Falcone e Borsellino. Sono le 21.40 di sabato 31 ottobre 2009 a Paterno Dugano, hinterland di Milano. Nel circolo Arci intitolato ai magistrati trucidati da Cosa nostra, si svolge uno dei più importanti summit della ‘ndrangheta al Nord».
Bisognerà aspettare l’ottobre del 2013 prima di vedere lo scioglimento di un comune della Lombardia a causa delle contaminazioni mafiose. Si tratta di Sedriano, paese dove l’infiltrazione della ‘ndrangheta era così pressante da avere, secondo le accuse, fagocitato il gruppo Perego costruzioni, impresa dal respiro internazionale che costringerà la magistratura a vederci chiaro in ben 64 cantieri e, manco a dirlo, in molti appalti relativi all’Expo del prossimo anno. Solo il coraggio di una giovane giornalista, Ester Castano, ha permesso di scoperchiare questo vaso di Pandora. Altrimenti il sentimento prevalente è quello della più squallida omertà, testimoniata inequivocabilmente dal fatto che su 27.000 operazioni sospette denunciate a Bankitalia nel corso del 2010 solo 223 sono arrivate da soggetti esterni alle banche. «Quando ho iniziato a lavorare e a prendere in mano le redini dell’impresa», confessa un impresario edile del milanese, «avevo ben presente che era opportuno non entrare mai in conflitto con le aziende dei Papalia e con le imprese della famiglia Barbaro perché mafiose. Come ho detto, questa è la ragione per cui non vado a lavorare in certe zone…»
«Il mondo delle libere professioni e il mondo dell’impresa o non percepiscono i rischi oppure non li vogliono segnalare», concluse amaramente l’allora presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu. E nella caparbia volontà di non voler segnalare non concorrono soltanto la paura o il rischio di infangare il buon nome della propria città. Come ha spiegato durante un’audizione al Parlamento il prefetto di Padova Ennio Mario Sodano: «Esiste una scarsa consapevolezza dei rischi di penetrazione della mafia nell’economia in ragione del fatto che gli imprenditori ritengono ingenuamente di potersi servire dei mafiosi» per risolvere i mille problemi che le attanagliano in questi anni, finché «finiscono per rimanerne vittime con la perdita del controllo delle aziende», spesso con esiti di pesante drammaticità (si pensi al suicidio di molti piccoli imprenditori). Emblematica la vicenda della Blue Call, call center di Cernusco sul Naviglio gestito da due soci con quasi novecento dipendenti e 14 milioni di fatturato. Nel pieno dell’attività, dovendo riscuotere un credito, ben lungi dall’affidarsi nelle mani dell’odiata struttura pubblica, i soci si rivolgono alla cosca del Bellocco di Rosarno. Il prezzo di questo «servizio» sarà salatissimo: l’azienda finisce nelle mani della ‘ndrangheta, con la perdita del lavoro da parte di seicento lavoratori. I commissari antimafia noteranno: «Sorprende il grado di superficialità che caratterizza la scelta dei due imprenditori, convinti di poter convivere con la ‘ndrangheta e di potersene, all’occorrenza, liberare, ripagando le quote e dandole il benservito» senza capire il reale proposito dell'organizzazione, la quale «al momento opportuno, lungi dall’abbandonare la compagine sociale, mostra il suo vero volto imponendo all’imprenditore, questa volta con i metodi propri dell’agire mafioso (pestaggi sanguinari e coltello puntato alla gola), la cessione del pacchetto di maggioranza delle quote societarie» utili alla ‘ndrangheta per usufruire dell’azienda come macchina per il riciclo di denaro sporco.
La situazione non è tanto migliore nelle altre regioni settentrionali: la Liguria, zona dove la presenza delle ‘ndrine ha una tradizione che risale addirittura al dopoguerra, viene descritta dall’Antimafia come «paradiso dove poter riciclare le ingenti ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere con sistematicità le più proficue attività di estorsione e usura, il tutto all’ombra del paravento legale offerto dal casinò di Sanremo». Ma anche il Piemonte, dove due consigli comunali sono stati sciolti per mafia nel corso del 2012 e dove sono stati scoperti otto «sportelli» della ‘ndrangheta. E che dire dell’Emilia-Romagna? I locali del gioco d’azzardo della Riviera romagnola a detta dei Ros sarebbero monopolio della camorra e Reggio Emilia sarebbe talmente infetta d’interessi della mafia calabrese da essere definita dallo studioso Enzo Ciconte «enclave in terra nemica». Poi c’è il Veneto. Per quest’ultimo caso suonano assai eloquenti le parole dell’affiliato al clan dei Casalesi Mario Crisci: «Abbiamo scelto di concentrare le nostre attività nel Nord-Est, in particolare a Padova, perché qui il tessuto economico non è così onesto. Il margine di guadagno era buono, perché la gente non ha voglia di pagare le tasse…Avevamo la disponibilità di commercialisti e notai compiacenti…» utili anche per superare il primo impatto con gli imprenditori «perché chiaramente», prosegue Crisci, «non sarebbe stato utile far vedere immediatamente la massa di meridionali con quelle facce; ci serviva ed era utile una persona del Nord-Est, che comunque parlava la lingua del cliente».
La cappa  criminale che avvolge e stritola il Paese da Vipiteno a Pantelleria conosce mille storie, mille intrecci, mille affari, mille sostegni e altrettante protezioni. Perché il «mondo di mezzo», in realtà, è un pianeta estremamente onnivoro e dotato, ahimé, di pochi ostacoli.

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