lunedì 30 novembre 2015

Viva il muro bianco

I barbari che sperano di annientare la coscienza individuale del cittadino sotto una coltre ripugnante di proiettili e dinamite non meritano una risposta all’insegna della coercizione religiosa secondo cui la reazione al putridume jihadista andrebbe riscoperta in non meglio precisate «tradizioni» - le stesse che spingevano nel 1960 il prefetto di Cremona a descrivere la proiezione de «La dolce vita» come evento attinente a «ordine e sicurezza pubblica»? – o in altrettante opinabili «identità cristiane» sotto il cui velo si rivela un malcelato desiderio d’imporre alla comunità quelle che sono credenze attinenti alla più riservata sfera personale.



Non ci si riferisce al valore storico e artistico (oramai sempre più distante dal suo originario significato religioso) dei canti natalizi o della sopraffina maestria dei presepisti, quanto all’arrogante brandire di crocifissi nei luoghi pubblici. Pubblici, appunto, e di conseguenza appartenenti indistintamente ad ogni individuo che ne rispetti l’istituzione laica, tollerante, inclusiva e discendente assai di più dalla Resistenza che dal Vangelo. Assai di più dalla breccia di Porta Pia che dai Giubilei. Assai più da Gramsci che da Pio XII. Assai più da «Cuore» di De Amicis (in cui non figura alcun cenno a simbologie di fede) che dalle encicliche pontificali. Assai più dalla storica
Don Milani rimosse il crocifisso dalla scuola di Calenzano
presenza dei partiti di sinistra più forti del mondo occidentale (con una partecipazione alla lotta antifascista seconda solo a quella jugoslava) che dall’esistenza di uno Stato Vaticano nel fulcro geografico e amministrativo della penisola. Se davvero esiste un’identità nel popolo italiano, mi si permetta d’individuarla non nel bigottismo commerciale di un Giuliano Ferrara ma nell’abnegazione laboriosa di un don Lorenzo Milani talmente consapevole della delicata mansione educativa da aver personalmente rimosso il crocifisso da ogni parete della scuola di Calenzano, ove si dedicò all’insegnamento con nobile impegno. Erano coscienti, tanto don Milani quanto un altro prestigioso cattolico come Mario Gozzini per arrivare attualmente al giurista anch’esso cattolico Valerio Onida, che istruire significa anzitutto forgiare personalità in grado di scernere con razionalità la propria condotta senza lasciarsi sopraffare da condizionamenti brutalmente imposti.

Lo jihadismo colpisce particolarmente la Francia anche per l'alta presenza di atei e il diffuso senso di laicità


Non mi si risponda che la croce, in fin dei conti, è un oggetto innocuo: ragionamento non solo blasfemo per qualsiasi credente ma ignaro di una memoria storica che ha usato l’esposizione di
simbologie religiose come strumento per marcare il proprio egemonico dominio con particolare acredine nei confronti degli ebrei tra i quali merita peculiare attenzione un banchiere mantovano vissuto alla fine del XV secolo, Daniele Norsa, la cui volontà di debellare «certe figure de santi» dal muro esterno della propria abitazione venne accolta con una condanna, pena «ch’el sia impicato inante la casa», a trasformare a proprie spese la casa stessa in una cappella adibita al culto della Vergine.
Sulla pesante responsabilità dietro l’utilizzo di un simbolo così pregno di significato quale il crocifisso non mancano esempi tra loro opposti: da un lato basti ricordare la lettera spedita dal Centro Simon Wiesenthal all’ambasciatore polacco negli Stati Uniti per denunciare con meditato sdegno la presenza di parecchie croci all’interno del lager di Auschwitz. Il gruppo di ebrei, molti dei quali sopravvissuti all’Olocausto, riteneva a dir poco indelicato «imporre simboli cristiani alla sofferenza ebraica».

Dall’altro, non poca rilevanza ricopre il contesto in cui la croce cominciò con stabilità la sua tronfia occupazione dei luoghi pubblici: è il periodo della guascona violenza delle camicie nere, della volgare prepotenza dell’olio di ricino, del nauseabondo stormire di bastoni. Il periodo in cui Curzio Malaparte acclamava fervidamente questo atroce dinamismo descrivendolo come «specie di vendetta della terra sulle città sine Deo» che vedeva come protagonista 

«l’esercito agreste, lento e solenne all’assalto delle città moribonde, recando innanzi le immagini dei Santi, le mensoline con gli amuleti, i paramenti sacri, i tappeti di porpora tesi fra due pali, i baldacchini con sotto i vecchi, i preti e signori di campagna, e ancora elmi da frate infilati sui badili e sulle zappe, gonfaloni selvaggi e stendardi paesani con le scritte Virgo virginum, Christus imperat, e i grandi Crocifissi trionfanti» compatti nel desiderio di sfogare la propria atavica vendetta contro gli «ebrei socialisti», gli «uomini di piazza, di governo, di caffè, di università, d’accademia» colpevoli di aver «sputtanato in mille modi l’Italia eroica, santa, cristianissima del 1821».

Tra i primi provvedimenti del governo Mussolini, quello d'imporre il crocifisso nei luoghi pubblici

Immagine sotto molti aspetti truffaldina ma al contempo intimamente sentita in una vulgata fascista che, a partire dalle svariate messe celebrate in occasione degli anniversari della «marcia su Roma», rivendicava come cardine della propria azione «la Croce e il coltello» per citare ancora una volta i deliri di un Malaparte in preda ad un entusiasmo che lo portava a vedere nel trionfo del regime l’affermazione del «Cristo cattolico», «armato», «implacabile» e in grado di «resistere al male».

Di conseguenza, il 22 novembre 1922 una circolare dell’appena insediato governo Mussolini impone un perentorio diktat circa la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, già sancita da
un provvedimento del 1859 ma evidentemente non attuata col rigore necessario, reclamando: 

«In questi ultimi anni, in molte scuole elementari del Regno sono state tolte le immagini del Crocifisso e il ritratto del Re»: «aperta e non più oltre tollerabile violazione d’una precisa disposizione regolamentare», insultante nei riguardi della «religione dominante dello Stato» e finanche del «principio unitario della Nazione». Conclusione: «Si fa pertanto formale diffida a tutte le Amministrazioni comunali del Regno, perché sieno immediatamente restituiti alle scuole, che ne risultino prive, i due simboli sacri alla fede e al sentimento nazionale».

A firmare il proclama provvede il sottosegretario all’Istruzione Dario Lupi, lo stesso che ad esempio nel febbraio 1923 avrà modo di proclamare a corredo di un comizio: «Chi viene a noi, o diventa nostro, anima e corpo, spirito e carne, o sarà inesorabilmente stroncato».
Tempo neanche un mese e il 16 dicembre 1922 i prefetti del Regno ricevono la seguente circolare:
«Le SS. LL. vorranno richiamare l’attenzione dei Sindaci sul preciso intendimento del Governo di non tollerare alcuna trasgressione alle disposizioni impartite» a cui faranno seguito analoghe disposizioni sull’esposizione del crocifisso in tutti i luoghi pubblici (ordinanza ministeriale dell’11/11/1923), in tutte le scuole medie (regio decreto del 30/04/1924), in tutti gli istituti scolastici (circolare ministeriale del 26/05/1926).

Un’ossessione in cui è difficile non scorgere il rilievo ad essa riservata nella feroce opera d’indottrinamento degli italiani del futuro. Si ritiene questa pagina di storia degna di perpetuazione?
Orbene, per completezza si sancisca che di fianco al crocifisso venga appesa anche l’effigie del Duce Benito Mussolini, che «alla testa delle Camicie Nere preparò, contro la civiltà della rinunzia, la più grande delle rivoluzioni». A voler essere fiscali, questo impone la «tradizione storica della croce nei
luoghi pubblici» (rifarsi ai blandi provvedimenti del 1859 cambia poco: in tal caso si proceda all’affissione di «un ritratto del Re»).

Fortunatamente il progredire dei decenni ha spinto alcuni valorosi magistrati della Corte di Cassazione, fuori dal salmodiante coro politico-mediatico, ad assolvere un professore di Cuneo restio a svolgere le sue mansioni di scrutatore in presenza del crocifisso adoperando - siamo nel 2000 – parole meritevoli di essere scolpite: 

«L’imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto della fede, che ogni immagine religiosa simboleggia».

Concetti peraltro ben sedimentati nella concezione pubblica di zone con tradizioni religiose per molti versi analoghe a quelle italiane: a partire dalla Baviera che fin dal 1995 impone di eliminare simboli religiosi dalle scuole in mancanza di accordo unanime tra tutte le famiglie della classe per arrivare alla Francia che fin dal 1905 vieta di «apporre segni o simboli religiosi sui monumenti pubblici, e in qualsivoglia luogo pubblico» passando per una Spagna in cui ebbe modo di svolgersi pochi anni orsono un dibattito attorno alla «legge organica sulla libertà religiosa» concernente anche il divieto di affissione di simboli religiosi nelle pareti istituzionali.


Alle nostre latitudini si preferisce rimanere appesi, anche letteralmente, a dogmi da imporre in pubblico tralasciando i luoghi in cui effettivamente le croci hanno tutto il diritto d’insediarvi: strutture private e luoghi di culto ove però sovente i crocifissi o vanno scomparendo o vegetano dimenticati.

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