mercoledì 4 novembre 2015

Educazione come progetto economico

Qualche anno fa un team di economisti giunse a scrivere che «la questione chiave non è se le modalità di governo dovrebbero rispondere meglio alla crisi finanziaria, ma come dobbiamo attrezzarci per comprendere che la crisi è una modalità di governo» (da J. Brasset e N. Vaughan-Williams, «Crisis is Governance. Sub-prime, the Traumatic Event, and Bare Life» su «Global Society», XXVI, gennaio 2012, n.1, pag.42) lasciando chiaramente trapelare la convinzione che la recessione in atto lungi dall’essere – come apparentemente dovrebbe sembrare – un imbarazzante fallimento delle dottrine economiche imperanti sia da interpretare al contrario come il pretesto migliore da un lato per sottrarre al controllo democratico i residuali servizi di garanzia pubblica e dall’altro per riuscire letteralmente a formare il cittadino secondo i canoni di un Homo oeconomicus in grado di guardare ad ogni aspetto della propria esistenza come ad una merce scambiabile in qualsiasi mercato borsistico (sulla mercificazione in atto in Europa dei sistemi di sicurezza sociale si veda A. Heise e H. Leirse, «Haushaltskonsolidierung und das europäische Sozialmodell. Auswirkungen der europäischen Sparprogramme auf die Sozialsysteme», Friedrich-Ebert-Stiftung, Berlin 2011). 

Un obiettivo, questo, elaborato da parecchio prima che la crisi economica deflagrasse: si pensi a titolo d’esempio al cosiddetto Powell Memorandum, documento indirizzato nel 1971 al Comitato Educazione della Camera di commercio Usa ad opera dell’avvocato Lewis F. Powell secondo cui era assolutamente necessario agire su tutti i gangli della formazione universitaria, «anche là dove non siano presenti dei sinistrorsi» (da L.F. Powell, «Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System») affinché libri di testo e spazio da garantire ai conferenzieri fossero sottoposti ad uno scrupoloso controllo da parte di studiosi di provata fede nel «sistema». Sorte analoga doveva essere riservata a stampa, televisione, radio, riviste scientifiche, pubblicità e
finanche gestione delle edicole, colpevoli di esporre pubblicazioni «inneggianti a tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre non si trova quasi nessun libro o rivista attraente e ben scritto che stia “dalla nostra parte”», ossia dalla parte della destra economica, la stessa che nel giro di alcuni decenni sarebbe riuscita in maniera stupefacente ad esaudire i sogni di Powell consegnandoci un mondo in cui la dominazione culturale è saldamente monopolizzata dal dogma neoliberale: a partire dall’informazione per arrivare alle università, ove l’assalto degli ultraliberisti «ragazzi di Chicago» nelle facoltà di economia è coincisa con l’opera di discredito nei confronti dei dipartimenti di scienze umane (caso esemplare le classifiche delle migliori università del mondo, in cui si osserva la deliberata marginalità riservata ad atenei quali la Sorbonne e la Normale di Pisa) contribuendo in misura determinante a realizzare quel clima di egemonia esplicitamente denunciato da alcuni studiosi indipendenti (si veda S. Schulmeister, «Das neoliberale Weltbild – wissenschaftliche Konstruktion von “Sachzwägen” zur Förderung und Legitimation sozialer Ungleichheit», IKW WP n.115, Vienna 2006, pag.154).



Egemonia riscontrabile in vari ambiti, su tutti la pretesa delle istituzioni politiche di misurare il peso delle facoltà accademiche in rapporto al bilancio economico dell’ateneo: emblema di una incontrovertibile visione contabile di ogni aspetto della formazione del cittadino, osservabile peraltro anche nella spinta agli Istituti italiani di cultura all’estero di avere come scopo prioritario lo sponsor del Made in Italy e nella richiesta di legami università-industria sempre più saldi.
L’opera di trasferire nel campo educativo l’impostazione aziendalistica ha inizio negli uffici dell’Ocse, «capocantiere della demolizione sociale» (da S. Halimi, «Le grand bond en arrièere. Comment l’ordre libéral s’est imposé au monde», Fayard, Paris 2006, pagg.314 e seguenti) ampiamente rintuzzato da organismi quali il Cmit composti da dirigenti finanziari, accademici e funzionari ministeriali, che a partire dagli anni Novanta ideò un sistema di valutazione periodica per
gli studenti degli stati membri – il Pisa – incentrato esclusivamente su capacità di lettura, matematica e scienze dando il via ad una competizione tra le varie nazioni al fine di raggiungere i primi posti in classifica mediante riforme scolastiche cucite su misura per i risultati di quei test. Alla «catastrofe Pisa» (da J. Krautz, «Ware Bildung. Schule und Universität unter dem Diktat der Ökonomie», Diederichs e-Books, Bad Bentheim 2012) si andarono nel tempo ad aggiungersi altri convegni e think tanks concentrati sull’argomento tra cui va segnalato per importanza quello svolto a Bologna nel giugno 1999, un contesto in cui i ministri europei dell’Istruzione superiore affermarono i seguenti propositi:

 «Adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità […] al fine di favorire l’employability dei cittadini europei e la competitività del sistema europeo dell’istruzione superiore.
Adozione di un sistema fondato essenzialmente su due cicli principali […]
Consolidamento di un sistema di crediti didattici […] acquisibili anche in contesti diversi, compresi quelli di formazione continua e permanente […]
Promozione della cooperazione europea nella valutazione della qualità al fine di definire criteri e metodologie comparabili» (dal sito del Miur)

Dettami a cui in Italia il ministro Berlinguer diede rapida attuazione, a partire da un’organizzazione dei cicli universitari che in taluni casi comportò un taglio pari a un quarto della didattica.
Altro documento meritevole di attenzione è quello del Consiglio europeo di Lisbona tenutosi nel 2000:

 «5. L’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo […] Il raggiungimento di questo obiettivo richiede una strategia globale volta a predisporre il passaggio verso un’economia e una società basate sulla conoscenza.
[…]
25. I sistemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi […] Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai gruppi
Luigi Berlinguer, primo di una lunga serie di
sciagurati riformatori della scuola italiana
obiettivo nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti
[…]
26. Il Consiglio europeo invita pertanto gli Stati membri […] ad avviare le iniziative necessarie per conseguire gli obiettivi seguenti: […] un quadro europeo dovrebbe definire le nuove competenze di base da fornire lungo tutto l’arco della vita: competenze in materia di teoria dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, imprenditorialità e competenze sociali»


La conclusione è stata sagacemente offerta da un docente: «La politica della formazione è diventata da allora un elemento stabile della politica dell’occupazione e dell’economia. Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla mobilità» (da L. A. Pongratz, «Bildung im Bermuda-Dreieck. Bologna – Lissabon - Berlin» su «Schulheft», n.139, Studienverlag, Innsbruck-Wien-Bozen 2010, pag.41) ottenuta mediante una brutale degradazione del pensiero critico che la crisi economica intende tramortire definitivamente. Per questo un’opera divulgativa di pensiero alternativo e indipendente rappresenta il primo fondamentale passo per scardinare un assetto neoliberale fondato esclusivamente su dogmi di fede sempre più distanti dall’esperienza quotidiana dei cittadini

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