martedì 27 gennaio 2015

Sono contento che ha vinto Syriza



Sono contento che ha vinto Syriza perché una forza politica che fino a qualche mese fa pareva essere l’ennesimo inconsistente progetto antipolitico si è trasformato in una poderosa corazzata pregna di valori, contenuti e progetti.

Sono contento che ha vinto Syriza perché finalmente una quota importante di cittadini si è rifiutata di credere alle menzogne inculcate dai media e dai governi sulle origini della crisi. Ci hanno provato in ogni modo a far passare lo spregevole messaggio che la recessione fosse causata da un’eccessiva generosità della spesa sociale. A titolo d’esempio, uno tra i più autorevoli periodici europei, «Die Zeit», scriveva nel 2011: «Di certo l’epoca dei debiti ha creato in Occidente un benessere di massa storicamente unico, anche se la forbice tra alto e basso ha continuato ad allargarsi. Più benessere, più assistenza sociale e pensioni migliori hanno sopraffatto lo stato sociale, quello che fu un tempo il fastoso apparato della civiltà occidentale. In Europa l’assistenza statale a fronte di una popolazione che invecchia con una speranza di vita crescente ed elevate garanzie pensionistiche sta diventando lentamente impagabile; in America, con la sua minore tradizione statalista, giganti industriali sono messi in ginocchio a causa delle pensioni aziendali garantite» (J. Krönig, «Die Zeit des Massenwohlstandts ist vorbei», «Zeit Online», 14/12/2011, pag.3). Nulla di più falso: rimanendo nella nostra Italia, la spesa per la protezione sociale non solo è finanziata per più del 50% dai contributi versati da lavoratori e imprese, ma da un ventennio a questa parte è rimasta pressoché costante e perfettamente nella media europea. Andando nel dettaglio, i dati Istat ci informano che nel 1999 questo tipo di spesa costituiva il 23,9% del Pil, nel 2008 il 24,4% e nel 2012 il 26,5% (non ci si faccia illusioni sull’aumento: in gran parte esso è dovuto alla vertiginosa caduta del Pil verificatasi in questi ultimi anni). Nessun collegamento, quindi, né con l’aumento della spesa pubblica, né con l’aumento del debito, ambedue dovuti quasi esclusivamente all’incessante accrescersi degli interessi da pagare sui titoli di Stato. Se depuriamo la quota d’interessi (circa il 5% del Pil) dal resto della spesa, scopriremmo che la spesa pubblica del nostro Paese è (stando ai dati del 2012) la più bassa d’Europa: il 45,2% del Pil, contro una media dell’Eurozona del 46,8%.

Sono contento che ha vinto Syriza perché in molti hanno compreso che la vera causa della grande crisi globale va ricercata nei mercati finanziari, divenuti abnormi, onnipresenti, onnipotenti (in Europa, tramite qualche tocco di tastiera, le banche sono in grado di creare denaro a profusione sotto forma di titoli e derivati di ogni genere, un’azione che non è concessa nemmeno alla Bce) e intoccabili non grazie ad una semplice deregulation: al contrario, da una lunga, curata, mirata e incessante azione legislativa finalizzata esclusivamente ad accrescere la libertà della finanza. Nella sola Germania, un rapporto della Rosa-Luxemburg-Stiftung annovera la bellezza di 95 atti legislativi varati dal Bundestag tra il 1990 e il 2009 che procedono speditamente in questa direzione: tra questi quattro leggi sulla promozione dei mercati finanziari, due leggi atte ad allargare il campo di attività degli istituti di credito, una legge che promuove acquisizioni d’imprese e fusioni, una per la modernizzazione degli investimenti (con particolare riguardo per quelli finanziari). Non si tratta d’indolenza o di una semplice resa incondizionata nei confronti dell’economia più spietata. Parliamo di una scelta ponderata dai governi, tant’è vero che tutti i trattati e, nel caso italiano, addirittura le modifiche costituzionali che pongono severi vincoli alle politiche pubbliche sono stati stilati e approvati dai parlamenti nazionali senza alcuna costrizione. Lo ha spiegato con una disarmante schiettezza la Cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte al Parlamento del suo paese (erano i primi di settembre del 2011): «Noi viviamo certo in una democrazia, una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un diritto centrale del Parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante essa sia conforme al mercato».

Sono contento che ha vinto Syriza perché finalmente sono stati compresi i risultati di questo sbalorditivo e pluridecennale scatenamento finanziario: gli effetti diretti si sono visti quando sei milioni di famiglie sparpagliate tra Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda e Spagna si sono ritrovate improvvisamente senza casa (perché incapaci di sostenere un mutuo truffaldino e frutto di chissà quale contorto trucco bancario), quando altrettanti cittadini onesti si sono ritrovati privati dei loro fondi pensioni, delle loro assicurazioni sanitarie e dei loro risparmi dopo il crollo dei titoli per lo più inconsistenti su cui avevano investito e quando in tutto il pianeta circa 60 trilioni di dollari (di titoli e immobili, qualcosa come il Pil del mondo) sono evaporati nei soli primi due-tre anni della crisi. Una sorte amarissima che ha scalfito in misura minima i grandi patrimoni i quali, anzi, in questi anni si sono rinvigoriti al punto tale che secondo uno studio dell’Istituto di ricerca del Crédit Suisse (Global Wealth Report 2012, Crédit Suisse Research Institute, Zürich 2012, pag.18, fig.1), nel 2012 lo 0,6% della popolazione mondiale adulta del mondo deteneva una ricchezza di circa 88.000 miliardi, quasi il 40% della ricchezza globale. Suscita autentico disgusto pensare che ciascun membro di questa ristretta élite possieda una ricchezza superiore di 1315 volte rispetto a quella di ogni componente del 69% della popolazione mondiale più povera, la quale complessivamente arriva a detenere non più del 3,3% della ricchezza globale. Nello studio di queste disuguaglianze, «uno sviluppo chiave», spiega l’International Labour Organization («World of Work Report 2008: Incombe In-equalities in the Age of Financial Globalization», Genève 2008), «è stato l’uso dei cosiddetti “sistemi di compenso basati sulla prestazione” degli alti dirigenti e direttori. Il risultato è stato un rapido aumento della loro paga. Negli Stati Uniti, ad esempio, tra il 2003 e il 2007 la paga dei top manager crebbe in termini reali del 45 per cento […] a paragone di meno del 3 per cento del lavoratore medio. Per cui nel 2007 l’alto dirigente delle maggiori 15 società guadagnava più di 500 volte il dipendente medio, contro le 300 volte del 2003. […] Nell’insieme, l’evidenza suggerisce che gli sviluppi del compenso dei dirigenti potrebbe essere stato tanto un fattore di aumento della disuguaglianza quanto inefficiente sotto il profilo economico». E ancora: «La tassazione è diventata meno progressiva nella gran maggioranza dei Paesi e quindi meno capace di ridistribuire i guadagni dello sviluppo economico. Ciò riflette un taglio delle imposte a carico degli alti redditi. […] Tra il 1993 e il 2007, l’aliquota media dell’imposta sulle imprese è stata tagliata (in tutti i Paesi per cui esistono dati) di 10 punti percentuali. Nel caso dell’aliquota massima sui redditi personali, nello stesso periodo essa viene ridotta di 3 punti». Una sorte assai diversa rispetto a quella dei salari. Nei quindici Paesi Ocse (Ocse, Croissance et inégalités, Paris 2008, pag.38, riq.12), la quota dei salari sul Pil (compresi quelli dei lavoratori autonomi) è diminuita mediamente di dieci punti tra il 1976 e il 2006, calando all’incirca dal 67 al 57% (l’Italia ha subito una sorte addirittura peggiore: è passata dal 68 al 53%).

Sono contento che ha vinto Syriza perché una massa di cittadini indignati ha capito che l’austerità dell’Europa procede a senso unico: mentre le istituzioni rimangono indifferenti (imponendo, al contrario, ancora più tagli alla spesa sociale, ancora meno vincoli ai mercati e ancora meno protezione per i lavoratori) di fronte ad un esercito di 26 milioni di disoccupati, ad una compagine di lavoratori sfruttati e a 120 milioni di persone a rischio povertà che si aggirano per il continente, la generosità nei confronti degli istituti finanziari responsabili di questa tragedia collettiva pare non conoscere limiti: secondo T.J. Doleys («Managing State Aid in Times of Crisis: The Role of The European Commission», paper presentato alla V Conferenza paneuropea sulla politica della Ue, Università di Oporto, giugno 2010, pag.1) tra l’ottobre del 2008 e l’aprile del 2010 i governi europei hanno concesso 4,13 trilioni di euro (4.130 milioni) come sostegno ai gruppi finanziari colpiti dalla crisi. Sostegni, questi, che hanno contribuito in maniera non indifferente all’incremento dei debiti pubblici, la cui riduzione è stata fatta pagare esclusivamente alle categorie meno abbienti.

Sono contento che ha vinto Syriza perché insieme a lei ha trionfato anche la democrazia, intesa come gestione collettiva del benessere pubblico fuori da ogni principio di avido (e arido) mercantilismo e come primato dei bisogni del cittadino su ogni logica di competitività produttivistica. Un primato che in questi anni è stato esclusivamente riservato ai capricci di pochissimi. Queste, ad esempio, le parole pronunciate dal governatore della Bce Mario Draghi nel febbraio del 2013: «Quel che i mercati sanno, e per questo sono meno impressionati di voi giornalisti, è che le misure di aggiustamento finanziario sono già attive in Italia. E continueranno a operare con il pilota automatico». Di quale «pilota automatico» si va cianciando? In una nazione democratica gli unici piloti sono i cittadini in carne ed ossa, la cui volontà viene prima di ogni altra considerazione.

Sono contento che ha vinto Syriza perché l’Europa tra i suoi valori fondanti ha anche (forse soprattutto) uno stato sociale unico al mondo, in grado di proteggere qualificatamente ogni cittadino in qualsiasi frangente drammatico della propria esistenza (malattia, disoccupazione, vecchiaia e incidenti di vario tipo). Una preziosa peculiarità che, oggi grazie a Syriza e domani speriamo grazie ad altre forze analoghe, dobbiamo proteggere dagli attacchi indiscriminati di una finanza ingorda e rapace.

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