lunedì 19 gennaio 2015

Il lato nero dell'antifascismo



Quando avvengono delle dimissioni che non solo chiudono un ciclo ma, per ammissione del diretto interessato, chiudono una vera e propria epoca tra le più tormentate e discusse, arriva comprensibilmente la fase dei bilanci e delle rievocazioni. Non sono stati pochi gli opinionisti che, affrontando le pluridecennali vicende politiche di Giorgio Napolitano, hanno rievocato la giovane partecipazione (cominciata nel 1942, quando il futuro Capo dello Stato non era neppure diciottenne) ai Gruppi Universitari Fascisti e la sua collaborazione con la rivista «IX Maggio» a cui seguirà una repentina (e per questo ritenuta opportunista) iscrizione a quanto di ufficialmente stava più lontano dall’ambiente di regime, ossia il Partito Comunista Italiano.
Una vicenda già bizzarra, che assume però connotati quasi illogici se si pensa che la complicità entusiastica nei confronti del fascismo ha riguardato una compagine innumerevole di personaggi considerati successivamente (quasi sempre a ragione) degli incorruttibili tedofori dell’ideale antifascista. Un aspetto discretamente rilevante per capire un pezzo di storia del nostro Paese che, complice la preminenza comunista nel mondo editoriale, ha ingiustamente trovato ben poco spazio nel dibattito pubblico. Qualche squarcio lo apre il pur discutibile Bettino Craxi in una delle sue ultime interviste-sfogo: «Cesare Pavese era fascista, Vasco Pratolini era fascista. Montanelli, Bocca e Biagi hanno portato tutti la camicia nera e non ne parlano mai. Io li chiamo gli extraterrestri…» (ad essere onesti Montanelli lo ammise spesso, senza però riconoscere la responsabilità di quella scelta).

***

Non molti ricordano, ad esempio, che Carlo Cassola collaborò con la rivista «Anno XIII» di proprietà della famiglia Mussolini. Oppure che Renato Guttuso era assai attivo nei convegni sulle arti figurative fasciste, si aggiudicò il premio Bergamo e, alla fine, ricevette 25mila lire da parte del gerarca Bottai (la risposta di ringraziamento non lascia spazio ad ambiguità: «Vi ripeto la mia gratitudine e il mio entusiasmo a collaborare in “Primato fascista”»). Oppure che Vittorio Gorresio, discorrendo sui giovani nazisti, scrisse «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara» (sulla «Stampa», nel 1936, non si smentì: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce»). Oppure che Carlo Muscetta faceva parte (con Giaime Pintor e Goffredo Bellonci) della regia dei Littoriali. Oppure che Natalino Sapegno ricevette da Luigi Russo (da che pulpito! Proprio lui che era stato iscritto al Pnf e in un suo libro si era abbandonato in elogi nei riguardi del truce gerarca Farinacci!) l’accusa di «essere andato in divisa della Gil a propugnare l’asse Weimar-Roma». Oppure che Ruggero Orlando collaborava con la «Difesa della razza» suggerendo caldamente di «sposare le rivendicazioni [della Germania nazista, ndr.] per ragioni di giustizia sociale e di difesa civile». Oppure che Giorgio Bocca prima nel 1941 elogiava i «Protocolli dei Savi di Sion» («Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi», queste le sue parole, «la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù») sul settimanale della federazione fascista di Cuneo «La provincia Granda», poi sulla stessa rivista nel gennaio 1943 si vantava spavaldamente di aver tirato un sonoro ceffone ad un pendolare reo di essersi espresso denunciando la disfatta imminente dell’Italia in guerra.
Oppure che Guido Piovene scrisse nel 1938 sul «Corriere della Sera»: «Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita. Di sangue diverso, e coscienti dei loro vincoli, non possono che collegarsi contro la razza aliena». Oppure che Pietro Ingrao vinse il premio «Poeta di Mussolini». Oppure che Enzo Biagi collaborò con «Primato», «Architrave» (organo del fascismo bolognese), il «Resto del Carlino» fino quasi all’estate 1944 (con tanto di finanziamento da parte del Minculpop), nonché con il celebre foglio antisemita «L’Assalto» (tra le cui firme comparivano anche Giovanni Spadolini e Carlo Lizzani) dove recensendo un film nazista concluse che «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». Oppure che Giovanni Calendoli venne nominato capo ufficio stampa del Partito Nazionale Fascista vantandosi delle sue idee antisemite. Oppure che Paolo Emilio Taviani firmò nel 1936 un pezzo su «Vita e Pensiero» nel quale si annoveravano affermazioni come: «L’Italia ha il suo Impero perché attua i principi mussoliniani del vivere pericolosamente, del credere, dell’obbedire, del combattere». Oppure che Ruggero Zangrandi coltivava l’amicizia di Vittorio Mussolini considerando, in uno dei tanti scritti dell’epoca, che «solo un’Europa fascista potrà scongiurare il pericolo che la minaccia: il comunismo». Oppure che Elio Vittorini ricevette nientemeno che la qualifica di squadrista presente alla marcia su Roma (nel 1942 figurava ancora nell’elenco dei rappresentanti della cultura fascista al convegno nazista di Weimar). Oppure che Eugenio Scalfari (chiamato affettuosamente dal gerarca Bottai «il mio Peppino») fu promosso nel 1942 redattore capo di «Roma fascista», nel quale scriveva cose del tipo: «Occorre ritornare a quel pilastro centrale di tutta la costruzione fascista che si chiama nazionalismo e verso il quale logicamente ci conduce la stessa sistemazione corporativa». Oppure che Corrado Alvaro (romanziere apprezzato dallo stesso Mussolini) lodò pubblicamente la costruzione di Littoria, si aggiudicò il premio Mussolini dell’Accademia d’Italia della letteratura e, dulcis in fundo, nel libro «Terra nuova» riconosceva al Duce una «straordinaria umanità…una precisione che dava ai suoi atti quasi una chiaroveggenza…raggiante come sempre quando si trovava davanti alla gente del popolo…». Oppure che Piero Bargellini aderì al «manifesto della razza» lasciandosi andare a frasi del tipo: «Uomini come Mussolini non hanno niente da invidiare ai Cesari, anche nel fisico, anche nelle parole, anche nei gesti…». Oppure che Amintore Fanfani approvò non solo il sistema corporativo, ma arrivò a raccomandare «la separazione dei semiti dal gruppo demografico nazionale» nella prospettiva che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri». Oppure che Norberto Bobbio era iscritto sia al Guf che al Pnf (essenziale per proseguire l’insegnamento). Oppure che Cesare Pavese ammiccava al nazismo. Oppure che Luigi Meneghello, stando a quanto scrive Mirella Serri, vinse il primo premio ai Littoriali con un testo su «Razza e costume della coscienza fascista». Oppure che Luigi Comencini non rinunciava a mettersi in mostra in occasione dei Littoriali del cinema. Oppure che Alberto Lattuada ha collaborato con «Libro e Moschetto», legato a doppio filo al Guf di Milano. Oppure che Mariano Rumor spedì un suo saggio al «Popolo d’Italia» diretto dalla famiglia Mussolini. Oppure che Giuseppe Ungaretti si definì «fascista in eterno» partecipando con fervore a vari appelli inneggianti al regime. Oppure che Aldo Moro asserì: «La razza è l’elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato». Oppure che Benigno Zaccagnini ha redatto nel 1939 un articolo su «Santa Milizia» che si scagliava contro «una eccessiva dilatazione dei confini razziali» mettendo in guardia dal «non confondersi o mescolarsi con altre genti». Oppure che Giuliano Vassalli nel 1939 partecipò ad un convegno di collaborazione giuridica italo-tedesca con tanto di documento in cui si asseriva l’impegno a «difendere i valori della razza con l’assoluta e definitiva separazione degli elementi ebraici dalla comunità nazionale». Oppure che Davide Lajolo divenne funzionario delle federazione fascista di Ancona non prima di essersi arruolato volontario per andare a combattere in Spagna nella coalizione nazifascista. Oppure che Pier Paolo Pasolini aveva partecipato nel 1942 al convegno di Weimar sugli scrittori europei. Oppure che Piero Calamandrei, pur di conservare la cattedra universitaria, giurò fedeltà al fascismo e, successivamente, strinse amicizia col gerarca Dino Grandi. Oppure che Fidia Gambetti dirigeva diverse riviste di regime (con la valida collaborazione di personaggi come Salvatore Quasimodo, Mario Tobino, Lorenzo Viani, Libero Bigiaretti, Massimo Bontempelli, Filippo de Pisis, Giorgio Bassani, Giorgio Caproni e vari autori, molti dei quali destinati ad un avvenire nel Pci) fino a partire volontario per il fronte russo. Oppure che l’Accademia del regime, notoriamente antisemita, annoverava Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi e Ada Negri. E tralascio, per pietà al lettore, l’elenco sterminato di futuri antifascisti che collaborava attivamente con la rivista «Primato» diretta dal gerarca Bottai.
La studiosa Ruth Ben-Ghiat osservò che persino con la promulgazione delle leggi razziali «nessuno si dimise dagli istituti e dalle accademie che i loro colleghi ebrei furono costretti ad abbandonare, e pochissimi rifiutarono collaborazioni con giornali ed enti impegnati nella propaganda antisemita o onorificenze e premi da essi assegnati».

***

Un po’ più di rilevanza, dovuta però soltanto alle rocambolesche avventure che contorneranno la vicenda, l’ha avuta l’esperienza di Dario Fo. Il premio Nobel che sulle colonne del «Corriere della Sera» accusava lo scrittore ex-militante delle SS Günter Grass con le parole: «Io ho confessato il mio passato, Grass ha fatto male a parlare solo oggi» dimentica non solo le querele che inizialmente riservava ai giornali che osavano scavare sul suo trascorso repubblichino, ma anche le spudorate menzogne raccontate per anni su un presunto doppio gioco messo in campo per agevolare la Resistenza. Solo le sonore smentite dei testimoni dell’epoca (il suo istruttore parà Carlo Mario Milani mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe») sia una sentenza del 7 marzo 1980 emessa dal Tribunale di Varese la quale sancisce: «È perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani» (una sentenza priva di ricorso, quindi da considerarsi definitiva) lo costringerà di malavoglia (in pubblico cerca sempre, infatti, di evitare l’argomento) a una lieve confessione: «Non l’ho fatto per convinzione ideologica. L’ho fatto per paura», disse in una rarissima occasione in cui affronta questo trascorso. Pazienza se Ercolina Milanesi la racconta diversamente: il giovane Dario lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui». Di tutta la storia una cosa è sicuramente certa: Dario Fo si arruolò volontario per la Repubblica Sociale finendo prima nel battaglione Azzurro di Tradate, e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini.
Concludo l’excursus con le parole dello storico Roberto Vivarelli, il quale evidenzia come gli italiani nel 1942 «ancora attendevano quanto meno senza turbamento una possibile vittoria dell’Asse fascista, per la quale facevano la loro parte, uomini che poco più tardi saranno figure di spicco della Resistenza: bastino, ad esempio, i nomi di Giorgio Bocca, Davide Lajolo, Giovanni Pirelli, Giaime Pintor [il quale nel 1941 aveva ammirato su «Primato» «l’adorazione della guerra come modo di vita e di conquista di un mito a cui sorreggersi dei buoni soldati del Reich», ndr.], Nuto Revelli. Solo di fronte al drastico rovesciamento della situazione militare, solo come reazione all’incalzare di eventi bellici che facevano ritenere come ormai inevitabile la sconfitta dell’Italia fascista e della Germania nazista, il sentimento pubblico subì da noi un sempre più rapido cangiamento, sicché all’indomani del 25 luglio la maggioranza del paese si scoprì e si dichiarò antifascista».
Di certo l’opportunismo è un fenomeno che contraddistingue gli italiani nella storia (Giorgio Bocca, nel suo monumentale volume «Storia dell’Italia partigiana», calcolò che all’inizio del 1944 si contavano non più di 15mila partigiani, destinati a diventare 80mila nel marzo 1945, 130mila nell’aprile 1945 e 250mila dopo la Liberazione), ma muovere una simile accusa a persone che di lì a qualche mese avrebbero addirittura rischiato la vita (e talvolta la persero) in nome della libertà appare profondamente ingiusto. Parlare di costrizione in certi casi non è sufficiente: nessuno ti costringeva a collaborare con riviste del regime. Bisogna allora ammettere che la gran parte dei personaggi sopra citati nutrisse sincero apprezzamento nei confronti del fascismo. Colpa dell’educazione? Colpa di un disagio collettivo verso i valori liberali? Colpa di una convinzione che vedeva la democrazia come un vecchio rottame? Colpa di una visione del fascismo come risolutore delle ingiustizie sociali (in fin dei conti il programma del 1919 presentava connotati tipicamente di sinistra)? Un dibattito che sarebbe auspicabile riprendere senza preconcetti ideologici.

Nessun commento:

Posta un commento