sabato 21 marzo 2015

Buona fortuna, Venezia



Era il febbraio 2014 quando alla Corte dei Conti saltò in mente di citare in giudizio nientemeno che l’agenzia di rating Standard & Poor’s reclamando un risarcimento danni da 234 miliardi di euro. A rendere singolare la notizia è l’accusa mossa nei confronti dell’agenzia: nel valutare la tenuta finanziaria del nostro Paese ci si sarebbe scordati d’inserire il valore del patrimonio artistico e culturale. «Quanto valgono “La Divina Commedia”, “La dolce vita” o la Cappella Sistina di Michelangelo in termini di bilancio pubblico e di spread?», si domandava, forse senza ironia, il «Corriere della Sera» del 5 febbraio 2014, «Quanto va considerato, nella ricchezza dell’Italia, l’immenso patrimonio storico, artistico e letterario accumulato in millenni? Secondo la Corte dei Conti questa ricchezza va considerata eccome, quando si valuta l’affidabilità creditizia di un Paese».
Come un morbo che si diffonde, silenzioso e implacabile, l’ossessivo dogma neoliberale tale per cui ogni aspetto della vita umana debba essere valutato esclusivamente in base alle logiche speculative del mercato, anche la bellezza artistica del nostro sciagurato Paese finisce per vedersi attaccata addosso il cartellino dei prezzi, soggetta alle volubilità della Borsa e, chi lo sa, magari passibile di saldi invernali o di offerte promozionali. D’altronde, se ci si limita a seguire una fredda logica, i 234 miliardi richiesti dalla Corte dei Conti dovrebbero equivalere a nulla di più e nulla di meno che ad una stima dell’intero patrimonio culturale della penisola, il quale a questo punto diventa chiaramente soggetto (in barba all’articolo 9 della Costituzione) a possibili compravendite, passaggi di proprietà, affitti, cessioni, successioni ereditarie oppure, visto che a quanto pare è questo il nodo del contendere con S&P, anche a plausibili pignoramenti nel caso, non troppo remoto, che lo Stato non riesca a ripagare gli esosi interessi sui titoli di debito pubblico.
In questa tragica vicenda non potevano mancare le tesi econometriche degli studiosi, ritti sull’attenti a snocciolare le loro disquisizioni contabili: «Quantificare il valore del Colosseo è facilissimo, lo hanno già fatto» sentenziava in quei giorni l’economista Paolo Leon dalle colonne de «La Repubblica», «più difficile è quantificare Dante Alighieri» dato che, grosso problema, «alle agenzie di rating interessa il valore di mercato della fruibilità del bene». La prosecuzione è ancora più indicativa, in quanto si prova ad offrire un assaggio pratico e assolutamente disinibito di cosa significhi la valutazione economica delle bellezze. Prendendo ad esempio le mura di Ferrara «abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto a una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura che indicizzato nei secoli, insieme alla bellezza intrinseca, serve per capire l’importanza della cinta muraria di Ferrara e quanto conviene tutelarla al meglio». L’ideologia neoliberale, questa la conclusione, non solo esige di valutare le opere in termini di valenza monetaria: la negazione della bellezza va oltre, arrivando a considerare «il bene» esclusivamente come un ingombrante intralcio alla «speculazione edilizia» (sic) che si potrebbe ottenere su quel perimetro di terreno.
Se ciò può apparire semplicemente allucinante, se qualcuno comprensibilmente obbietterà che ragionamenti del genere sono inconcepibili in un Paese come il nostro, se qualche altro aggiungerà che mai e poi mai ad una persona dotata di raziocinio verrebbe in mente di stimare economicamente la sublime Venezia, ebbene è doveroso sapere che tutto ciò non solo viene apertamente discusso, ma è stato già messo nero su bianco nei testi legislativi.
La Gazzetta Ufficiale, in base alle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 85 del 2010 concernente il «federalismo demaniale» (firmato da Berlusconi, Calderoli, Tremonti, Bossi, Maroni, Fitto, Brunetta e vari altri personaggi di tale risma) ha già provveduto in data 9 dicembre 2010 a stilare un corposo elenco di «immobili» appartenenti al Comune di Venezia, a cui viene affidata la totale responsabilità, con tanto di stima economica. Qualche esempio:

«Isola di Certosa   € 28 854 000
Batteria “Daniele Manin”   € 3 885 236
Forte Morosini al Lido   € 1 936 500
Caserma di cavalleria   € 1 719 860»

E via così per un totale di 75 beni con un prezzo allegato che non ha nulla di retorico: non solo di recente si è tentato di mettere all’asta (vanamente, grazie al cielo) l’isola di Poveglia, ma anche, per usare le parole dell’archeologo Salvatore Settis, «la stessa legge prevede la possibilità di versare gratuitamente questi beni pubblici in fondi immobiliari di proprietà privata; inoltre, i Comuni sono spinti in ogni modo a (s)vendere i propri beni, tanto più che hanno l’obbligo di presentare ogni anno un “piano di alienazioni immobiliari” allegato al bilancio di previsione».
Non sappiamo quanto tempo manchi prima di vedere l’annuncio di vendita del Palazzo Ducale sulla vetrina di qualche agenzia immobiliare, ma nel frattempo abbiamo ben poco di cui rallegrarci dinnanzi alla sorte della Venezia per ora in mano pubblica. La logica del profitto, la smania del marketing, la smodata rincorsa allo sfruttamento del turista distratto stanno provocando un’intangibile demolizione della struttura sociale dei residenti. Venezia, la città più bella del mondo, è destinata a non essere più tale non tanto perché verrà a mancare la bellezza, ma perché verrà a mancare la città. Il più palpabile sintomo di questa atroce agonia lo si vede dal crollo dei residenti del centro storico, talmente vertiginoso da far impallidire addirittura i dati demografici delle peggiori pestilenze a cui è stato soggetto nei secoli passati. Già quindici anni fa a fronte di 1058 morti si registravano soltanto 404 nascite, e parliamo di un’epoca in cui c’erano ancora 65.695 anime (dati del 2001). In data 30 giugno 2014 gli abitanti del centro storico non superavano quota 56.684 (nel 1981 erano 93.598 e nel 1951 raggiungevano le 174.808).
Venezia non conosce più un tessuto urbano, uno spazio comune di confronto, un luogo di aggregazione che mantenga in vita la memoria del passato e veda sorgere i progetti per il futuro. A fronte di un assalto quasi barbarico di 34 milioni di presenze turistiche annue (secondo G. Tattara la delicata struttura del posto ne dovrebbe consentire non più di 12 milioni), il capoluogo veneto pensa solo a lanciarsi in un ingordo inseguimento del maggior guadagno ottenibile dalla mungitura di questo straripante turismo. Ecco allora che il Provveditorato agli studi, taluni uffici giudiziari, la sede dell’azienda dei trasporti, il consolato tedesco e qualche manciata di abitazioni hanno dovuto prepotentemente cedere la loro storica ubicazione sul Canal Grande pur di ospitare sempre nuovi alberghi (su quell’incantevole percorso ne sorgono più di uno all’anno), sempre più negozi di souvenir, sempre più chioschi di vario genere e sempre nuove dimore inutilizzate acquistate da qualche divo cinematografico. Ecco allora che si lasciano liberamente scorrazzare sulle acque del bacino di San Marco i mastodontici ammassi di lamiera delle navi da crociera. Ecco allora che la Regione Veneto redige un «piano casa» tra le cui finalità si prefigge la possibile presenza di 50mila posti di ricezione turistica nel centro storico. Ecco allora una sempre più consistente porzione di opinione pubblica inneggiare al patrimonio artistico come «petrolio» della nostra nazione o appellandosi alle città d’arte come «musei a cielo aperto» dimenticando l’aspetto umano, morale e sociale della bellezza artistica. Ecco allora che ben pochi si scandalizzano se nel 2006 il settimanale inglese «Observer» propone nientemeno che di trasformare Venezia in un parco divertimenti gestito dalla Walt Disney Corporation (nella città statunitense di Orlando non avviene qualcosa di analogo?).
È il concetto stesso di città, con le sue interazioni, le sue tradizioni e le sue solidarietà quotidiane, a far storcere il naso dei sacerdoti del neoliberismo: la pretesa «modernità», lo si è visto chiaramente nella «new town» de L’Aquila, impone un susseguirsi inarrestabile e senza spazi comuni di condomini svettanti. Il protagonista assoluto dev’essere solo lui, il grattacielo, simbolo, proseguendo con Settis, «del capitalismo anche nel suo travestimento cinese», «replicabile in ogni luogo a prescindere dal contesto, è oggi il volto architettonico del neoliberismo trionfante, la proiezione (in senso non solo metaforico) di una civiltà dominata dal mercato. Generare denaro dal denaro e non mediante la produzione di beni e concentrarlo in pochissime mani, al riparo dalla democrazia e dalla legge, è il dogma centrale del neoliberismo. A esso corrisponde il gigantismo del grattacieli, perfetta rappresentazione simbolica della diseguaglianza fra chi li costruisce e li possiede…e chi, invece, vi abita o vi lavora». Come si può, avvolti come siamo da questa religione, accettare che continui a sopravvivere una città come Venezia? Molto più conveniente lasciarla morire trasformandola in un contenitore di turisti e trasferire i suoi abitanti in nuovi agglomerati che rispondano fedelmente a queste pretenziose esigenze. Solo osservando quest’ottica si riescono a comprendere gli svariati progetti di Veneto City, Tessera City, Veniceland, Venice Gateway e compagnia cantando, accomunati tutti dallo sfacciato obiettivo di sradicare da Venezia i suoi abitanti. Il progetto «Aqualta 2060» presentato alla Biennale 2010 dall’architetto Julien De Smedt rimane però la più geniale tra queste proposte, in quanto prevede una «corolla di grattacieli costruiti sopra isole artificiali, che circondi la città, la protegga dalle maree, la ripopoli di veneziani». In tal modo non solo si edifica un nuovo agglomerato urbano, ma si risolve una volta per tutte l’annoso problema dell’acqua alta.
Come si sarà capito, derubricare questa sconcia deriva a questioni locali o a futili elucubrazioni non è più possibile. Gli abitanti della città non possono essere lasciati soli a fronteggiare questa situazione, non solo perché sono troppo pochi e con troppo basso potere d’influenza sulle amministrazioni comunali (il sindaco ormai viene eletto quasi esclusivamente dalle località d’entroterra) ma perché la difesa della bellezza è un ordine che deriva dalla Costituzione e dal senso civico di tutti i cittadini italiani. Sperando che il neoeletto candidato sindaco del Pd Felice Casson comprenda la portata di questa lotta rompendo per prima cosa le oscene reti corruttive dei suoi predecessori, non ci resta che augurare a Venezia una buona fortuna.

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