mercoledì 11 marzo 2015

La torta dei moderati



Tendenzialmente, l’elettorato italiano non si lascia affascinare né dai richiami egualitari della sinistra tradizionale (le sporadiche volte che ha vinto le elezioni, tale schieramento aveva come candidato premier un bonario cattolico come Prodi), e nemmeno dalla furia di chi promette rivoluzioni o cambiamenti radicali. Nonostante tutto, la larga parte della massa elettorale continua a definirsi moderata, preoccupata del proprio conto in banca che, nel bene o nel male, continua a possedere, imbestialita sì con la classe dirigente ma nel frattempo refrattaria a soluzioni troppo radicali.
Una porzione di elettorato il cui primo desiderio è la riduzione della pressione fiscale, attuata possibilmente non con una lotta all’evasione fiscale (vista come un simpatico vezzo) ma possibilmente con un attacco senza mezzi termini ai privilegi e alla corruzione della classe politica. Imbevuta delle varie denunce sciorinate nei salotti televisivi e fine conoscitrice di ogni singola pagina dell’(ottimo) libro «La Casta», questa schiera di cittadini elettori nutre il fermo convincimento che la causa di tutti i guai del mondo sia da far risalire alle gozzoviglie del Parlamento. Riduci le auto blu e sconfiggerai la disoccupazione giovanile. Elimina le spese della buvette di Montecitorio e il dissesto idrogeologico sarà solo un brutto ricordo. La mafia? Detto fatto, riduciamo lo stipendio ai barbieri di palazzo Madama ed è tutto sistemato.
Assai indicativo a tal riguardo un sondaggio dell’Ipsos condotto nell’aprile del 2012. Alla domanda: «Cosa deve essere tagliato della spesa pubblica?» ben il 57% del campione discettava disinvoltamente di sprechi e inefficienze pubbliche. All’interno di questo settore scopriamo che la stragrande maggioranza (l’83%) nutriva la convinzione che ridurre i parlamentari e i costi della politica sia praticamente sufficiente a farci dimenticare i dissesti delle finanze pubbliche, il 48% si scagliava contro gli stipendi dei dirigenti di Stato e il 37% ci aggiungeva la sforbiciata degli enti inutili. Probabilmente non basterà spiegare a questi intervistati che i pur rivoltanti sprechi pubblici corrispondono ad una quota di denaro pubblico consistente sì, ma sicuramente non tale da rimettere in carreggiata il Paese. A dirla tutta, a questa fascia di elettorato non interessa granché (anzi, può darsi pure che lo auspichi) che un taglio alla spesa pubblica sufficiente da rendere cospicuamente più leggero il carico fiscale debba intaccare ulteriormente i servizi e le protezioni sociali. L’importante è che non si vada ad urtare i propri interessi e che non ci si azzardi a scalfire le piccole e grandi illegalità quotidiane.
Una corrente di pensiero ben consolidata, sostenuta vigorosamente da non pochi editorialisti e commentatori di ogni genere, rintuzzata dalle insistenti richieste che arrivano dalle istituzioni sovranazionali, ben assimilata da una quota non indifferente di lobby e dai più disparati gruppi di pressione. Rispettabile, sia chiaro. Marcatamente di destra, indubbiamente.
Eppure attualmente questa base moderata si ritrova priva di un vero punto d’appoggio politico. La feroce lotta che le forze politiche conducono pur di accaparrarsi questa succulenta fetta di elettorato non fa altro che disorientare questa massa, confusa come una damigella con decisamente troppi e decisamente troppo chiassosi pretendenti.
Con l’inevitabile tramonto politico di Silvio Berlusconi, incarnazione e primo aedo di questa considerevole pattuglia, con naturale accanimento lo schieramento autodefinitosi di destra si abbandona ad una diatriba senza esclusione di colpi per decidere chi ne deve ereditare la primazia. C’è Raffaele Fitto, democristiano dalla cute agli alluci la cui instancabile posizione anti-governativa sembra mirata più all’esasperazione del conflitto interno al partito che ad autentica convinzione. C’è Corrado Passera, che riecheggia la stagione dei tecnici prestati alla politica (perché, in fin dei conti, a detta di molti per far quadrare i conti pubblici basta un contabile senza troppi fumi ideologici in testa) ottenendo una sporadica ribalta mediatica grazie ad una sequela d’implacabili attacchi frontali all’esecutivo. C’è una Forza Italia aggrappata al vascello traballante del vecchio leader, pronta a pendere dalle sue labbra nella speranza che solo dall’anziana fenice potrà rinascere il centrodestra. C’è appunto il vecchio leader, Berlusconi, la cui possibilità di vittoria elettorale è talmente velleitaria da costringerlo una volta per tutte ad adoperare il peso dei suoi parlamentari esclusivamente per ottenere contropartite aziendali/giudiziarie/familiari. C’è Flavio Tosi, pronto a forgiare una Lega paradossalmente antidemagogica, concreta e pronta a governare.
Rimane indubbio, però, che anche a sinistra si sia sempre provata una malcelata acquolina in bocca dinnanzi ai temi fondanti dell’ideologia moderata. Tolto dalla circolazione il temuto difensore delle tasse Vincenzo Visco, portato un inconsueto Stefano Fassina a declamare di fronte ad un’estasiata platea di commercianti un tema facilmente fraintendibile come l’evasione di sopravvivenza, costretto il governo Letta a passare gran parte del suo tempo appresso ad una pasticciata abolizione dell’Imu (con uomini del suo esecutivo, come Zanonato, pronti a fare strame dei già pallidi limiti al contante), anche la sinistra apparentemente più ancorata ai suoi valori primordiali non ha saputo resistere all’attrazione dell’universo ideologico dei moderati. Bazzecole, però, se confrontate all’attacco di artiglieria pesante che Matteo Renzi ha lanciato fin dal suo esordio di segretario pur di accaparrarsi questa fetta di elettorato. Con risultati tangibili in pochi mesi, considerato l’inaudito tripudio alle elezioni europee che ha fatto confluire nel Pd una variegata miscellanea di elettorato propedeutica del mai dimenticato progetto di «partito della Nazione» pronto ad accogliere senza remore tutti coloro che dichiarano fedeltà assoluta al suo segretario, al suo gioviale entusiasmo e alla sua inconsistente visione politica.
Riuscirà il «partito della Nazione» a mantenere sotto il proprio tetto l’universo moderato per un discreto periodo di tempo? Per Renzi l’operazione è indispensabile al fine di proseguire la sua carriera nei palazzi del potere, e a tal scopo il suo nemico più insidioso non è tanto la frangia più sinistrorsa del suo partito (la cui denigrazione, anzi, giova al risultato) bensì la possibile ricostruzione di un polo moderato a lui alternativo. Avversari agguerriti e difficilmente inquadrabili in un’ottica di governo come Grillo e Salvini non fanno altro che cementare la porzione dei moderati tra le fila del Pd, regalando al segretario dem la paradisiaca opportunità di una campagna comunicativa basata sulla contrapposizione tra forze di governo e forze estremiste antisistema.
Un timore, quello del polo moderato di centrodestra, comune fra l’altro anche all’arrembante leader leghista, che si contende con Renzi gli elettori berlusconiani nella speranza (temo vana) di portarli in un agglomerato melmoso che mescola lepenismo, folklori locali e Tea Party. Rimane comunque il fatto che Salvini e Renzi condividano sottotraccia la medesima battaglia finalizzata a tenere ben disgiunti i vari fronti dell’area popolare, in particolar modo Forza Italia e Nuovo Centrodestra.
Ci siamo infatti dimenticati dell’altra variabile, apparentemente secondaria, del gioco dei moderati: quell’Angelino Alfano che vuole sì a tutti i costi entrare tra i rifondatori del campo, ma si ritrova incastrato nel capire se la strada gli sarà più agevole seguendo un politicamente frastornato Berlusconi o un Pd che, pur pesantemente renzizzato, annovera al suo interno una considerevole fetta di nostalgici del Pci. Scelta ardua, su cui ad essere sinceri il leader Ncd si concentra fin dai tempi del governo Letta e che sembrava a portata di mano con la forzosa imposizione della Consulta di un sistema elettorale proporzionale. Un proporzionale che teoricamente dovrebbe venir sostituito con l’Italicum prima delle future elezioni politiche. Teoricamente.

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