mercoledì 4 marzo 2015

Latte alle ginocchia



Prima o poi, come si suol dire, i nodi vengono al pettine: nonostante l’interessato ripetersi di rinvii e lo spasmodico protrarsi di tecniche di rimando, dopo anni la questione pare essere giunta alla sua conclusione lasciando all’attuale governo la patata bollente di un deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia europea per non aver fatto pagare ai propri allevatori irrispettosi delle quote latte una multa di almeno 1,3 miliardi di euro. Una vicenda che racchiude in sé molti tra i guai del mondo contemporaneo: il bizantinismo e la sospetta assurdità delle normative vigenti, la promiscuità tra interessi politici e interessi di categoria, la spudorata attività lobbistica e l’inconsistenza decisionale di una classe dirigente a cui basta lo sventolio di una lieve minaccia o il sussurrio di una pressione per dimenticare la propria mansione e scaricare disinvoltamente sulla massa ignara di cittadini onesti un costo, il più delle volte economico, spropositato e profondamente ingiusto.
La vicenda comincia nel 1984, quando l’Unione Europea stabilisce dei limiti (le «quote») di produzione di latte a cui ogni paese deve sottostare pur di garantire un’omogeneità a livello continentale. Eccedere nella produzione comporta una multa per l’allevatore, solitamente di portata non indifferente per il bilancio aziendale. Già nella fase iniziale, la vigile attenzione degli interessi più svariati comincia a far sentire il suo fiato sul collo: l’allora commissario europeo all’Agricoltura, Paul Daslager, si adopera anima e corpo affinché il suo paese (la Danimarca) nonché il resto dell’Europa settentrionale possa godere della fetta di torta più consistente. Avviene così che fino al 2009 all’Olanda era concessa una produzione di 112 milioni di quintali, mentre all’Italia (pur disponendo del quadruplo di abitanti) era imposto il limite di 105. Imposto, però, è un vocabolo che suona assai indigesto per i circa 110mila allevatori che nel 1995 risultavano titolari di quote latte, tanto più quando al governo arriva un partito, la Lega Nord, che nel latte (o meglio, nei suoi produttori) ha visto uno dei suoi più fedeli carburanti elettorali.
Tanto per rendere più chiara la questione, in quegli anni arriva a sbarcare in Parlamento Giovanni Robusti, che di lì a poco raggiungerà l’apice dei Cobas del latte non prima però di aver fondato, nel 1998, una società di consulenze agricole (la Cesia) tra i cui azionisti più importanti figurava Fin Group, la finanziaria del partito nordista. Come di consueto, i problemi giudiziari (sia ordinari che contabili) del Robusti non impediranno a quest’ultimo di continuare a rimanere un importante punto di congiunzione tra la lobby degli allevatori refrattari al rispetto delle regole e la Lega Nord, la quale difatti assicurerà al leader sindacale, siamo nel 2008, una comoda poltrona all’Europarlamento.
Non è probabilmente una coincidenza il fatto che uno degli ultimi atti del primo esecutivo Berlusconi, ancora per poco alleato di Bossi, sia stato quello di cancellare con un colpo di penna le multe per gli allevatori che nell’arco del decennio (il decreto risale al dicembre 1994) abbiano sforato le direttive comunitarie. Un regalo natalizio per i detentori delle quote ma un sonoro pezzo di carbone per tutti gli altri cittadini, visto che si stabilisce che le sanzioni verranno generosamente pagate (parliamo dell’equipollente di circa due miliardi di euro) dalle casse pubbliche.
In compenso, questa la promessa, una manovra del genere non sarebbe più dovuta accadere. Si giurò che da allora in avanti gli allevatori si sarebbero assunti i loro oneri senza mettere in mezzo la collettività.
Ovviamente le cose si misero diversamente: timorose di non compromettere i rapporti con una succulenta categoria come gli allevatori e ben oliate dalle pressioni lobbistiche di Robusti&co. (come dimenticare le autostrade imbottite di trattori o insozzate di latte e liquami?), le forze politiche di ogni colore politico tacquero di fronte alla spregiudicatezza della categoria. Come scrive il cronista Sergio Rizzo, «i più furbi, servendosi di cooperative fantasma, trasmigravano da Cuneo a Udine, inseguiti dai magistrati e lasciando dietro di sé milioni da pagare dopo aver sforato allegramente le quote di produzione che allora si compravano e vendevano. L’andazzo continuò per anni, con i furbetti che si arricchivano e gli allevatori onesti che si impoverivano».
Finché, con il trionfo di Berlusconi alle elezioni politiche del 2008, per gli allevatori si avvera il sogno più celestiale: un leghista, per la precisione si tratta di Luca Zaia, finito al vertice del ministero dell’Agricoltura. Per salvare capra e cavoli e non scontentare nessuno, Zaia affronta la questione con una mossa astuta. Prima emana un provvedimento che obbliga, pur gradualmente, il pagamento delle multe per gli allevatori detentori delle quote (scesi ora a poco più di 43mila), ma poco dopo affida all’arma dei Carabinieri nientemeno che un’inchiesta destinata a produrre un esito sconvolgente. Stando a quanto risultato, infatti, pare che le istituzioni fossero in possesso di dati totalmente fuorvianti circa il settore lattiero-caseario nel nostro Paese. Tutto l’universo delle quote latte finisce per essere messo in discussione, mentre nel frattempo l’effetto dinamitardo dell’inchiesta costringe le Procure a indagare sui motivi della palese divergenza dei numeri (si sospetta ad esempio, considerato il numero di vacche ben al di sotto di quello registrato, un traffico clandestino di latte proveniente dall’estero per rimpinguare le produzioni casearie). Che la Lega abbia argutamente bluffato quando prometteva «il pagamento oneroso sulle multe» lo si nota anche dall’epurazione del senatore Dario Fruscio come capo dell’Agenzia adibita al pagamento delle multe delle quote latte, colpevole (pur professando la fede leghista) di essere troppo rigoroso nei confronti degli allevatori coinvolti nella vicenda.
Come accade fin troppo spesso, la confusione è divenuta la migliore alleata della conservazione a tal punto che da quando è sbucata fuori quella dirompente inchiesta la questione delle quote ha conosciuto il più fondato pretesto per non venir affrontata, in nessuno dei vari cambi di governo e nemmeno in seguito alle pressioni (spesso corredate dalla minaccia di ulteriori sanzioni) delle istituzioni comunitarie. Ancora nell’ottobre 2014 la Corte dei Conti era costretta a concludere che «lo stato dei recuperi è fermo perché la riscossione esattoriale non è stata attivata».
Solo il recente deferimento alla Corte di giustizia europea ha obbligato l’attuale ministro Martina all’amaro compito di spedire (alla buon’ora!) le cartelle esattoriali agli allevatori, proprio a ridosso della fine delle quote latte, prevista per il primo aprile.
L’accumularsi pluriennale delle multe ha raggiunto vette da capogiro: senza contare il condono attuato dal primo governo Berlusconi, attualmente parliamo di circa due miliardi e mezzo che in teoria dovrebbero essere a carico degli allevatori, ma in pratica su 330 milioni la magistratura ha già disposto che vengano pagati dalla collettività, per altri 466 milioni è stata chiesta la rateizzazione, su 532 milioni è attivo il contenzioso, 815 milioni sono in dirittura d’arrivo (o almeno si spera) mentre 108 milioni, per una ragione o per l’altra, sono ormai irrecuperabili. Tirando le somme, allo stato attuale gli allevatori hanno sborsato per le multe non più di 286 milioni. In compenso, i comuni cittadini italiani che delle quote latte probabilmente non sanno nulla sono stati costretti a sborsare finora (e sottolineo finora) 4.208.433.627 euro, il che significa all’incirca 70 euro a cranio (compresi vecchi e bambini), oppure qualcosa come il totale dell’Imu sulla prima casa, oppure anche come la somma che i corsi di formazione siciliani hanno fagocitato da una decina d’anni a questa parte. Uno spreco additato spesso e volentieri come simbolo del degrado meridionale da quegli stessi nordisti che, almeno fino a qualche mese fa, vantavano una mai provata superiorità in termini di oculatezza.

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