martedì 15 settembre 2015

Esposizione all'ombra



Poco ambite, marginali, costose e inutili: nonostante le Esposizioni Universali da qualche anno a questa parte si caratterizzino principalmente per questo, vi è ancora qualcuno che facendo rimbombare una retorica facilmente smontabile nutre ancora un morboso interesse per la sua realizzazione. Non è bastata, a quanto pare, la catastrofica esperienza della Grecia agli albori del nuovo millennio, quando la ferma volontà di realizzare una sontuosa Olimpiade- evento peraltro molto più determinante rispetto alle Expo- contribuì in misura non trascurabile allo sfacelo dei bilanci pubblici. Così come non è bastata l’esperienza per molti versi simile capitata alle Olimpiadi invernali svolte a Torino nel 2006 (debito pubblico e siti rimasti inutilizzati); anzi, quasi ad aggiungere la beffa al danno gli aedi dell’evento milanese prendono esplicitamente il precedente torinese come esempio da emulare per quanto concerne l’indotto turistico- l’unico iper-enfatizzato introito dell’evento secondo cui un quarto degli italiani si recherà ad Expo- dimenticando incidentalmente che, ben lungi dal rilanciare il settore, gli arrivi e le presenze registrate a Torino nel periodo 2007-2008 (appena dopo l’Olimpiade) furono persino inferiori a quelle del biennio 2004-2005 (periodo antecedente l’evento). Analisi confermata se andiamo a guardare la situazione complessiva della Regione Piemonte: rispetto al 2005 l’andamento del flusso turistico risulta calato nei mesi successivi all’Olimpiade; dato peraltro in controtendenza rispetto all’analisi dell’intero contesto nazionale (si veda R. Perotti, «Perché l’Expo è un grande errore», lavoce.info, maggio 2014).




Né ci si può aspettare grande conforto dal turismo congressuale se constatiamo l’inutilità a cui nel mondo (ma soprattutto negli Stati Uniti) vanno incontro queste enormi strutture a causa dell’avvento del web. Né ci si può scordare la constatazione che gli introiti derivati dall’Expo non è detto siano aggiuntivi ma semplicemente sostitutivi (magari se non ci fosse stato l’Expo alcune famiglie si sarebbero fatte un giro in barca, giusto a titolo d’esempio).
Maurizio Martina, il "Ministro dell'Expo"
Indicativa in tal senso l’inusuale cautela del ministro per le Politiche Agricole (de facto il ministro di Expo) Maurizio Martina il quale ha preferito schivare precise considerazioni sui costi affermando che il calcolo definitivo «si farà alla fine», quando solo allora potremo aver chiara l’entità «economico-finanziaria» scaturita dall’evento. Forse il ministro ha ancora le idee confuse, ma i veri protagonisti dell’Expo un’idea più precisa se la sono fatta, tant’è vero che i bandi per le gare del dopo-Expo sono andati deserti, così come semi-deserte appaiono le molteplici corse speciali che Trenord ha dirottato- sottraendo preziose opportunità per i pendolari- in direzione Rho-Fiera e financo il groviglio di autostrade erette per l’occasione (o con la scusa dell’occasione): sulla BreBeMi e sulla Pedemontana persino benzinai e autogrill ritengono poco redditizio investire.

Eppure anche in Expo l’impoverimento della gran massa dei cittadini per finanziare i dieci miliardi dell’evento- mi riferisco all’indebitamento pubblico, al drenaggio delle politiche urbane, all’aumento del carico fiscale, alla progressiva svendita sia dei servizi essenziali che perfino del patrimonio culturale- è pienamente compensato dall’avanzata dei tentacoli di una speculazione finanziaria immobiliare che nelle economie più sviluppate vede nella realizzazione di grandi
infrastrutture uno dei settori che garantisce maggior sicurezza di profitto, un concetto suggellato a livello europeo- in nome della spietata competizione globale nell’accaparramento dei grandi
capitali- fin dalla redazione del Piano Delors ventidue anni orsono ove i presunti vantaggi dal punto di vista occupazionale sono solo millantati visto che da un lato le piccole opere utili (tutela del patrimonio demaniale, manutenzione della rete idrica, rivitalizzazione delle periferie e via discorrendo) sarebbero indubbiamente più soddisfacenti da questo punto di vista e dall’altro i lavori di bassa manovalanza (gli unici realmente assicurati dalle grandi opere a causa del pesante investimento tecnologico che questi progetti richiedono) sono spesso condizionati da trattamenti lavorativi inaccettabili e ingerenze criminali.


Expo sta lì a dimostrarlo, ancora una volta: rispetto agli inizialmente previsti 70mila posti di lavoro e alle innumerevoli promesse sulla riqualificazione urbana di Milano (navigli navigabili, nuove linee
La mobilitazione contro il lavoro gratuito
dentro l'Expo
metropolitane e gli orti globali, ad esempio) la realtà conduce ad una sequela di periferiche colate di cemento ove le uniche opportunità occupazionali sono garantite da 18.500 lavoratori non retribuiti (cosiddetti «volontari»), 195 stagisti e i vari contrattisti, apprendisti e lavoratori (alcuni pescati dalle liste speciali di mobilità) destinati ad un rapido usa-e-getta in vista della conclusione dell’evento; tutti accomunati dal trattamento sancito da vari accordi fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil fra cui quello del 10 gennaio 2014 destinati fra le altre cose ad annullare la possibilità dei lavoratori di essere rappresentati da organizzazioni sindacali non firmatarie dell’accordo nonché ad affidare le richieste delle maestranze dell’evento ad un unico Osservatorio paritetico («Sulla base dell’intesa raggiunta a Milano si può pensare a un modello nazionale», affermò a tal proposito l’ex-premier Enrico Letta; capito la portata della cosa?).
La logica dell’ingorda speculazione è visibile persino allo sguardo più sfuggente, in questo luna park scaraventato a chilometri dal circuito cittadino: come può un evento imbottito di retorica sulla nutrizione aver sacrificato per questo scopo decine di ettari di terreno fertile ove, qui si rasenta il grottesco, dall’egemonia cementizia talvolta sbuca fuori un’agghindata rotonda del traffico esaltata per la sensibilità ecologica di questa scelta? E a pochi metri dal «Cardo» (36 metri di asfalto in larghezza e 80mila metri quadrati di tensostruttura) ecco apparire nientemeno che una collina artificiale adibita all’osservazione di una- tipicamente milanese- vegetazione mediterranea.

«Addirittura la deviazione e il ridisegno della rete delle canalizzazioni è stata realizzata secondo logiche di cementificazione lontane dalle ricerche ormai consolidate dell’ingegneria naturalistica», afferma sagacemente Guido Montanari, docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino (si veda l’intervento di G. Montanari nel convegno «Expo 2015, il cibo che affama» svolto a Torino il 26/04/2015). 

Il Padiglione Zero presenta l'Expo ai visitatori


La logica, l’unica che possa giustificare questo scempio, risiede in un consueto meccanismo ben rappresentato dall’ennesima cooperativa rossa, la Cmc di Ravenna, la quale dopo aver vinto la gara offrendo un ribasso della base d’asta del 42,8% per lavori preliminari concernenti la pulizia dei terreni del sito ed aver assicurato di completare i lavori entro il 5 novembre 2013, attualmente ha spostato la data di conclusione dei lavori al 28 settembre 2015 (quasi alla chiusura dell’evento) costringendo le casse pubbliche ad un’incessante esborso di soldi, arrivato a 127 milioni a seguito della scusa di 302 varianti ottenute da Expo Spa. per lavori imprevisti (a livello generale «le richieste sono molto, molto più alte dei preventivi» ha dovuto concludere amaramente il magistrato Raffaele Cantone).

Precarietà, cemento e disuguaglianza necessitano però di un accattivante narrazione per essere non solo accettate supinamente ma esaltate attivamente dai cittadini: ecco dunque il contenuto dell’evento, un contesto in cui 

«come furono a Torino le Olimpiadi e oggi i lavori per il Tav, Expo si impone come un modello per
appiattire culturalmente, per creare un abbaglio fatto di schermi luminosi, di tecnologia, di un futuro roseo che nella realtà dei fatti ci viene negato, in questo è un’operazione di marketing molto ben riuscita, si nasconde dietro la retorica della sostenibilità, del diritto al cibo per tutte e tutti, della difesa di un cibo buono e sano, quando invece sponsor e partner commerciali sono oltre 70 multinazionali come Nestlè, Coca Cola, DuPont, Monsanto, McDonalds.
Ci dicono che Expo rappresenti una opportunità, lo è sicuramente per le multinazionali e per quei paesi forti che possono sfruttare l’occasione di un megafono e portare avanti le proprie istanze in nome di una idea di sostenibilità. Ma i padiglioni da chi sono sponsorizzati? Perché i paesi ricchi e potenti hanno a disposizione spazio per portare avanti la loro idea di “food”? Chi invece non ha le disponibilità economiche si deve accontentare di piccoli stand nei padiglioni tematici.
Vengono così riproposte le logiche di potere, le spese per cui Israele sarà ben rappresentato, ben visibile, supportato dalla multinazionale del bio-tech» (dall’intervento di C. Marocco nel convegno «Expo 2015, il cibo che affama» svolto a Torino il 26/04/2015).

Dentro una patina di spettacolare entusiasmo l’acqua diventa un privilegio generosamente concesso dalla San Pellegrino, gli organismi geneticamente modificati l’unica opportunità per un’agricoltura più rispettosa, la qualità del cibo (questo il ruolo di Slow Food e Eataly) disponibile solo per le tasche più capienti, si perde la consapevolezza di essere cittadini per trasformarsi (dietro pagamento del biglietto d’ingresso) in «protagonisti» di Expo, un luogo ove la condivisione lascia il posto nel «supermercato del futuro» made in Coop alla nozione di «consumatore integrato» all’avanguardia tecnologica con tanto di droni che consegnano a domicilio un sacchetto della spesa ricco di  un cibo ridotto ad una qualsiasi merce di scambio frutto di una concentrata e incontrastabile logica industriale, globalizzata, intensiva, monoculturale e tecnologica già da ora ampiamente dominante nel settore agricolo con un occhio di riguardo perennemente rivolto all’esportazione (l’unico modo per guadagnare comprimendo il mercato interno a suon di decurtazioni di salari). Il dramma della denutrizione, del resto, è imputato esclusivamente al consumatore finale.

L'albero della vita simbolo dell'evento


E se uno di questi si mostra alquanto scettico nei confronti di questa narrazione ecco giungere l’«Expo dei popoli», l’opposizione cucita su misura degli interessi dei potentati globali, la cui stessa partecipazione all’evento dimostra la propria riluttanza ad un’autentica opposizione agli assetti neoliberali. Assetti di cui lo storytelling sul nutrimento rappresenta il versante più accattivante per un contesto sociale di cui la progressiva perdita di potere d’acquisto rende comunque la spesa alimentare qualcosa d’irrinunciabile.

«In ultimo», prosegue Cecilia Marocco, «Expo è una vetrina: quando i riflettori internazionali erano ancora spenti a gennaio ha sponsorizzato un convegno omofobo dal titolo “Difendere la famiglia per difendere la comunità”, poi, dato che l’indotto annuo del turismo gay ammonta a 2,7 milioni di euro e non volendo perdere questa opportunità, Expo si tinge arcobaleno per accogliere i turisti
Il logo di "Women for Expo"
omosessuali (rigorosamente bianchi, ricchi e maschi). Si vuole normare anche l’ambito Glbtq, nel tentativo di cancellare le sfumature che compongono la società, e che non troveranno posto in questa vetrina. Anche questa è una prospettiva patriarcale e conservatrice, pertanto non stupisce che esista “Women for Expo”, per mettere in mostra il ruolo della donna all’interno della famiglia: come moglie e madre relegandola ad un ruolo di genitrice possibilmente dedicata ad accudire il focolare domestico. Peccato che il Jobs Act e i provvedimenti sul lavoro che il Governo vara non facciano altro che accelerare la flessibilità lavorativa togliendo ogni garanzia, soprattutto a quelle donne che vorrebbero costruirsi un futuro
». 


Anzi, affermazioni come quelle della testimonial Alessandra Sensini secondo cui «lasciatemelo dire, le donne sono le migliori in assoluto in quanto a testardaggine e spirito di abnegazione» non fanno altro che offrire una legittimazione alla minor tutela dell’occupazione femminile.

E quando verrà calata la saracinesca sull’evento, il consiglio d’amministrazione di Arexpo (la società che si occupa dell’area) si è già premurata di dare il nulla osta per progetti legati al mondo sportivo di cui gira voce su un possibile stadio di calcio per la squadra del Milan. Il modo migliore per iniziare l’ennesimo giro di giostra di cemento, speculazione, corruzione e sfruttamento. Magari nel nome di Berlusconi.

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