giovedì 3 settembre 2015

Apologia del buonismo consapevole

Sono buonista e me ne vanto. Soffro di questa repellente patologia non solo a causa di quelli che oramai sono considerati generalmente fumosi principi retorici (la dignità dell’Uomo come obiettivo prioritario rispetto sia al calcolo costo-tornaconto, sia all’appartenenza nazionale), ma anche per motivi pratici che ahimè faticano ad emergere nel dibattito quotidiano e di cui mi accingo a tracciare una breve disamina.
Abbiamo imparato a conoscere la pragmatica schiettezza della cancelliera teutonica Angela Merkel, e se questa arriva a dichiarare pubblicamente che «la questione migratoria è la sfida più grande per
l’Unione Europea che io abbia mai visto da quando sono in carica» (si veda A. Higgins, «Divided E.U. Fails to Agree on Quotas for Migrants», da «International New York Times» del 27-28/06/2015) abbiamo più di qualche ragione per approcciarci al tema con la serietà che questo merita. Una serietà dovuta principalmente alla sbalorditiva estensione sia temporale che geografica coinvolta dalle vicende dell’attuale fenomeno indubbiamente di portata storica costituita dal flusso migratorio.

1. Un fenomeno globale, di cui l’Italia occupa una ristretta frazione
L’estensione temporale è fondamentale in quanto questo frenetico formicolio globale risente
Oggetti raccolti dall'associazione Askavusa e fotografati
da Davide Monteleone (dal Corriere della Sera dell'08/06/2015)
direttamente dell’eccezionale sconquasso demografico avvenuto negli ultimi decenni e, nonostante la frenata degli ultimi anni, le previsioni più ottimiste (quelle secondo cui non si verificheranno nuovi aumenti incontrollati di nascite) asseriscono che nel 2050 il pianeta Terra ospiterà il doppio della popolazione attualmente residente. Trend comunque incontrollabile sul lungo periodo se consideriamo l’enorme schizofrenia demografica di paesi come l’Egitto che in nemmeno due generazioni ha visto la sua popolazione passare da 40 milioni a quasi 90 milioni di abitanti (secondo alcune stime si sarebbero addirittura superati i 100 milioni), oppure come l’Etiopia che attualmente ne ospita 96, oppure come la Repubblica Popolare del Congo (77 milioni), oppure come la Nigeria, la quale avrebbe addirittura superato la soglia dei 177 milioni di abitanti, numero di gran lunga superiore a quello della Russia, giusto per dare un’idea del peso globale (si veda il «World Factbook 2015», curato dalla Cia).
Una crescita che, rimanendo con la prospettiva ottimistica di una crescita demografica tutto sommato controllata degli ultimi anni, sarebbe oltretutto assai poco omogenea: volendo adoperare un significativo esempio molto generico si possono porre a confronto le previsioni della Germania (nazione più popolata d’Europa) e della Nigeria (nazione più popolata dell’Africa): tralasciando la questione migratoria gli abitanti tedeschi subirebbero un calo del 18% (il crollo diventa di un quarto se si considera la fascia d’età media dei migranti, quella tra i venti e i quarant’anni) compensata da un numero di nigeriani superiore del 141% (lo schizzo è di un +167% per gli adulti della fascia d’età 20-40 anni). Se questi dati vengono abbinati al contesto economico di una Germania che tra il 1990 e il 2013 ha visto passare il reddito procapite da 16mila a 22mila dollari e quello della Nigeria incrementato da 1100 a 2100 (con un divario assoluto portato da 15mila a 20mila dollari) possiamo farci un’idea non solo di quale direzione stia prendendo il pianeta ma delle prospettive anche dal punto di vista del fenomeno migratorio.

(dal Corriere della Sera del 29/08/2015)
Una situazione, comunque, in cui l’Italia è coinvolta tutto sommato marginalmente: come dimostra la mappa pubblicata da Dan Smith in «The State of the World» (Oxford 2014, New Internationalist, pag.26) il nostro Paese è tra le zone mondiali meno raggiunte dai migranti.
I punti più coinvolti (quelli con una popolazione d’immigrati che costituisce più del 30% della popolazione) risultano essere infatti quelli del Golfo Persico, il Brunei e la Guyana. Ad ospitare più del 20% d’immigrati provvedono invece Canada, Stati Uniti, Arabia Saudita, Australia, Libia e solo qualche sporadico Stato dell’Europa centro-settentrionale.
L’Italia (col suo 8,3%) si colloca tra le nazioni (la gran maggioranza) meno esposte al fenomeno, con un numero di migranti inferiore al 10% della popolazione.

Infatti, ciò che agli xenofobi risulta di ardua comprensione è il dato di fatto che l’Italia rappresenta solo una trascurabile briciola di terra se paragonata all’intensità e alla vastità del fenomeno di chi
fugge: tra il 1990 e il 2013 il numero di migranti globali è aumentato del 50,2%, arrivando al punto che nel 2013 (dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale dei migranti) sono state almeno 232 milioni le persone che hanno lasciato la propria terra (in Italia gli immigrati ospitati non superano i sei milioni), ossia il 3,2% della popolazione mondiale riversatasi per la stragrande maggioranza (l’86%) in paesi poveri e il 25% addirittura nei paesi «meno sviluppati» del pianeta.

I propagatori della buffa immagine di un’Italia assaltata da una compagine di africani farebbero meglio ad occupare il proprio tempo guardando quali sono i maggiori paesi che accolgono persone in fuga da guerre e persecuzioni: Pakistan (1,6 milioni), Turchia (1,59 milioni), Libano, Iran (868mila), Siria (476mila), Etiopia, Giordania (bisogna aspettare un po’ per vedere uno stato europeo, la Germania, con quasi 600mila rifugiati; seguito però subito dopo dai 564mila rifugiati accolti dal Kenya- si veda Consiglio italiano per i rifugiati).
Il continente asiatico in totale accoglie 71 milioni d’immigrati, il continente africano 19 milioni e il Sud America 9 milioni. Di fronte a questa situazione, si capisce bene come i 72 milioni che si trova ad accogliere l’Europa non hanno nulla di eccezionale nel contesto mondiale (si veda «International Migration 2013», Nazioni Unite).
Inoltre, l’incubo del «nero» che ci assale alle porte evapora in un battito di ciglia se consideriamo che l’Africa è il continente che, dopo l’Oceania, vede al suo interno meno persone lasciare la propria terra (F. Pastore, «Flussi migratori: guardare oltre l’orizzonte immediato», dossier Ispi «Rifugiati, una crisi non solo europea», 19/06/2015) e che paradossalmente in certi contesti subisce una pressione migratoria superiore a quella italiana (in Gambia il 17% della popolazione è composto da immigrati). Le terre più dilaniate da persone in fuga sono infatti principalmente Siria (3,88 milioni), Afghanistan e Somalia («World at War», Rapporto «Global Trends» dell’Unhcr sulle migrazioni forzate nel 2014).
Ma visto che l’immigrazione dal continente africano è quella che ci coinvolge più direttamente, su quella occorre concentrarsi.

(da Limes-rivista italiana di geopolitica, 06/2015)


2. Fuggire dai failure-states è l’unica possibilità di una vita dignitosa
L’Italia non è un paese attraente dal punto di vista economico. Pare una banalità, ma coloro che si ostinano a berciare contro l’«ondata clandestina» sarebbe opportuno venissero a conoscenza che nella nostra penisola l’immigrazione cosiddetta «economica» è una realtà di cui si è persa quasi memoria, rimpiazzata da un flusso migratorio che vede per la prima volta l’Italia come un paese in grado di tutelare i diritti umani verso profughi e perseguitati. Comunque non a livelli così preoccupanti se si considera che delle 170mila persone sbarcate in Italia nel 2014,
attualmente più di 100mila non si trovano più sul nostro territorio. Dirò di più: se a questo fenomeno andiamo ad aggiungere i migranti di vecchia data che a causa delle difficoltà della recessione hanno optato per altre mète o hanno scelto il ritorno nella terra natia, se andiamo ad aggiungere l’esercito di giovani italiani che si reca all’estero alla ricerca di esperienze lavorative (nel solo 2013 le partenze sono state 95mila, come non accadeva da quasi cinquant’anni) e se andiamo ad aggiungere gli anziani che pur di aumentare il loro potere d’acquisto si trasferiscono in paesi quali il Marocco (solo in Lombardia questo fenomeno riguarda quasi 30mila cittadini) il saldo migratorio potrebbe addirittura risultare negativo (e un’invasione a saldo negativo mi sembra non si sia mai vista) tant'è vero che nel 2013 l’Istat era arrivata a stimare 307mila immigrati, 43mila in meno (-12,3%) rispetto al 2012 («Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente», Istat, 09/12/2014).
Una situazione destinata ad un repentino mutamento- nel 2014 l’Italia ha visto raggiungere i propri confini da una quota di profughi 13 volte più numerosa rispetto a quella del 2012- dovuto ad un imponente flusso di persone imploranti alle porte dell’Europa.

(dal Corriere della Sera del 25/06/2015)

Una situazione agghiacciante, ove il dramma dei viaggi della morte- non dimentichiamo che in quindici anni il Mediterraneo ha sepolto sotto le proprie onde almeno 25mila persone rendendo questa fetta di mare il più grande cimitero del mondo (si veda in particolare il rapporto dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, «Migration Trends Across the Mediterranean: Connecting the Dots», giugno 2015)- è nient’altro che il coronamento di uno straziante percorso punteggiato da torture, rapimenti e barbarie di ogni sorta. Viaggi costosi, oltretutto, e questo li rende ancor più incomprensibili agli occhi di cittadini atterriti da un fenomeno tanto traumatizzante quanto inedito: i migranti che ci troviamo di fronte non sono infatti facilmente inquadrabili in categorie quali profugo di guerra, povero, perseguitato, bisognoso d’istruzione e via discorrendo. Questo nuovo incessante flusso impone categorie nuove, discutibili e discusse, in cui le definizioni di profugo e migrante s’intrecciano fino a confondersi. 

(dal Corriere della Sera del 13/06/2015)

Vediamo parecchi siriani, succubi di una guerra talmente spietata e incontrollabile da vedere porzioni di territorio sempre più estese conquistate dal jihadismo più invasato. Vediamo quasi altrettanti eritrei, provenienti da un paese tanto povero quanto saccheggiato da un conflitto con l’Etiopia che arriva a coinvolgere persino i bambini. Vediamo i maliani in fuga da una guerra civile che combinata con la povertà estrema vede perennemente in agguato la minaccia truce dell’estremismo islamico. Non mancano i nigeriani costretti ad assistere alla guerriglia di Boko Haram. Poi c’è il Gambia, paese paradigmatico per spiegare come l’Occidente, tramite il braccio del Fondo monetario internazionale, abbia affondato una nazione nella melma più disperata (l’Economic Recovery Program «fece molto poco per i gambiani, specialmente agli agricoltori delle aree rurali che godevano dei sussidi per l’acquisto dei semi e dei fertilizzanti», si veda Migration Policy Institute, C. Omar Kebbeh, «The Gambia: Migration in Africa’s “Smiling Coast”», 13/08/2013). Infine non mancano le persone provenienti dai contesti più annosi del Medio Oriente (Palestina e Libano).
Nazioni configurate dal comun denominatore della «State failure», ovvero situazioni in cui l’autorità pubblica legittimata e riconosciuta lascia il posto a scorribande sconnesse di bande, tribù ed estremismi di ogni genere. Una situazione dove non solo la vita è in pericolo, ma l’ulteriore permanenza risulta insostenibile a causa dell’impossibilità di accedere ai servizi essenziali.


(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015)

La necessità della fuga è testimoniata peraltro dall’alto numero di donne (10,9% quelle soccorse sui barconi provenienti dalla Libia) e minori (il 13,6%), spesso non accompagnati- questi ultimi si stimavano fossero più di 12mila nel solo periodo gennaio-settembre 2014 (si vedano i dati del Viminale). E alternative all’odissea attraverso il Mediterraneo sono improponibili: raggiungere legalmente l’Europa ottenendo un visto è impossibile, così come la chiusura delle frontiere rende assurdo anche solo pensare l’utilizzo di mezzi di linea.

(dal Corriere della Sera del 20/04/2015)

3. Gli immigrati sono una risorsa economica, non un costo
Al netto della xenofobia montante, e tralasciando per un attimo gli sbraiti mediatici, possiamo affermare tranquillamente che l’integrazione è una realtà esistente

«L’immigrato lavoratore è descritto in termini molto favorevoli: se ne apprezza innanzi tutto la disponibilità a collaborare anche al di fuori delle proprie mansioni; se ne sottolinea la dedizione al
lavoro, la serietà e la motivazione, che spesso sarebbero superiori a quelle degli italiani; se ne segnalano l’onestà e la correttezza. Nelle città dove c’è una maggiore familiarità con la fabbrica (Verona, Milano) il rapporto degli immigrati con i colleghi di lavoro italiani è descritto in termini molto positivi» (dalla ricerca «L’immigrazione straniera: opportunità, risorse, problemi» a cura di Ipsos Public Affairs e presentata al convegno «Il lavoro è cittadinanza», Milano, 12/11/2013).

Silenziosa, laboriosa, quasi consueta: la «grande rapidità dell’assimilazione» (si veda G. Dalla Zuanna, «Le possenti immigrazioni dell’ultimo ventennio hanno danneggiato il nostro paese?», ivi, pagg.37-53) è un tratto peculiare del nostro paese, e soprattutto sostenibile a livello di bilancio pubblico se si considera che il calo d’immigrati registrato nel 2013 ha provocato scompensi al bilancio di un Inps che ormai vede tra i suoi pilastri i contributi a fondo perduto di molti stranieri.
Non solo: nel 2014 l’8,8% del Pil è frutto degli immigrati, il saldo attivo dovuto alla loro presenza ammonta per lo Stato a circa 3 miliardi di euro, talvolta gli immigrati aprendo nuove imprese riescono a creare lavoro (le partita Iva straniere sono aumentate negli ultimi cinque anni del 21,3%; ora sono circa 630mila) e la manodopera si accontenta di salari inferiori (993 euro mensili contro una media degli occupati italiani di 1326 euro).

(dal Corriere della Sera dell'08/06/2015)
La conclusione la offre la Fondazione Leone Moressa affermando come queste realtà offrano 
«un contributo fondamentale per l’uscita dalla crisi. Le imprese nate da immigrati non rappresentano più una nicchia a bassa produttività ma un veicolo utile a creare sinergie con imprenditori locali e attrarre investimenti esteri» (si veda il sito della Fondazione Moressa; lo studio è stato pubblicato a marzo 2015).

(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015)


4. Come agire
Un fenomeno strutturale di così vasta portata richiede un impegno tanto inderogabile quanto complesso. La presuntuosa pretesa- purtroppo in voga anche tra autorevoli istituzioni europee del
presente e del passato- che abbassare la saracinesca dei propri confini o, peggio ancora, che rifiutare il soccorso in mare possano dissuadere i migranti a partire non tiene conto del dato storico costituito dal fatto che il proliferare di organizzazioni criminali dedite al fruttuoso traffico di uomini altro non è che il frutto di una «fortezza Europa» perennemente ostile all’idea di preoccuparsi dei profughi a partire dalle aree di provenienza.
Humanitarian Desk è il nome di un progetto sperimentale che vede coinvolte le Chiese evangeliche, la Comunità di Sant’Egidio e la Tavola valdese; oltre ad essere totalmente autofinanziato dai promotori è uno dei pochi progetti sensati a prevedere una garanzia della tutela dei diritti umani per i profughi prima ancora del tortuoso viaggio sui barconi della morte, a partire dalla presentazione di una domanda da parte del richiedente a cui fa seguito il rilascio di un visto con validità territoriale limitata «per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali» (questa la dicitura già prevista dal Regolamento europeo 810/2009 del 13/07/2009, art.24) preludio per l’imbarco su un volo regolare diretto in un’Europa ove l’auspicio rimane sempre l’equa ripartizione dei migranti in tutti i Paesi membri (per approfondire).
Paesi accessibili, tutto sommato stabili e disponibili come Libano e Marocco (soprattutto quest’ultimo) già da ora stanno predisponendo i primi centri finalizzati al controllo, all’identificazione e alla programmazione delle partenze in un contesto legale e dignitoso.
(da Limes- rivista italiana di geopolitica, 06/2015)
Tutto ciò, naturalmente, nella speranza che questa situazione acceleri il desiderio da parte delle potenze geopolitiche di stabilizzare le zone di maggior conflitto e garantire alle proprie popolazioni una situazione economico-sociale stabile per la propria sopravvivenza. Se non si affrontano questi aspetti (guerra e disuguaglianza) non sarà possibile attendersi una diminuzione di persone disposte a tutto per partire.

5. Le farneticanti preoccupazioni «identitarie»
Il Paese che vede tra i suoi massimi punti di riferimento storici l’emigrante Giuseppe Garibaldi e il profugo Dante Alighieri- colui che imparò ben presto «come sa di sale/ lo pane altrui, e come è dure calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Paradiso, XVII)- dovrebbe aver acquisito la
consapevolezza che la propria identità nazionale (ammesso che questa espressione significhi davvero qualcosa) vede nel confronto tra culture una delle sue più importanti peculiarità.
Il primo e più meritevole ministro per l’Integrazione che i governi italiani abbiano avuto, Andrea Riccardi, ha ben affrontato la questione: 

«L’integrazione italiana è, finora, la somma di milioni di adozioni. Pensando all’eccezionalità dell’adozione romana nel quadro della storia antica (per cui si poteva diventare facilmente cittadini dell’impero) vorrei dare al nostro modello integrativo il nome di modello “latino”. In esso tutto si tiene: la storia, il presente, il futuro. L’italianità è il rapporto con l’alterità. In esso confluiscono la comunicatività partecipe dei nostri contesti urbani (si veda il ruolo dei paesi in parte spopolati), la forza di una urbanitas colta e curiosa del mondo, una pietas cristiana. Certo, questo modello vuol dire un’integrazione poco istituzionale e molto familiare, con uno Stato poco al passo coi tempi. […] Resta decisivo il passaggio da una cultura diffusa a una politica di Stato. L’integrazione necessita di una regia pubblica» (da A. Riccardi, «L’Europa dei migranti. Modelli di integrazione», in «Integrazione. Il modello Italia», pagg.89-109; in particolare pagg.105-109).

(dal Corriere della Sera del 18/07/2015)

Il miglior modo per proteggere l’«italianità» risiede proprio nel riconoscersi in principi comuni e ben definiti, di cui l’accoglienza ne rappresenta non solo tra i più tradizionali ma anche tra i più attualmente attivi. Il resto sono chiacchiere.

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