sabato 25 ottobre 2014

Il dilemma delle Grandi Opere



L’Italia è un Paese dalla memoria corta, questo lo sappiamo, ma sulle grandi opere questa memoria diviene una vera e propria amnesia patologica in cui pare giocare la legge dell’inversa proporzionalità: più l’opera è maestosa, più la memoria (e l’attenzione) delle classi dirigenti si fa sbiadita. Basterebbe appena un briciolo di rimembranza per farsi tornare alla mente le mirabolanti dichiarazioni dei vari governi sul tema delle grosse infrastrutture: dalle solenni promesse del trio Piccoli-Rumor-Bisaglia (ora tutti defunti) sulla Valdastico Nord agli annunci del primo governo Prodi sulla Variante di valico dell’Autosole, dalla mappa spiattellata dal premier Berlusconi nello studio di Bruno Vespa scarabocchiata con tutte le infrastrutture alla sovrumana promessa da parte del ministro Passera di mettere in circolo 100 miliardi solo per le opere pubbliche. Neppure il pur modesto governo Letta è rimasto immune dal morbo delle promesse sulle grandi opere. Il risultato di questa grande arte oratoria all’atto pratico si è tradotto nel nulla più assoluto.
Poteva rimanere esente il governo Renzi da questa ormai storica tradizione italica? Certo che no. E infatti dapprima vennero promessi 43 miliardi per le grandi opere, andati poi prosciugandosi fino a diventare 3,89, i quali effettivamente, tramite il decreto «Sblocca-Italia», saranno da spartirsi tra vari cantieri, a partire dall’Alta Velocità per le tratte Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania (da cantierare entro il novembre 2015) fino a vari altri lavori di minor portata, molti dei quali addormentati da anni.
In Italia sono 395 i cantieri mai completati, di cui 150 nella sola Sicilia. Realtà dove spesso e volentieri l’unico obiettivo perseguito è inghiottire fiumi di denaro senza muovere un sasso, dove la carta vincente è quella di impelagarsi tra ricorsi al Tar, ricorsi al Consiglio di Stato, arbitrati vari ed eventuali, dove ogni passo è soggetto al veto degli organi più disparati, dove la complicazione normativa (il codice degli appalti entrato in vigore nel 2006 contiene 257 articoli, a cui si aggiungono 38 allegati) viene rosicchiata fino al midollo e sviscerata in ogni suo aspetto pur di ottenere qualche gruzzolo in più e qualche scadenza di meno, dove per far funzionare le cose in maniera spedita l’unico modo è pagare mazzette (per approfondire). Si pensi soltanto che nel nostro Paese sono in vigore 33mila stazioni appaltanti e si pensi anche che, nell’immane groviglio di competenze, funzioni e istituzioni, ci sono mediamente, per ogni opera, 38 enti con potere di veto. Si pensi inoltre che l’albo dei costruttori è stato sostituito da un sistema privato (le Soa) tale per cui la partecipazione alle gare pubbliche è soggetta a dei privati. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che questo sistema si distingue quasi sempre per eventi singolari tra i quali il fatto che l’ex-senatore di Forza Italia Luigi Grillo, finito nella bufera giudiziaria dell’Expo, fosse nientemeno che azionista di una Soa (Azzurra 2000, dove tra gli azionisti compariva anche il figlio di Cesare Previti).
Non deve sorprendere, quindi, il risultato di un recente studio di Intesa Sanpaolo secondo cui il costo medio di un chilometro d’Alta Velocità nel nostro Paese costa tre volte tanto rispetto a Francia, Spagna e Giappone, oppure il fatto che il costo delle infrastrutture ferroviarie sia di 32 milioni al chilometro in Italia contro i 9 milioni della Spagna e i 10 milioni della Francia. Uno studio della Commissione Europea (relativo ai maggiori progetti finanziati col Fondo europeo di sviluppo regionale) ha sottolineato come «tra il 2000 e il 2006, in Italia i ritardi di esecuzione siano stati pari in media all’88% dei tempi inizialmente stimati, contro una media europea del 26%, e gli aggravi di costo siano stati pari al 38%, contro una media europea del 21%».
Basta guardare al celebre caso della Salerno-Reggio Calabria per rendersi conto della situazione: mentre l’Autostrada del Sole venne completata spendendo (facendo una traslazione con la valuta odierna) il corrispettivo di 4 milioni al chilometro, la famigerata Salerno-Reggio Calabria ne ha richiesti per la sola fase iniziale (quella completata sinora) 5,5.
La questione non si conclude qui. Nei casi in cui si conclude l’opera, ed è questo l’aspetto su cui porre la maggiore attenzione, ci si pone inoltre la domanda beffarda se effettivamente il gioco sia valso la candela. Non è facile, infatti, stimare se l’Italia soffra di carenze infrastrutturali e se, forse, non sia meglio impiegare i fondi pubblici per altre finalità.
Scorrendo i dati, scopriamo che nel 2012 il Belpaese disponeva di soli 876 chilometri di linee veloci contro i 2.125 della Francia e i 3.230 della Spagna. «Gli investimenti in infrastrutture sono uno dei driver fondamentali per la ripresa della crescita e della competitività del Paese» asserivano Edoardo Reviglio e Franco Bassanini sul «Sole 24Ore» del 21 aprile 2012. A primo acchito, quindi, ci potremmo convincere che continuare a investire (anche se rischiando) in questo settore sia uno dei passaggi necessari per far ridestare gli investimenti nel nostro Paese.
Un’opinione discordante arriva da Demetrio Alampi e Giovanna Messina i quali, all’interno dello studio «Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione» («Banca d’Italia Eurosistema», Roma, aprile 2011), rilevano: «La quantità di strade e di ferrovie o le risorse pubbliche investite in un certo arco di tempo rappresentano sicuramente informazioni importanti, ma da sole non sono sufficienti a fornire una rappresentazione realistica di come i trasporti funzionino effettivamente a servizio di un’economia locale». I due studiosi decidono quindi di redigere uno studio applicando non una valutazione quantitativa, ossia quante siano le infrastrutture presenti in Italia, bensì qualitativa, ossia stimando quanto effettivamente siano utili queste opere. Ebbene, il risultato è sorprendente: «I risultati ottenuti applicando questo indicatore mostrano che l’Italia dispone di collegamenti stradali e ferroviari superiori alla media dei 27 Paesi dell’Ue, benché con molte eterogeneità a livello territoriale. Dal punto di vista della connettività con il resto dell’area europea, ad esempio, il sistema italiano di trasporti risulta essere piuttosto efficace nel caso delle strade: in quanto a velocità dei collegamenti l’Italia è al secondo posto nella graduatoria per nazioni (dopo il Lussemburgo). Anche nel caso dei trasporti ferroviari l’Italia continua a mantenere una posizione di vantaggio rispetto alla media europea, anche se ai vertici della graduatoria oggi ci sono Francia, Belgio e Germania, Paesi in cui sono più estese le linee ad Alta Velocità. In Italia inoltre la dotazione di trasporti ferroviari è la più disomogenea fra regione e regione». Una disomogeneità descritta concretamente dal deputato Pd Franco Laratta nel gennaio 2012 nel corso di un’interrogazione parlamentare: le linee a binario doppio nel Mezzogiorno sono il 23% contro il 50% del Settentrione, le linee elettrificate sono il 28% al Sud contro il 49% del Nord e, quel che è peggio, l’andazzo delle cose non fa altro che presagire una disparità ancora maggiore nel corso dei prossimi anni: «I 560 chilometri di Alta Velocità italiana sono stati quasi tutti costruiti al Centro-Nord, costando circa 100 miliardi. Di contro, vengono progressivamente eliminate o versano in stato di totale abbandono le tratte a lunga percorrenza e quelle regionali, specie al Sud». Secondo «ferrovieincalabria.com», una ventina d’anni fa la tratta Bari-Reggio Calabria veniva munita nei giorni lavorativi da 7 treni all’andata e da 7 treni al ritorno. Oggi queste tratte si sono ridotte a tre, sulla cui efficienza è lecito nutrire dubbi: il primo treno impiega 8 ore e 25 minuti, il secondo 9 ore e 35 minuti e il terzo, quello notturno (ma senza cuccetta), «solo» 7 ore. E non sono nemmeno i casi più disperati: secondo la classifica di «Pendolaria» la medaglia d’oro se la aggiudica il percorso Potenza-Matera: per percorrere 102 chilometri bisogna effettuare due cambi e, se tutto va bene, il tempo impiegato è di quasi 7 ore. Una media di velocità di 14,5 chilometri orari.
La colpa, però, non è dovuta al solito ritornello del «mancano i fondi», «lo Stato è indebitato», «non ce lo possiamo permettere» eccetera eccetera. L’attuale numero uno della Bce, nonché ex-governatore di Bankitalia, Mario Draghi, ha affermato nel corso del 2012: «Le risorse finanziarie destinate agli investimenti pubblici nel nostro Paese negli ultimi tre decenni sono in linea con quelle degli altri principali Paesi europei, superiori alla media di Francia, Germania e Regno Unito, anche se più recentemente l’incidenza della spesa per investimenti delle amministrazioni pubbliche sul Pil si sta riducendo (era pari al 2,5% nel 2009, è scesa al 2,0% nel 2011 e un calo ulteriore è atteso per il 2012)». I soldi quindi non solo ci sono, ma vengono anche adoperati in una misura grosso modo equivalente rispetto a quella dei nostri partners europei. Molto semplicemente i soldi adoperati in infrastrutture vengono spartiti male, privilegiando fin troppo spesso (quando i soldi arrivano veramente a destinazione) strutture sulla cui utilità è lecito nutrire dei dubbi e lasciando nell’incuria più totale le aree dove, invece, la carenza infrastrutturale rappresenta un’onta per tutti i cittadini.
Iniettare danaro fresco senza una reale stima dei benefici dell’opera e senza un’autentica revisione delle regole rischia di rappresentare l’ennesima manna dal cielo per tutti coloro che campano perseguendo inconfessabili interessi.

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