domenica 5 ottobre 2014

Il dizionario del renzismo



George Orwell c’insegna che i detentori del potere, se intendono accrescere il loro consenso e la loro supremazia, hanno sempre tra i loro maggiori pensieri il desiderio d’impoverire il vocabolario dei loro sudditi. È una strana alchimia sociologica: maggiore capacità espressiva significa generalmente maggiore apertura mentale, e di conseguenza maggiore libertà di pensiero. Non sorprende quindi se i leader più ferrati nella comunicazione adottino il concetto opposto, ossia quello di trasmettere il minor vocabolario possibile in modo da appiattire i princìpi, in modo da neutralizzare i concetti più ostici, in modo da banalizzare la visione della società.
L’Italia, da questo punto di vista, possiede anche «una marcia in più»: nel nostro Paese, infatti, la complicazione del linguaggio è stata (ed è tuttora) una formidabile pratica adottata dai burocrati (di fatto i veri padroni della nostra penisola) per abbindolare i cittadini-sudditi, lasciar prosperare la corruzione e soprattutto mantenere inalterato il loro immenso e sotterraneo potere. Un esempio? Ecco cosa scrisse nel 2010 Vincenzo Lissa, segretario generale al Comune di Ariano Irpino, rivolgendosi al sindaco del suddetto comune: «Ho letto lo scritto emarginato in epigrafe con tutta l’attenzione che ha meritato. Nulla più. Vediamo elenticamente perché. Da essa viene in emersione una apodittica concezione del diritto immaginato come un’astrazione da investire acriticamente. Infatti è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica che implica meccanicisticamente un calco a rime obbligato: la devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico» arrivando al punto in cui «non si può non rilevare la panie della scepsi»…insomma, il fantasma dell’Azzecca-Garbugli continua ad aggirarsi indisturbato nella vita quotidiana degli italiani, contribuendo a far dilagare (forse inconsciamente) il concetto che il «parlar chiaro», furbescamente strumentalizzato da certe figure politiche per abbandonarsi all’estremo opposto della banalità populista, sia sinonimo di amministrazione efficiente e trasparente. Matteo Renzi ci sguazza leggiadramente in questa semplificazione al limite dell’infantilismo; anzi, è diventata essa stessa il simbolo della sua carriera politica. Sono state le parole d’ordine a far conoscere Renzi, a renderlo urticante o irresistibile a seconda degli appetiti. Vediamo le principali (probabilmente le uniche):

Rottamazione
29 agosto 2010, intervista a «La Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani…Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi».
Lo si può affermare scientificamente: la figura del «rottamatore» è comparsa ufficialmente nella lingua italiana soltanto grazie a Renzi. Lo testimonia il Dizionario Treccani, che ha inserito tale vocabolo solamente nel 2012; esattamente nell’anno in cui il dibattito sulla «rottamazione» si faceva incandescente contrapponendo coloro che ritenevano tale sostantivo una recrudescenza squadrista e coloro che lo ritenevano una semplice goliardata utile per smuovere le acque del partito. Un dibattito a tratti aspro, che ha raggiunto il suo apice su «l’Unità» del 16 ottobre, quando Michele Prospero scrisse un pezzo in prima pagina il cui titolo era «Rottamazione, idea fascistoide».
Guardando questa discussione col senno di poi, si può affermare senza problemi che «rottamazione» è la parola più riuscita del lessico renziano. Ha sicuramente un forte retrogusto demagogico, ma sentite cosa ha scritto recentemente Romano Prodi in un articolo passato inosservato: «Il concetto di rottamazione mi ha interessato fin da quando ero ragazzo, proprio perché la prima fase dello sviluppo economico postbellico si è ampiamente fondata sulla rottamazione. L’enorme quantità dei residui militari lasciati dall’esercito americano è stata acquistata, smontata e ricomposta in modo da costituire il primo nucleo di una nuova elementare struttura produttiva. Da tre camion “Dodge” residuati di guerra se ne ricavava uno pienamente efficiente e si utilizzavano le parti ancora funzionanti degli altri due come pezzi di ricambio. Il guadagno del “rottamatore” consisteva proprio nell’utilizzare quanto più si poteva dei vecchi mezzi, vendendo una marmitta, una batteria, un argano o una gru a coloro che volevano intraprendere qualche iniziativa. Innumerevoli sono le storie di imprese generate dalla rottamazione che tuttora prosperano, come la Fagioli o la Brevini, la prima costruita su un vecchio Dodge e la seconda smontando gli ingranaggi delle spolette delle bombe americane. E molti paesi hanno fondato sulla rottamazione la propria rinascita economica». La frase successiva suona come un ammonimento: «Non si tratta naturalmente di un processo elementare perché il buon rottamatore non solo deve conoscere bene l’arte dello smontaggio ma deve anche sfruttare bene le risorse che questo processo gli riserva perché, è utile ripeterlo, proprio in questo sta il suo guadagno».
A ognuno le proprie conclusioni.

Gufi
28 marzo 2014: «C’è un esercito di gufi che spera che l’Italia vada male», 20 maggio 2014: «I gufi sono i peggiori direttori commerciali dell’Italia», 20 luglio 2014: «I gufi, le riforme, i conti non mi preoccupano», 1 settembre 2014: «Gufi o non gufi, arriveremo a destinazione».
Una domanda a questo punto è d’obbligo: chi sono questi «gufi»? Di preciso, nessuno lo sa (l’analisi è formalmente bandita dal pensiero renziano), a livello superficiale, quello su cui naviga la barca del renzismo, trapela che i gufi sono in buona sostanza oppositori, critici, scettici e titubanti del fenomeno Renzi, meglio se di sinistra. Tutti insieme, tutti in un unico calderone: dai burocrati di Stato all’opinionista del quotidiano, da Corrado Passera all’avventore del bar del paese, dalla Meloni alla Spinelli, da Borghezio a Civati, da Ostellino a Rodotà, da chi esprime una critica in buona fede a chi effettivamente vuole frenare qualsiasi tentativo di riforma. Non esistono distinzioni di sorta, i «gufi» sono un’entità metafisica su cui scaricare tutte le responsabilità di quanto avvenuto nell’Italia degli ultimi anni, e per macchiarsi di una simile colpa basta soltanto esprimere anche la più lieve forma di tentennamento nei riguardi del premier. Eppure, che ci crediate o no, la «gufi-mania» non è una trovata originale di Renzi. Qualche anno fa un noto uomo politico inveiva negli studi di «Porta a Porta»: «Tutti questi signori, D’Alema in testa, sono dei veterocomunismi che usano metodi stalinisti. E sono dei vecchi gufi!» Volete sapere di chi si tratta? Forse lo avete già capito: è Silvio Berlusconi. Proseguendo la ricerca, si scopre però come la figura del perfido rapace notturno sia apparsa oscura e minacciosa anche in altre occasioni della vita politica degli ultimi anni: «I gufi dicevano che la crisi avrebbe spazzato via l’Italia, invece il sistema ha tenuto meglio degli altri», sentenziava nel gennaio 2010 Giulio Tremonti. E contro i «soliti gufi» ha avuto modo di sfogarsi anche un altro berlusconiano DOC, Renato Brunetta.
A me è venuto un dubbio: non è che per caso le ingiurie contro i «gufi» rientrino anch’esse nel patto del Nazareno?

Professoroni
31 marzo 2014, intervista al «Corriere della Sera»: «Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire “non sono d’accordo”, lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».
Vi è una particolare categoria di «gufi» che merita un suo particolare epiteto: i «professoroni». Anche qui sorge la domanda: di chi si tratta? E anche qui la risposta si presta a molteplici ipotesi: si tratta solo dei giuristi firmatari dell’appello contro la «svolta autoritaria» o si tratta, più in generale, di un attacco al mondo culturale? Rimane il fatto che, dispiace dirlo, anche in questo caso l’attacco non brilla per originalità; lo scontro tra gli intellettuali e la politica, difatti, è una saga che accompagna la storia mondiale da un bel po’ di tempo: Napoleone Bonaparte si scagliava contro gli «idéologues», il ferreo ministro degli Interni centrista Mario Scelba inveiva contro il «culturame di certuni», Bettino Craxi definì lo storico Ernesto Galli della Loggia «intellettuale dei miei stivali», un epiteto ben presto sostituito da «politologo da bar», firmato da Silvio Berlusconi. Una contrapposizione che non attraversa soltanto la storia, ma la stessa esistenza dell’attuale premier: prima le discussioni con un insegnante missino ai tempi del liceo, poi l’insofferenza verso il mondo universitario («tanta parte dei docenti e dei loro collaboratori» vive di «piccolezze») culminata con un sonoro alterco al momento della discussione della tesi, poi «la lotta contro le baronie» nel periodo della presidenza alla Provincia di Firenze che vede il suo zenith quando lo spavaldo signorino arriva ad invocare il dimezzamento «di botto» e «d’imperio» di tutte le università italiane, poi ancora la sua stizza verso «la lobby dei docenti» che «condiziona spesso le nostre scelte», arrivando alla lunga sequela di schiaffi alle sovrintendenze (l’ennesimo corpo intermedio d’abbattere): dapprima l’accusa che i beni culturali sono trattati come «un giochino per dotti professori cresciuti a pane e libri», poi l’auspicio che la politica «tolga a baronie e sovrintendenze la regia di questi settori». Insomma, la battaglia contro un certo mondo ha radici salde e profonde nella mentalità renziana. Eppure il termine «professoroni» rappresenta una novità assoluta. Uno sberleffo a metà strada tra Lucignolo e Rugantino, dal sapore antico, confermato in questo senso da un passo de «L’uomo medievale» (J. Le Goff, Laterza, 1993): «Mentre “magister” indica sempre una qualità di elevatezza morale e dignità indiscussa, “professor” sovente reca con sé una traccia di ironia verso la boria e la presunzione di personaggi che confidano troppo nel loro sapere». Una definizione che calza a pennello con la concezione renziana dell’universo culturale.

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