venerdì 17 ottobre 2014

Vietato abbassare la guardia



Passerà l’angosciante perturbazione, i volontari torneranno alla vita di sempre, l’acqua putrida che ha invaso le strade si prosciugherà, le lacrime degli alluvionati evaporeranno, l’inchiostro dei quotidiani verrà adoperato per altre vicende, le gole disturbate dai discorsoni (e dagli sbraiti) di politici ed «esperti» di ogni risma si ammansiranno, i negozi deturpati verranno ripuliti, le scuole riapriranno e tutti torneranno alla loro vita, alla vita di sempre, alla vita di tutti i giorni. Le alluvioni rimarranno un incubo effimero e passeggero, relegato ad un passato che è meglio dimenticare. L’Italia continuerà ad assassinare se stessa, come se nulla fosse accaduto. Il suo terreno verrà visto solo come un’ottima piattaforma ove speculare e cementificare: il divoramento del terreno fertile e l’invasione barbarica del cemento proseguiranno spavaldi e arzilli, senza che nessuno si appresti ad ascoltare gli studiosi che da anni ci avvertono che il consumo del suolo nel nostro Paese, nonostante l’elevata presenza di montagne, si colloca al doppio della media europea. La Germania, pur disponendo di una popolazione nettamente maggiore della nostra e di un’economia industriale all’avanguardia, ha consumato il proprio territorio per una percentuale che non va oltre il 6,8%; la media europea non supera il 4,3% mentre noi, per l’appunto, ci collochiamo notevolmente più in alto di tutti andando oltre l’8%. E mentre, secondo Legambiente, la frenetica speculazione edilizia ci ha fatti arrivare al punto che nella sola città di Roma ci siano qualcosa come 250mila case vuote, l’agricoltura è costretta a ritagliarsi un ruolo sempre più marginale tanto da non riuscire a sopperire nemmeno al 75% del fabbisogno nazionale. Non potrebbe essere altrimenti, se si considera che in quarant’anni sono stati inghiottiti cinque milioni di ettari, qualcosa come Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme. Ogni giorno cento ettari di terreno fertile si trasformano in cemento. La Liguria, in particolar modo, è non a caso una delle regioni che ha subito la maggiore speculazione: secondo il dossier «Cemento Spa» del 2012 redatto da Legambiente, è il territorio con maggiori infrazioni accertate nel ciclo del cemento (da solo rappresenta il 25,2% delle infrazioni di tutto il nord-Italia), e allo stesso tempo (una semplice coincidenza?) è uno dei territori del settentrione con maggiori infiltrazioni mafiose (dei tre comuni del nord sciolti per mafia due sono liguri).
Eppure addebitare i disastri ambientali alla sola cementificazione sarebbe eufemistico: è il discorso più generale dell’incuria dell’uomo verso il territorio a dare la maggiore spinta al proseguire ininterrotto di disastri, un’incuria che passa anche per sottigliezze, che forse sottigliezze non sono, quali l’abbandono delle montagne e delle campagne appenniniche in particolar modo. A titolo di esempio, uno studio del Dps (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) ha certificato che dal 1971 a oggi le zone superiori ai 600 metri d’altezza hanno perso in Emilia-Romagna il 52% della popolazione, in Veneto il 33,3% e in Molise il 46,9%. Un esodo. Tanto per rimanere nei territori più recentemente colpiti, il territorio della Liguria è composto per il 70% da boschi di latifoglie (specie castagni antichi) che fino a cinquant’anni fa venivano accuditi e sfruttati economicamente dalle popolazioni locali: si passavano settimane a raccogliere le castagne, poi si accumulavano i ricci e le foglie e gli si dava fuoco. Il bosco rimaneva pulito. Ora che i liguri hanno pian piano abbandonato quest’attività, il bosco è rimasto incustodito, le foglie si sono stratificate per anni le une sulle altre e così, quando arriva la pioggia, il terreno del bosco non riesce più ad assorbire l’acqua, la quale scorre indisturbata, passa sopra il tappeto di foglie per scendere a valle, imbottire i torrenti e provocare i disastri.
Più di un anno fa la Commissione ambiente della Camera aveva approvato all’unanimità una risoluzione che a leggerla fa venire i brividi: «Le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’81,9% dei comuni (6.633); in esse vivono 5,8 milioni di persone (9,6% della popolazione nazionale), per un totale di 2,4 milioni di famiglie; in tali aree si trovano oltre 1,2 milioni di edifici e più di due terzi delle zone esposte a rischio interessa centri urbani, infrastrutture e aree produttive…La pericolosità degli eventi naturali è senza dubbio amplificata dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano: oltre il 60% degli edifici- circa 7 milioni- è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica per le costruzioni e, di questi, oltre 2,5 milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione e, quindi, più esposti ai rischi idrogeologici». Inoltre: «Il progetto Iffi (Inventario dei fenomeni franosi in Italia), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province autonome, ha censito ad oggi oltre 486mila fenomeni franosi, il 68% delle frane europee si verifica in Italia…La gravità del problema appare altresì evidente, se si pensa che, a partire dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di dissesto idrogeologico gravi in Italia sono stati oltre 4.000 e hanno provocato ingenti danni a persone, case e infrastrutture, ma,  soprattutto, hanno provocato 12.600 morti, mentre il numero dei dispersi e degli sfollati supera i 700mila…Gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni, prima degli anni ’90, a 4-5 l’anno».
In nome della speculazione e in nome degli interessi più disparati sono stati abbandonati alla peggiore incuria anche molti degli incantevoli luoghi d’interesse storico e culturale, i quali finiscono anch’essi per non resistere di fronte alle prime piogge torrenziali. Nel silenzio generale, uno studio di Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele Spizzichino e Alessandro Trigila dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha rivelato che, secondo un primo censimento, nel nostro Paese ci sono 5.511 beni culturali a rischio frana e 11.155 beni a rischio idraulico. Una realtà che trova, ahimé, cospicue conferme: da alcuni mesi a questa parte si vanno disfacendo i bassorilievi della Galleria Umberto I di Napoli, gli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, le mura medievali di Volterra (Pisa), le mura dell’antico stadio romano di Pozzuoli, il castello medievale di Stigliano (Matera), le mura di San Vito Chetino (Chieti), la rocca abbaziale di Subiaco, il castello normanno di Maddaloni, la rocca di Sutera, la «solita» Pompei (secondo il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale Antonio Irlando «per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove di cui non si ha notizia»), le Gualchiere di Remole, il castello di Frinco (Asti), le mura aureliane di Roma, la cinta muraria seicentesca di Palmanova (Udine) e moltissime altre perle della nostra penisola. Il sindaco di Palmanova, Francesco Martines, spiega chiaro e tondo come questi crolli siano dovuti innanzitutto al menefreghismo generale: «Non è un caso se lo smottamento [di un tratto della fortificazione seicentesca di Palmanova, ndr.] ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante. Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto…»
Eppure noi cittadini a tutto questo non prestiamo ascolto, alle grida di dolore che il nostro delicato e sublime territorio ci rivolge preferiamo tapparci le orecchie e proseguire le nostre attività quotidiane. Le istituzioni, magari ben indottrinate dalle lobby e dagli interessi privati più esecrabili, si adeguano a questo andazzo senza che nessuno si mobiliti o s’indigni: ad esempio, il Fondo Rischio Idrogeologico è passato nel periodo 2008-2013 da 551 milioni a 84 milioni. La legge di Stabilità 2014 redatta dal governo Letta lo aveva decurtato portandolo addirittura a 20 milioni (il 96% in meno rispetto al 2008), e solo la commozione popolare seguita ai disastri della Sardegna farà innalzare la quota a 30 milioni, un sedicesimo rispetto a quanto richiesto dalla risoluzione della Commissione ambiente. E pazienza se poi il conto viene presentato con tutti gli interessi del caso: sia in termini economici (secondo l’Ance, l’Associazione dei costruttori, «il costo complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro»), sia, come abbiamo visto, in termini di vite umane, di degrado ambientale e di distruzione del patrimonio artistico. Cerchiamo di ricordarlo sempre, non soltanto quando il fango sommerge le nostre case.

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