martedì 10 febbraio 2015

Che fine ha fatto la società civile?

L'utilizzo dell'immagine è stato gentilmente concesso di Mauro Biani (http://maurobiani.it/)

Se domani si tornasse alle urne, il disincanto e la delusione che ormai hanno sopraffatto (comprensibilmente) la coscienza di una fetta considerevole di elettorato molto probabilmente consegnerebbero di fatto le sorti dell’Italia ad una ristretta minoranza di cittadini che si recano alle urne. Considerato il quadro politico, la situazione appare a prima vista paradossale: tutte le forze politiche infatti sembrano più che mai orientate al mito della «società civile» la quale, alla stregua di un guerriero templare, dovrebbe secondo questa narrativa scacciare la tanto aborrita «politica» dai tetri e polverosi palazzi nei quali se ne sta rinchiusa.
Non c’è schieramento politico, ai giorni nostri, che non ponga alla base del suo modo di pensare la contrapposizione tra «la gente» e «la casta», quest’ultima individuata non semplicemente nelle personalità politiche in sé, quanto negli organi che tali personalità hanno inopinatamente occupato. Il problema, di conseguenza, non è più l’azione del semplice parlamentare, bensì l’intera architettura che sta alla base della democrazia parlamentare. Il problema non è più il sindacalista o l’odierna gestione del sindacato, l’oggetto del bersaglio è divenuta l’intera rappresentanza dei lavoratori, senza distinzioni di responsabilità. Il problema non è la conduzione dei partiti, l’insofferenza si espande al concetto stesso di rappresentanza partitica, e via di questo passo (si potrebbero citare infiniti altri casi, tra i quali istituzioni locali, presidenza della Repubblica, informazione giornalistica e spesso anche la magistratura).
A corredo di tale sfacelo, si assiste ad una tragicomica competizione agonistica a chi più fieramente rifiuta i concetti di «destra» e «sinistra». Al diavolo queste ammuffite distinzioni, nel XXI secolo ci tocca assistere all’avvento del «partito della Nazione» o, per meglio dire, di un florilegio di raggruppamenti che non si fanno scrupoli ad ammettere il loro desiderio di riempire tutti gli spazi sociali e di farsi portatori delle istanze più disparate, con la sola condizione che queste da un lato provengano dal cuore pulsante della «Nazione» e dall’altro, in un’insana conseguenza che tanto conseguente non è, abbiano come bersaglio il concetto di corpo intermedio.
La salsa che ne esce non può che risultarne insipida e disgustosa. A furia di voler tenere unite categorie e fasce sociali che unite non ci potranno stare mai, l’unica soluzione è trincerarsi dietro un’assoluta vaghezza programmatica rintuzzata, sovente ma neanche troppo, da qualche progetto dai contorni indefiniti e buono per tutte le stagioni (il ritorno alla lira o la «flat tax», tanto per fare due esempi). Il combinato disposto tra avversità verso i corpi intermedi, a meno che questa non sia da sola sufficiente a toccare la pancia di molti cittadini, e assenza di contenuti di solito portano anche ad un altro risultato di primaria importanza per il conseguimento del consenso: parafrasando un termine coniato dal politologo Mauro Calise siamo al cospetto di una politica «personalizzata». Demolite le strutture portanti che tengono distinto il cittadino dalla sfera dirigente, ci ritroviamo di fronte ad un rapporto tra elettore e leader (a questo punto divenuto incontrastato) della forza politica a metà strada tra il fideismo e l’allegra compagnia del sabato sera. Il leader diventa a questo punto il perno attorno al quale ruota ogni attività della forza politica, talvolta fino ad una completa identificazione grazie alla quale il leader stesso diventa il sinonimo dello schieramento politico.
Questa struttura (nel novecento italiano ideata e modellata sapientemente da tre campioni di antidemocrazia: Mussolini, Craxi e Berlusconi) pare essere l’unica in grado di riscuotere l’appoggio  popolare, e difatti è stata seguita grosso modo da tutti i leader della Seconda Repubblica, caratterizzata quest’ultima proprio dalla metastasi antipolitica come reazione alla deriva partitocratica che ha invece, all’opposto, caratterizzato la Prima Repubblica.
Attualmente però sembrano passate tutte le sbornie: di fronte ad un tangibile e drammaticamente concreto sfacelo del Paese (a cui l’antipolitica della gestione personale ha fornito un contributo non indifferente), esaurita la forza di gridare, delusa ogni effimera speranza di fatuo ottimismo e probabilmente compreso anche che il rapporto im-mediato tra leader ed elettore non porta ad un genuino ascolto delle istanze del cittadino ma, al contrario, serve solo ad accrescere l’autoritarismo del Capo, sembra essersi aperto uno squarcio composto da cittadini restii ad ascoltare l’ennesimo imbonitore di turno, ma pronti a collaborare nella formazione di un partito (vocabolo ben lungi dall’essere una bestemmia) in grado di fare i conti con le nuove forme di partecipazione politica che le novità tecnologiche e la situazione sociale mette in campo ponendosi però a reale ascolto delle istanze di determinate fasce sociali, che adotti una leadership autorevole ma rispettosa (né autoritaria, né succube delle burocrazie interne), che chieda una reale riforma dei corpi intermedi senza per questo volerli macinare sotto il rullo compressore della demagogia, che metta veramente al primo posto la lotta per la legalità e il rispetto dei doveri civici (in primis su un tema come l’evasione fiscale, mai veramente affrontato da alcuna forza politica o per diretta contiguità di certi esponenti con tali pratiche o per il fatto che il voto degli evasori è sempre stato determinante al fine dei risultati elettorali) e, nel caso della sinistra, che sappia rimettere al centro il valore fondamentale dell’intervento pubblico nell’economia, che fornisca una tutela responsabile dei beni collettivi e che, in ambito sovranazionale, chieda a gran voce una reale riforma che regoli il circuito vizioso delle attività finanziarie responsabili della crisi.
La volontà esiste e, al contrario di quanto sostengono gli ex-portavoce del Pd Geloni e Di Traglia, la partecipazione sarebbe tutt’altro che sporadica o dilettantistica. La vigorosa mobilitazione per i referendum del 2011 e i risultati delle elezioni amministrative della primavera dello stesso anno (quelli che hanno premiato Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Cosolini a Trieste e De Magistris a Napoli, per intenderci) sono due esempi eclatanti (ce ne sono molti altri meno sottoposti alla ribalta mediatica: si pensi alle esperienze di Libera o Emergency) tutto sommato recenti che possono fornire degli ottimi punti di partenza nella prospettiva di un partito autenticamente riformista e socialdemocratico fondato su una società civile che però detenga al tempo stesso passione e competenza nei confronti del mondo politico. 

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