martedì 24 febbraio 2015

No Tav, le ragioni di una battaglia



I cortei No Tav (l’ultimo pochi giorni fa) ormai non fanno nemmeno più notizia. Pare che ci abbiamo fatto il callo a quest’organizzazione di cittadini rappresentata come qualcosa di assimilabile o ad una tradizione folkloristica o, più spesso, ad una specie di criminalità dedita al teppismo.

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Nemmeno lo sconcertante scandalo relativo al Mose è servito a smuovere la sensibilità verso un tema, la costruzione di alcune Grandi Opere, che col passare del tempo assume sempre di più i connotati di un luculliano banchetto per amministratori, criminalità ed esponenti politici di ogni colore. Eppure, sulla costruzione della linea ad Alta Velocità (poi divenuta, in un disinvolto quanto sospetto cambio di destinazione, Alta Capacità) fra Torino e Lione non sono mancate tracce di opacità e odori d’interessi illegali: Benedetto Lazzaro, ad esempio, titolare dell’Italcoge fornitrice delle ruspe nel cantiere di Chiomonte, fu prima inquisito nel 1989 per «un giro di fatture false per tre miliardi», poi venne rinviato a giudizio per frode ed evasione fiscale, successivamente usufruì del condono finché, nel 1993, la Guardia di Finanza non lo perquisì con il sospetto di false fatturazioni e di aver dato vita ad un «cartello» finalizzato alla spartizione delle gare d’appalto per le opere pubbliche (quando era rappresentante legale dell’Italcoge, il nipote Ferdinando Lazzaro venne arrestato nel 2002 con l’accusa non solo di aver dato luogo ad un analogo «cartello», ma anche di aver corrotto un funzionario della Magistratura del Po pur di ottenere appalti per altri lavori in Val Susa). Come se non bastasse, tra i dipendenti della famiglia Lazzaro (citata, fra l’altro, anche in una storia di documenti falsi all’interno di una truffa aggravata in cui era coinvolta anche la Casa di Riposo di Agliè) spiccava tra il 2006 e il 2007 Bruno Iaria, capo della ‘ndrina di Cuorgné appena uscito di galera grazie all’indulto (tornerà alla ribalta delle cronache giudiziarie nel 2012, in quanto esponente di spicco nella gestione della ‘ndrangheta in Piemonte rivelata dall’Operazione Minotauro; Operazione che metteva la pulce nell’orecchio anche, parole del rapporto dei Carabinieri, sulla «commessa aggiudicata da LTF (Lyon Turin Ferroviarie) per realizzare la recinzione nel cantiere di Chiomonte»). Non si sa se gioire o rattristarsi di fronte alla notizia che nell’agosto 2011 l’Italcoge andrà incontro al fallimento, lasciando in eredità anche un danno erariale di circa cinque milioni di euro. La politica locale non tardò ad esprimere il suo rammarico, sia da parte dell’on.Ghiglia del Pdl («La scelta coraggiosa di Italcoge nel cantiere Tav ne avvalora, anche simbolicamente, l’impegno professionale») sia da parte dell’on.Esposito del Pd («Esprimo la mia vicinanza umana e politica ai lavoratori dell’Italcoge e alle loro famiglie, che in questi mesi hanno lavorato in condizioni ambientali difficilissime»).
L’altra ditta coinvolta nell’appalto del cantiere, quella dei fratelli Martina, non ha nulla da invidiare: nella stessa estate del 2011 era immersa in una procedura fallimentare che di lì a qualche mese darà luogo a incriminazioni per bancarotta fraudolenta.
Ben lungi da suscitare quantomeno diffidenza nei confronti di queste figure, LTF (la società pubblica italo-francese che gestisce progettazione, sondaggi e realizzazione di una parte dell’opera) nel giro di pochissimo tempo restituì l’appalto sia alla famiglia Lazzaro (ora titolare di Italservizi) che alla famiglia Martina (ora titolare di Martina Service).
Solo per motivi di spazio si è scelto di non soffermarsi su altre aziende coinvolte nella costruzione del tunnel (come la romagnola Bentini Spa, la quale, emanazione della cooperativa rossa Cmc di Ravenna, nel 2005 affidò un subappalto ad un’azienda che gli inquirenti ritengono proprietà della ‘ndrangheta di Gioia Tauro), per una sommaria descrizione della situazione in Val Susa si legga quanto scriveva nel 2012 il giornalista Giovanni Tizian: «Che la Tav possa trasformarsi in “’ndrangheTav” è un rischio concreto…L’area della Val Susa è nota per la presenza delle ‘ndrine. Nel 1996 sono riuscite a entrare nell’Amministrazione di Bardonecchia, passata alla storia come il primo Comune del nord sciolto per mafia».

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Come spesso si asserisce, effettivamente la presenza della criminalità non può rappresentare da sola una ragione valida per impedire la costruzione di Grandi Opere necessarie alla competitività economica del nostro Paese. Giustissimo. Appunto per questo è doveroso affrontare un altro aspetto: la Tav Torino-Lione si può annoverare tra le infrastrutture indispensabili per l’Italia? Può un progetto ideato quasi trent’anni fa, in un frangente economico per molti aspetti opposto rispetto a quello attuale, essere valido nel 2015? Quando ancora si parlava di una linea Alta Velocità per i passeggeri, nei primi anni Novanta la Fondazione Agnelli sovvenzionò uno studio in cui si presagiva per il 2002 un aumento del quintuplo per quanto riguarda il numero degli avventori della linea Torino-Parigi. Cifre totalmente irrazionali, smentite alla prova dei fatti solo alla fine di quel decennio, quando le Ferrovie dello Stato furono costrette ad ammettere che il numero dei passeggeri sulla linea esistente, ben lungi dall’aver subito un brusco incremento, era addirittura calato fin sotto il milione tanto da rendere l’utilizzo della tratta non superiore al 54% della propria capacità.
Al posto di optare per un abbandono dell’opera (tanto più che la Val Susa ha già offerto molto in termini d’infrastrutture visto che ospita due strade nazionali, la diga internazionale del Moncenisio, il tunnel autostradale, l’autostrada del Fréjus, una ferrovia, l’impianto e la centrale idroelettrica di Pont Ventoux), si decise di mutarne la finalità: non più Alta Velocità per i passeggeri bensì Alta Capacità per il trasporto di merci prevedendo che entro il 2030 fosse necessaria una linea dotata di una capacità di transito non inferiore alle 40 milioni di tonnellate. La realtà, ancora una volta, deluse di gran lunga le aspettative visto che dal 1997 in poi si assistette, al contrario, ad uno spettacolare calo sulla linea esistente: vennero trasportate non più di 8,6 milioni di tonnellate nel 2000, divenute 4,6 nel 2008 e 3,4 nel 2010 (anno in cui, secondo le previsioni, si sarebbe dovuta raggiungere la quasi completa saturazione di 20 milioni di tonnellate) tant’è vero che anche ai giorni attuali la linea viene sfruttata soltanto per un quinto delle sue potenzialità.
A rendere ancora più cocente la disfatta delle stime iniziale, provvede un organo istituzionale, la Direzione trasporti, infrastrutture, mobilità e logistica della Regione Piemonte, la quale stimava qualche anno fa che il «Traffico delle merci attraverso l’arco alpino occidentale» è aumentato tra il 2000 e il 2008 soltanto dell’1%, mentre se nello stesso rapporto ci si concentra sui traffici con la Francia si scopre una diminuzione del 6% (e parliamo del periodo antecedente la crisi economica: secondo i dati Alpinfo 2010 lo scambio tra Italia e Francia, escluso il valico di Ventimiglia, ammontava a 26,3 milioni di tonnellate contro le 33,8 di dieci anni prima) mentre a livello globale l’economia non solo si sta imperniando attorno all’informatizzazione, ma sta privilegiando sempre di più i traffici provenienti dal  cosiddetto sud del mondo, Estremo Oriente in primis (ricordiamo inoltre che la Tav prima di entrare in funzione deve aspettare almeno altri quindici anni).
Un traffico esiguo che da un lato rende l’opera assolutamente evitabile e dall’altro comporta un costo da cui difficilmente si riuscirebbe a ottenere un ritorno in tempi brevi e nel protrarsi dell’attuale congiuntura: un calcolo prudenziale della società costruttrice, la LTF, parlava fino a qualche tempo fa di 20 miliardi di euro a carico dell’Italia (esclusi gli interessi sul debito contratto ed esclusi eventuali contrattempi), una cifra che secondo lo studio condotto da A. Tartaglia («Valutazione della convenienza economico/sociale della ipotizzata nuova linea ferroviaria Torino-Lione a standard AV») necessiterebbe dal primo anno di linea al fine del solo equilibrio economico «un flusso minimo compreso tra 28,4 milioni di tonnellate all’anno (nel caso ci si limiti ai soli costi d’esercizio) e 121,0 milioni di tonnellate (nel caso si calcoli anche il recupero del capitale investito). Cioè su volumi di traffico tra le 9,8 e le 41,7 volte superiori a quelli registrati nel 2010! Mentre per i passeggeri il punto di equilibrio si registrerebbe su valori tra le 5,5 e le 26 volte superiori agli attuali».
Venti miliardi di soldi pubblici in tempo di crisi, dove per raggiungere i conti in ordine si attaccano a man bassa pensioni e protezioni sociali, sono una somma difficilmente comprensibile agli occhi dei cittadini, di conseguenza l’«austero» governo Monti decise a suo tempo si proporre una soluzione «low cost»: a carico dell’Italia spetteranno soltanto 2,7 miliardi di euro, senza specificare come verranno ripartiti in un’opera che, tra le altre cose, solo per lo scavo della galleria di milioni ne richiede 8,2 (parliamo infatti, prudenzialmente, di almeno 140 milioni al chilometro).
Tutto ciò ovviamente senza contare il fatto che in Italia il costo delle grandi opere ha sempre (dicasi sempre) superato di gran lunga le previsioni iniziali (secondo l’analista Ivan Cicconi, il costo dell’Alta Velocità Torino-Napoli è ad esempio cresciuto tra il 1991 e il 2010 del 547%).

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Inoltre, non si può tacere di fronte a quella che è probabilmente la questione più grave del Tav in Val Susa, ossia la fragilità ambientale della zona. Parliamo di un ambiente ricco di amianto, di uranio (nell’ottobre 2006 il rappresentante della Asl 5 di Susa sottolineava che già ora il tasso di mortalità per problemi respiratori è superiore del 17% rispetto alla media regionale) e destinato, negli anni dei lavori, a produrre non solo tra i 10 e i 15 milioni di metri cubi di «smarino» (il materiale di scarto derivante dalla perforazione della montagna) e un notevole inquinamento acustico, ma anche, stando allo studio della Valutazione d’Impatto Ambientale presentata dalla LTF, si calcola per la tratta internazionale «ipotesi di impatto sulla salute pubblica di significativa rilevanza soprattutto per le fasce di popolazione ipersuscettibili a patologie cardiocircolatorie del 10%» solo per le polveri prodotte nel cantiere, a cui si aggiunge «un aumento delle affezioni respiratorie intorno al 10-15%». A tutto ciò va sommato anche il drenaggio: usando le parole adoperate dalla stessa LTF nel progetto del 2003, si prevede l’utilizzo di «un flusso cumulativo di acque sotterranee compreso tra i 60 e i 125 milioni di metri cubi all’anno», ossia l’equivalente della fornitura idrica di una città da un milione di abitanti con evidenti conseguenze (parole della Direzione generale Trasporti ed Energia della Commissione Europea) «sull’alimentazione idrica di paesi e città, sull’agricoltura, sui deflussi minimi dei fiumi e sulla produzione di energia idroelettrica. Inoltre, le falde intercettate avrebbero potenzialmente pressioni e temperature elevate, con problemi sia durante il cantiere che successivamente alla chiusura dei lavori in ragione del riversamento di acque calde nei fiumi a valle». Come se non bastasse, permane anche il rischio del prosciugamento di torrenti e fonti a monte degli scavi.

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I sostenitori dell’infrastruttura non conoscono dubbi o perplessità: l’opera va fatta a tutti i costi, inseguendo l’illusione di una competitività che non guarda in faccia a nessuno, rincorrendo smodatamente e ciecamente una crescita economica che, se arriverà veramente, avrà connotati ben diversi rispetto al passato. Se l’economia mondiale vuole davvero sopravvivere, non è più concepibile il dogma fondato sulla perfezione del mercato, sulla totale assenza di solidarietà, sul menefreghismo più assoluto verso il benessere collettivo, sulla strafottenza al cospetto dell’arte, della bellezza, della cultura, dell’ambiente e della natura. Opporsi alla Tav significa proprio questo: ricercare una nuova strada di crescita economica fondata prima di tutto sul rispetto. La risposta, finora, non poteva essere più brusca: l’opera non è mai stata messa in discussione, né di fronte alle analisi più disparate, né di fronte alle pressanti richieste praticamente unanimi dell’intera comunità della Val Susa (si pensi alla massiccia presenza dei cittadini che le manifestazioni No Tav richiamano costantemente, oppure al fatto che ben 25 Comuni della valle hanno finora emesso delibere contrarie all’infrastruttura e al fatto che comunque nessun Comune della zona ha mai espresso appoggio incondizionato all’opera). Le istituzioni, comprese la magistratura, l’esercito, le forze dell’ordine e quasi tutte le forze politiche di maggior rilievo, hanno preferito lo scontro diretto (si pensi a Bruno Manghi, consigliere di Prodi escluso dalla lista unitaria della Camera in vista delle elezioni politiche del 2006 dopo aver criticato pubblicamente l’opera) che non poteva non provocare pesanti e intollerabili radicalizzazioni violente in alcune frange del movimento No Tav. Perché nell’impari confronto che avviene nell’incantevole confine boscoso della Val Susa il nodo del contendere non riguarda solo un treno: la posta in gioco è ben più alta.

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