mercoledì 18 febbraio 2015

I bavagli che ci aspettano



Ci voleva una bella dose di sforzo per far passare il nostro Paese dal 49esimo al 73esimo posto (su 180) nella classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters sans frontières, eppure a forza di dai e dai ce l’abbiamo fatta. Non poteva passare inosservata la telefonata in cui i più spregevoli burattinai di Mafia Capitale, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, tributavano al direttore de «Il Tempo» Gian Marco Chiocci il vezzeggiativo di «amico nostro» dettandogli fra l’altro, col tramite del sindaco Alemanno, articoli che favorissero le cooperative di Buzzi nella concessione dell’appalto per il Centro d’accoglienza di Castelnuovo di Porto (agghiacciante l’sms spedito da Buzzi ad Alemanno il giorno della pubblicazione: «Buongiorno Gianni e uscito un ottimo articolo su il Tempo ringrazia per noi il Direttore e ancora grazie per la tua disponibilità Un abbraccio S. Buzzi»). Né sono passate inosservate le minacce, talvolta seguite da concreti atti intimidatori, che troppo spesso la criminalità organizzata riserva a giornalisti intenti a fare il proprio mestiere. Chi lo sa? Forse non è passata nemmeno inosservata l’arroganza con cui i leader politici si approcciano al circuito mediatico (memorabili i toni marcatamente craxiani che Matteo Renzi riservò ai giornalisti durante la conferenza stampa a qualche ora dalla vittoria alle primarie del Pd: «A questo ho già risposto, prego»; «questo lo avete già chiesto, avanti il prossimo»; «la profondità delle risposte dipende dalla profondità delle domande» etc.). Eppure, continuando di questo passo, la deriva giornalistica potrebbe consegnarci nelle future graduatorie risultati addirittura più umilianti. Le Camere, infatti, stanno discutendo una legge sulla diffamazione il cui testo, in cambio di una (lodevole) eliminazione della pena carceraria per i giornalisti, pare avere il preciso proposito di fare strame di ciò che resta della libertà d’informazione. Il carcere, infatti, si trasforma in una pena pecuniaria il cui limite massimo, a prescindere se si tratti de «La Stampa» o di un blog sui problemi di Spinaceto, è fissato a 10mila euro.
La multa si può evitare, questo sì, ma a patto che si pubblichi una rettifica in testa di pagina, senza titolo, senza commento, senza risposta e con tanto d’indicazione del giornalista responsabile dell’articolo diffamante. Nulla di strano, viene da pensare. Difatti il problema è un altro: la rettifica deve avvenire anche nel caso il giornalista avesse soltanto riportato la verità e, nel caso non gli fosse sufficiente né la rettifica e nemmeno l’aggiornamento dell’articolo, qualunque cittadino coinvolto nel circuito mediatico (anche il più balordo, anche il più meritevole di una sonora deplorazione pubblica) grazie ai nuovi dispositivi potrebbe addirittura chiedere a sua discrezione, con tanto di possibilità di rivolgersi a un magistrato in caso di mancato adempimento, l’eliminazione completa dal web e dagli archivi di ogni informazione a suo riguardo.
Non solo: il direttore delle testate vede gravare su di sé una responsabilità sempre più pesante. Da 8mila a 16mila euro di multa (più l’automatico deferimento all’organo disciplinare e la possibilità di denuncia) in caso di rifiuto di pubblicazione delle rettifiche e responsabilità di controllo capillare per ogni articolo pubblicato (firmato e non) anche in casi di contenuti in perenne aggiornamento come può esserlo una testata online.
Una miscela esplosiva che sembra studiata apposta per far incorrere il giornalista, di questi tempi sempre più indifeso e malpagato, nel peggiore tra gli incubi dell’Italia attuale: non il carcere, bensì la dispendiosissima e massacrante trafila giudiziaria di processi e controprocessi in cui, anche se si arriva alla conclusione e si accerti la buona fede del giornalista, il gioco non vale mai la candela. Oltre al fondato rischio che l’editore, nel frattempo, abbia trovato altre professionalità a cui rivolgersi, l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato impedisce in qualsiasi situazione un risarcimento, seppur simbolico, nei confronti del giornalista innocente.
Ricorrere al processo per diffamazione, o semplicemente minacciarlo, finisce per rappresentare indubbiamente una potentissima arma di minaccia (e soprattutto dissuasione) nei confronti di un giornalista, magari da parte di una personalità politica che di solito, al contrario, gode di un’«insindacabilità parlamentare» che gli permette di divulgare ogni scemenza che gli passi per la mente senza correre alcun pericolo.
Accade sovente che qualche personaggio nominato negli articoli si senta in dovere di minacciare strali di ogni genere e di pretendere rettifiche anche in caso di verità accertate dalla magistratura. Rimanendo nei casi capitati al «Corriere della Sera» (un quotidiano né sprovvisto di mezzi, né tantomeno dalle tendenze sovversive), quando venne dedicato un articolo alla sconcertante vicenda del direttore della biblioteca dei Girolamini Massimo Marino De Caro- che di giorno si spacciava truffaldinamente per nobile, laureato e docente universitario mentre di notte rubava letteralmente alla biblioteca i volumi più preziosi- nonostante la condanna sia in primo che in secondo grado secondo la legge avrebbe il pieno diritto di farsi pubblicare una lettera senza risposta atta a confermare tutte le menzogne raccontate da quest’uomo.
Chi non ci ha pensato due volte a sporgere querela è stato un ex-membro della Camera appartenente alla Lega Nord, Claudio Regis, al quale venne fatta notare la strana usanza di firmarsi e definirsi «ingegnere» non solo non disponendo di tale qualifica, ma ammettendo senza mezzi termini (in un’intervista a «Economy») la natura di questa frottola.
Sebbene di fronte a verità accertate, nemmeno Paolo Bonaccorsi ha rinunciato a brandire l’arma giudiziaria dopo che, divenuto assessore regionale all’urbanistica calabrese nei giorni in cui giravano insistentemente le voci sulla costruzione del ponte sullo stretto, passò alle cronache per un curriculum menzognero (con tanto di documenti taroccati finalizzati a millantare iscrizioni all’albo degli avvocati) spedito alle Ferrovie dello Stato. E come dimenticare il giudice Diego Cutrò, inorridito perché gli venne attribuita una condanna in appello per corruzione in atti giudiziari invece di una condanna in appello per corruzione semplice? E come farsi passare dalla memoria Alberto Monaci, esponente di spicco della Dc toscana imbufalito dopo che la stampa rese noto che approfittò della fine della prima repubblica per svendere per pochi spiccioli alla sua compagna un’incantevole dimora nel cuore di Siena di proprietà del partito? E come non sorprendersi di fronte a Totò Cuffaro, che sporse denuncia dopo che un giornalista osò appioppargli l’epiteto di «clientelare»?
Le querele vennero vinte dal giornale, ma la spesa processuale non fu indifferente nemmeno per un quotidiano importante come quello di via Solferino, figurarsi cosa può significare una cosa del genere per una testata dagli scarsi mezzi.
Soluzioni per arginare questa soverchieria sono poche e assolutamente semplici. Come scrive l’avvocato Caterina Malavenda: «Basterebbe, ad esempio, imporre al querelante che perde di pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna di risarcimento, in sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o, peggio, con dolo; porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di recuperare. Pochi e calibrati interventi su norme già esistenti, dunque: e l’effetto deflattivo, anche quando la “vittima” è un giornalista, sarebbe immediato». Ma evidentemente il fine che il legislatore si propone ha ben poco a che vedere con il buon senso e la difesa dei diritti dell’informazione. L’importante è far dormire sonni tranquilli a chi rischia di veder sfigurata la propria immagine sugli organi mediatici, anche a scapito di una libertà di stampa che di anno in anno ci consegna risultati sempre più imbarazzanti.

Nessun commento:

Posta un commento