sabato 15 novembre 2014

Fondata sulle tasse



Per quel tessuto connettivo di imprese oneste che ancora riesce a sopravvivere nonostante la morsa fatale di banche, criminalità e adempimenti statali di ogni genere, novembre non sarà il mese del ponte dei morti, né il mese del Jobs Act e tanto meno il mese della probabile chiusura del «patto del Nazareno». Il mese di novembre viene ricordato per un numero, 119. Tanti sono gli adempimenti fiscali che attendono i titolari di partite Iva da qui fino al primo di dicembre per poi, come nel tradizionale gioco dell’oca (in fin dei conti si tratta sempre di spennare), ricominciare da capo al punto tale da far calcolare alla Confesercenti che tra fine settembre e fine dicembre ci siano qualcosa come 187 adempimenti fiscali. Due tasse al giorno. Diego Lorenzon, presidente dell’azienda veronese Poolmeccanica Lorenzon Spa, ha provato a stilare un elenco: Cimp, Inail, Inps, Irap, Ires, Irpef, Iva, Tosa, tassa sui passi carrai, tassa sui rifiuti, tassa sulle bonifiche (ma nel frattempo sopravvive anche la tassa sulle paludi varata con regio decreto del 1904), tassa sulle proprietà, tassa sulle pubblicità, tassa sulla concessione per le frequenze, tasse sul contributo per riciclaggio, tasse sul risanamento ambientale, imposte sulle carte di credito, imposte catastali, imposte di fabbricazione, imposte sugli intrattenimenti, imposte di registro, imposte sulle successioni, imposte di bollo, imposte sulla Camera di commercio e imposte sugli oneri bancari passivi. Fortuna che non deve adempiere anche la tassa sull’ombra, pagata dagli esercenti che osano oscurare il marciapiede con la loro tenda, e fortuna che il suo comune non applica la tassa sui gradini (che devono versare i proprietari d’immobili con scalini che vanno sulla strada) o la tassa sui cani (da 20 a 50 euro per ogni Fido). Il rosario di doveri verso il Fisco ovviamente non si limita alle attività prettamente lavorative, ma si estende anche agli svaghi: se Lorenzon volesse usare il suo tempo libero andando a caccia dovrebbe pagare la concessione governativa di 115 euro per adoperare il fucile, se preferisse invece andare a pescare dovrebbe pagare la concessione governativa sulla canna da pesca (gli andrebbe peggio: qui si tratta di 173,16 euro), se invece volesse andare a raccogliere i funghi il Fisco lo inseguirebbe anche in mezzo ai boschi per fargli pagare l’imposta di bollo sui permessi di raccolta di chiodini e porcini. Se invece la sua predilezione fosse una più sedentaria partita della nazionale davanti alla tivù, conviene che ci pensi bene prima di esporre la bandiera fuori dal balcone: un albergo del nord è stato tassato anche per questo.
Quando Lorenzon passerà a miglior vita, sappia che il Fisco non si dimenticherà di lui: a parte il fatto che qualche comune potrebbe applicargli la tassa sui tumuli, si ritroverebbe comunque tra capo e collo la tassa (35 euro a cui si aggiunge un bollettino postale) per il rilascio del certificato di constatazione di decesso da parte dell’ufficiale sanitario dell’Asl e il diritto fisso sul decreto di trasporto dei defunti (58 euro, più un paio di marche da bollo). Solo per la cremazione sono richieste due imposte di bollo: una sulla domanda di affido personale delle ceneri e una sul provvedimento di autorizzazione. Nemmeno a funzioni concluse il Fisco si dimentica della buonanima: nel solo 2008 sono state spedite due milioni e mezzo di cartelle esattoriali a casa di persone decedute, e quando non si riesce a reperire il defunto ci sono sempre i congiunti a disposizione: l’Agenzia delle entrate potrebbe richiedere l’attestato di pagamento dei funerali. Se sei stanco di tutto questo e decidi di rivolgerti contro la pubblica amministrazione, sappi che anche tutte le tappe del ricorso sono regolarmente soggette a imposta.
Non bisogna quindi sorprendersi se uno studio a cura di Riccardo Fenochietto e Carola Pessino pubblicato l’anno scorso dal Fondo monetario internazionale riveli che il Tax Effort (traducibile come «sforzo fiscale») abbia toccato il tetto massimo: considerato 1 «il massimo livello di entrate fiscali che un Paese può ottenere» l’Italia si collocava nel 2011 a 0,99. Nessun altro Paese avanzato, pur disponendo di servizi sicuramente migliori dei nostri, raggiunge certi apici: eccezion fatta per la Francia e la Svezia (a quota 0,98), la media è notevolmente più bassa: la Germania sta a 0,84, la Spagna a 0,82, la Gran Bretagna a 0,86, gli Usa a 0,71 e via di questo passo.
Taluni obietteranno che molti studi (dall’Ocse all’Istat all’Eurostat) in realtà dimostrano che l’Italia non sia il Paese con la pressione fiscale più alta: l’Eurostat ad esempio ci colloca al sesto posto nel continente per livello di tassazione. Possibile che i francesi o i danesi siano più tartassati di noi italiani? E infatti l’ormai celebre rapporto tra gettito fiscale e Pil (la cosiddetta «pressione fiscale») è un metro di giudizio che non soddisfa tutti: la Banca Mondiale, ad esempio, preferisce applicare un parametro diverso, detto «total tax rate», che calcola il peso complessivo delle imposte sugli utili d’impresa (compreso il carico sul lavoro). Ebbene, in Italia (medaglia d’oro) questo dato raggiunge mediamente il 65,8%, in Francia il 64,7% in Spagna il 58,6%, nel Regno Unito il 34% e in Germania il 49,4%. Non solo: la Corte dei Conti ha scoperto che il Pil preso in considerazione negli studi della pressione fiscale è manipolato con una stima del presunto sommerso. Rifacendo i calcoli, nel 2013 l’allora presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha dichiarato durante un’audizione alla Camera che la pressione fiscale reale è almeno (almeno!) del 53%, una percentuale alquanto superiore rispetto al 44% che comunemente ci viene appioppato e che in alcuni casi (specie di piccole e medie imprese) può raggiungere il 68,3%.
Paolo Cardenà, consulente tributario e private banker, spiega cosa significano queste percentuali nella vita quotidiana di un’azienda con un utile di 32mila euro condotta in società da due artigiani:

«In questo caso, nella determinazione delle imposte da pagare a carico della società in esame, nonostante l’esiguità dell’utile – certamente non sufficiente a garantire la sussistenza degli imprenditori e delle rispettive famiglie – la tassazione pretesa dal fisco in capo alla società è di oltre 15mila euro, 15.593 euro, per l’esattezza. Di cui, 12.024 a titolo Ires, e 3.569 per Irap. Quindi, la società subisce un carico tributario di oltre il 48%. Ma la tassazione della società e dei due soci non si esaurisce con i 15.593 euro di tasse in capo alla società. Anche i soci sono colpiti dalle imposizioni tributarie e contributive. Già, per l’anno 2012, i due soci hanno corrisposto i contributi Inps, che fanno salire il conto a 21.993. Oltre ai contributi pagati sul reddito minimale, la legge prevede che ciascun socio che lavora nell’azienda debba versare anche i contributi Inps e la percentuale sulla parte di reddito eccedente il minimale. E l’imposizione fiscale complessiva, con un utile di appena 32mila euro, è già salita a quasi 25mila euro, ossia il 78% dell’utile prodotto nel 2012.
Ma c’è dell’altro. I due soci, nel corso del 2013, volendo prelevare l’utile netto realizzato nel 2012, dovranno registrare la delibera di distribuzione dell’utile, pagando 168 euro. Poi, nel 2014, nella propria dichiarazione dei redditi dovranno riportare l’utile imputato a ciascuno di loro (8.203) che andrà a formare la base imponibile in misura del 49,72% dell’utile prelevato, in quanto, in parte, già tassato in capo alla società. Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito da applicare sia il più basso (23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri deducibili pagati nel corso del 2013, dovrà corrispondere all’erario ulteriori 900 euro tra Irpef e addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate sia dalla società che dai soci, per un misero utile di 32mila euro, sale fino ad arrivare a 27mila euro, euro più euro meno. Ossia l’85% dell’utile prodotto dalla società nel 2012.
Oltre alle tasse di cui abbiamo dato nota, c’è da dire che l’impresa, durante l’esercizio, subisce altre forme d’imposizione. Si pensi, a esempio, al diritto annuale della Camera di commercio, alla tassa sulla vidimazione dei libri sociali, all’eventuale Imu (deducibile) e ad altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia, sono già considerate nella determinazione del risultato d’esercizio originario (32mila euro). E la pretesa del fisco non si esaurisce con questa pretesa assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di sostenibilità e ragionevolezza. Invero, per i cinque anni successivi, il fisco potrà esperire eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell’azienda e magari accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli indicatori previsti dagli studi di settore a cui la società è sottoposta.
Succede spesso che un’azienda paghi più tasse di quanto guadagni. Assolombardia ha condotto una ricerca su un campione di 6mila imprese [Osservatorio Assolombarda Bocconi e Prometeia, “Le imprese milanesi: struttura e dinamica reddituale. Periodo 2007-2011”, maggio 2013, ndr.] da cui è risultato che metà delle aziende ha una pressione fiscale complessiva attorno all’80% (!) e “in circa il 10% delle imprese analizzate il peso delle imposte ha superato il 100%”. Cioè guadagni 50 euro, paghi 70 euro di tasse. Incredibile. “Il nostro sistema fiscale penalizza gravemente le aziende che producono in Italia e quindi i loro posti di lavoro”, commenta l’ingegner Fabrizio Castaldi, presidente della Bcs Spa, colosso made in Italy nel settore delle macchine agricole. “Un’azienda con una pressione fiscale dell’80% non può sopravvivere con una concorrenza mondiale attestata intorno al 30%, perché risulta fortemente compromessa la sua possibilità di investire in ricerca e sviluppo. Per non implodere, l’azienda è costretta a rilocare la produzione e quindi i posti di lavoro all’estero”».

Tutto questo senza contare la fatica che richiede l’adempimento del proprio dovere fiscale: secondo Confartigianato tra il 2008 e l’agosto 2014 sono state emanate 418 norme di complicazione tributaria (una alla settimana) al punto da far dichiarare al fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti: «Ogni giorno dobbiamo fare uno slalom gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affonda nelle sabbie mobili italiane».
La causa primaria di questa incresciosa situazione non è data dalla classe dirigente, bensì da quella fascia sempre più ampia di evasori fiscali: secondo il Centro Studi di Confindustria, eliminando l’evasione le aliquote fiscali e contributive potrebbero calare del 16%. L’economista Tito Boeri si spinge addirittura oltre, sostenendo che dalla fine dell’evasione si otterrebbe un abbattimento fiscale del 20%. Al contrario di come molte personalità (compresi molti stimati editorialisti) siano portate a credere, l’evasione fiscale non è la conseguenza dell’eccessivo carico di tasse, bensì la sua causa. Partiamo da lì, una buona volta.

Nessun commento:

Posta un commento